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sabato 16 dicembre 2023

L'altro Natale

 


Se c’è una festa che arriva sempre in anticipo rispetto alla sua data, ebbene questa festa non può che essere il Natale. Luminarie, panettoni e negozi pavesati a festa si cominciano a vedere già verso la fine di ottobre. E’ la ricorrenza che più di tutte celebra quell’allegria artificiale tanto al chilo, che non ha nulla a che spartire con il Natale cristiano che celebra il rito della Natività, espressione della semplicità e della povertà. Tutto sembra artefatto: pure i pastori e i re magi nei presepi hanno, oramai, le sembianze dei divi della televisione. Per quelli della mia generazione, il Natale era forse la festa più bella, quella più attesa, e quando arrivava veniva consumata rapidamente con intensità, allegria e commozione, sia dai bambini che dagli adulti. Per i cristiani era la nascita di Gesù Bambino, per chi non credeva il Natale rappresentava, comunque, un evento straordinario, da vivere con lo stesso spirito sacrale. Oggi, il Natale è una festa come tutte le altre: l’ennesimo rito commerciale, l’ennesima overdose di consumi. Non esiste più l’attesa del Natale.

A volte mi mancano le parole per descrivere certi avvenimenti, o meglio non hanno la giusta autorevolezza, e allora quale migliore occasione per affidarsi alle parole dei grandi maestri della letteratura i quali hanno sentito la necessità di esprimere il loro pensiero sul Natale, ognuno secondo il proprio credo ed i propri sentimenti. Tra questi, Erri del Luca, uno scrittore che io stimo tantissimo per la sua scrittura potente ed evocativa. Così descrive il suo Natale:

“Nello scasso profondo dei nuclei familiari Natale arriva come un faro sui cocci e fa brillare i frantumi. Si aggiungono intorno alla tavola apparecchiata sedie vuote da tempo. Per una volta all’anno, come per i defunti, si va in visita al cerchio spezzato.
Natale è l’ultima festa che costringe ai conti. Non quelli degli acquisti a strascico, fino a espiare la tredicesima, fino a indebitarsi. Altri conti e con deficit maggiori si presentano puntuali e insolvibili. I solitari scontano l’esclusione dalle tavole e si danno alla fuga di un viaggio se possono permetterselo, o si danno al più rischioso orgoglio d’infischiarsene.
Ma la celebrazione non dà tregua: vetrine, addobbi, la persecuzione della pubblicità da novembre a febbraio preme a gomitate nelle costole degli sparpagliati. Natale è atto di accusa. Perfino Capodanno è meno perentorio, con la sua liturgia di accatastati intorno a un orologio con il bicchiere in mano. Natale incalza a fondo i disertori.
Ma è giorno di nascita di chi? Del suo contrario, spedito a dire e a lasciare detto, a chi per ascoltarlo si azzittiva. Dovrebbe essere festa del silenzio, di chi tende l’orecchio e scruta con speranza dentro il buio. Converge non sopra i palazzi e i centri commerciali, ma sopra una baracca, la cometa. Porta la buona notizia che rallegra i modesti e angoscia i re.
La notizia si è fatta largo dentro il corpo di una ragazza di Israele, incinta fuorilegge, partoriente dove non c’è tetto, salvata dal mistero di amore del marito che l’ha difesa, gravida non di lui. Niente di questa festa deve lusingare i benpensanti. Meglio dimenticare le circostanze e tenersi l’occasione commerciale. Non è di buon esempio la sacra famiglia: scandalo il figlio della vergine, presto saranno in fuga, latitanti per le forze dell’ordine di allora.
Lì dentro la baracca, che oggi sgombererebbero le ruspe, lontano dalla casa e dai parenti a Nazareth, si annuncia festa per chi non ha un uovo da sbattere in due. Per chi è finito solo, per il viandante, per la svestita sul viale d’inverno, per chi è stato messo alla porta e licenziato, per chi non ha di che pagarsi il tetto, per i malcapitati è proclamata festa. Natale con i tuoi: buon per te se ne hai. Ma non è vero che si celebra l’agio familiare. Natale è lo sbaraglio di un cucciolo di redentore privo pure di una coperta. Chi è in affanno, steso in una corsia, dietro un filo spinato, chi è sparigliato, sia stanotte lieto. È di lui, del suo ingombro che si celebra l’avvento. È contro di lui che si alza il ponte levatoio del castello famiglia, che, crollato all’interno, mostra ancora da fuori le fortificazioni di Natale”.

 


sabato 9 dicembre 2023

Quanto ad essere felici

 


“Quanto ad essere felici, questo è
il terribilmente difficile, estenuante.

Come portare in bilico
sulla testa una preziosa pagoda,
tutta di vetro soffiato, adorna di campanelli
e di fragili fiamme accese;
e continuare a compiere ora per ora i mille
oscuri e pesanti movimenti della giornata
senza che un lumicino si spenga, che
un campanello dia una nota turbata”.

Cristina Campo


sabato 2 dicembre 2023

Ho imparato...

 


… che scrivere è un atto di responsabilità perché le parole scritte possono diventare – in qualsiasi contesto – carezze o pugnali e possono causare gioie o dolori e vanno usate, pertanto, con molta cura;

ho imparato che i libri non sono tutto nella vita, e se la vita non ti cammina a fianco non puoi cercarla in un romanzo, fosse anche il più bello;

ho imparato che gli anni che passano li puoi scorgere meglio sul volto di un tuo coetaneo che non vedi da molto tempo, anziché sul tuo che osservi tutti i giorni allo specchio;

ho imparato che a volte l’intelligenza emargina, e che per essere felici in questo mondo bisogna essere anche un pò stupidi;

ho imparato che la compagnia di un amico è una cosa rara e non la si può comprare su Internet né la si può trovare su Facebook; però ho anche imparato che si può stare in ottima compagnia pur rimanendo da soli;

ho imparato che la vigilia è migliore della festa e che il piacere si nasconde nell’attesa;

ho imparato che il potere, in tutte le sue innumerevoli declinazioni, è sempre deprecabile e che discutere con un idiota che si crede potente è una battaglia persa;

ho imparato che quelli che parlano da soli – ad alta voce – e gesticolano in maniera concitata per strada, non sono dei matti – come quelli che si vedevano in giro una volta – ma “sani di mente” al cellulare;

ho imparato che quando un’opinione viene ampiamente elogiata da una maggioranza, non vuol dire affatto che non sia completamente sbagliata;

ho imparato che, oggi, il passato viene frettolosamente liquidato come un male assoluto, per nascondere meglio l’insostenibile pesantezza del presente;

ho imparato che la tecnologia non è la panacea di tutti i mali e che si può vivere, bene, anche senza uno smartphone;

ho imparato che in una guerra i militari che si fronteggiano con le armi sono tanto pericolosi quanto quelli che indossano l’elmetto nei salotti televisivi;

ho imparato che una menzogna, ripetuta all’infinito, può diventare una pericolosa verità;

ho imparato che il sacro si può anche trovare in un luogo che evochi la povertà piuttosto che la ricchezza, la contemplazione piuttosto che la meraviglia;

ho imparato che per guardare la morte con occhi meno spaventati bisogna osservare la vita con più leggerezza;

ho imparato…


mercoledì 22 novembre 2023

TG e Talk, l'indotto del dolore

 


Siamo inondati di cattive notizie, sempre più drammatiche e angosciose. In particolare, i media danno grande risalto ai fatti di sangue e continuano a proporre giorno dopo giorno – con dovizia di particolari a volte scabrosi – storie di dolori e di tragedie familiari. E’ un modo di fare informazione, questo, che non mi piace. Sottoscrivo, qui di seguito, l’articolo di Nanni Delbecchi apparso oggi su “Il fatto quotidiano”:

“Oltre ad aggiungersi alla terribile serie di donne uccise dai loro stalker, l’omicidio di Giulia Cecchettin passerà alla storia della TV, in particolare dell’informazione televisiva. Mai era accaduto che un singolo delitto diventasse la prima notizia del giorno, quasi l’unica, d’un tratto tutte le testate mutate in un coro di prefiche. Dal Pensiero Unico all’Epicedio Unico. Lunedì sera si è occupato dell’omicidio Cecchettin più di un terzo dell’intero del Tg1, oltre 12 minuti; ancora più lunga la durata del Tg5, circa la metà del notiziario. Pare che al mondo accada anche altro, ma sono quisquilie: le trattative sugli ostaggi a Gaza valgono una manciata di secondi, ancora meno quelli dedicati al conflitto ucraino (Zelensky chi?). In compenso su Giulia nulla è trascurato dai potenti mezzi del tg. Nugoli di microfoni assediano il procuratore di Venezia: si vuol sapere in diretta quali capi d’imputazione, quanti giorni, minuti e secondi ci vorranno per l’estradizione di Filippo (fermate le rotative). Un inviato del Tg1 è spedito nottetempo davanti al carcere di Halle: “Vedete, Turetta ha passato qui la sua seconda notte” (rifermate le rotative). Il Tg5 raduna alcuni psicologi da salotto che ci spiegano tutto dell’assassino: “Non é un raptus, questi gesti si premeditano”; “Filippo voleva tornare con Giulia, ma era anche invidioso dei suoi studi” (Bloccate definitivamente le rotative). Poi, i volti rigati di lacrime, le ispezioni cadaveriche, il censimento delle coltellate…il trionfo della cronaca nera sull’informazione, grande classico di ogni regime, con i suoi manti funebri a coprire ogni accadimento. E la tv del dolore spacciata per notizia, la merce più ghiotta per lo share che per la prima volta esonda da ballatoi pomeridiani e presidia i tg. E vai con l’indotto del dolore: politici e opinionisti pronti a offrire il loro profilo migliore per aprire il dibattito sul patriarcato, sul satanismo, sulla cultura dello stupro. La morte sarà di destra o di sinistra? Ci siamo dimenticati di domandarlo a Gaber, ma l’impressione è che tenda al campo largo”.

Nanni Delbecchi


venerdì 10 novembre 2023

Non si resta e non si parte mai del tutto

 


Ho letto molti libri di Vito Teti, un antropologo calabrese che si occupa di letteratura dei luoghi, argomento di cui sono estremamente appassionato. E’ diventato il mio punto di riferimento e sebbene i suoi testi raccontino, in modo particolare, i paesi della Calabria, trovo che gli stessi siano un valido punto di osservazione e di aiuto per conoscere e capire fenomeni di portata universale.

In questo suo ultimo saggio che si intitola “La restanza” (Einaudi), Teti ritorna su quelle tematiche a lui care come la ricerca d’identità attraverso il luogo nativo, l’emigrazione, l’antropologia dei paesi. Egli dice che noi siamo il luogo in cui siamo nati e cresciuti e siamo il luogo che abitiamo e da cui a volte fuggiamo, per necessità. E siamo il luogo che percorriamo e raccontiamo. Restare o partire non è mai una decisione che si prende a cuor leggero, senza incertezze e lacerazioni, perché un luogo è un insieme di relazioni umane, di affetti, di legami talvolta incerti e mutevoli, seppure fondamentali. Il luogo, oltre ad occupare una posizione geografica, è innanzitutto una costruzione culturale e antropologica di immagini, di vita e di racconti che abbiamo ereditato, è condivisione e partecipazione con chi ci vive e con chi ci torna saltuariamente, ma anche con chi lo ha abbandonato per sempre, a causa di migrazioni e di eventi naturali funesti come terremoti, frane, alluvioni.

Ognuno vive e resta in un luogo - paese o città che sia – eppure “restare in paese”, oggi, è percepito come un modo antiquato di stare al mondo, seppure complementare a quella visione neoromantica che celebra, invece, la retorica di un mondo salvifico da cercare proprio nel paese. Ci vorrebbe una più accorta antropologia dei luoghi, sostiene Vito Teti nel suo libro, capace di immaginare e decidere un diverso modello di sviluppo, “un nuovo patto sociale e valoriale tra quelli che restano e quelli che partono, tra quelli che tornano e quelli che arrivano”.

Bisogna capire – ribadisce Teti – che i piccoli borghi non migliorano e non si rilanciano con gli slogan, non si rivitalizzano con espedienti pubblicitari come l’arrivo di qualche personaggio famoso, o con proposte occasionali come la ristrutturazione di qualche casa con piscina, ma creando condizioni essenziali per consentire a chi vuole restare di rimanere nel suo paese, per favorire il ritorno a chi è andato via e per ospitare chi ha maturato la scelta di vivere in un paese, lontano dai rumori e dallo smog. Far vivere un paese significa ricostruire dei veri legami comunitari, ma questo non si ottiene attraverso la vendita “a un euro” delle case abbandonate dai proprietari. Per Vito Teti è una scelta devastante, questa, perché restituisce l’idea che quella casa non ha nessun valore, e significa quindi svalutare il prezzo delle case dei residenti che hanno continuato a vivere nel paese. Insomma, è come svendere la memoria di una comunità.

Come tutti i libri di Vito Teti, anche questo ripercorre, con una scrittura intima e poetica, alcuni suoi momenti autobiografici costringendo il lettore ad interrogarsi sul proprio modo di vivere il tempo e di abitare uno spazio, che sia un paese o una città. Così scrive: “Vivo nella casa in cui sono nato…e dove sono sempre tornato. Da fuori arrivavano le voci dei bambini che giocavano e i passi, i rumori, delle donne, degli uomini, degli asini, delle caprette che tornavano dalla campagna. Oggi arriva il silenzio senza colore. Il balcone si affaccia sulla ruga, dentro il paese, sul pieno di un tempo e sul vuoto di oggi. Anche se tutto è cambiato, tutto è riconoscibile ed in questa persistenza si consumano il paradosso e lo stigma del disfacimento. (…) Nel mondo da cui provengo e a cui sono rimasto fedele, magari a costo di qualche tradimento, ho imparato il valore della fatica, della solidarietà, delle piccole cose che più tardi ho scoperto, sui libri, essere il valore della polis, della comunità. Sono uno dei restanti più tenaci e resistenti tra quelli a me noti, anomalo, perché sono inquieto, amo viaggiare e cambiare spesso luoghi e contesti. Sono cresciuto a cavallo di tre generazioni e, contemporaneamente, nel crinale di due età, di due epoche, di due civiltà. In poco più di un trentennio ho vissuto diecimila anni, dalla nascita delle società agropastorali al loro inesorabile sparire. Incerto, irrequieto, sospeso, un tempo immaginavo che sarei vissuto in un mondo nuovo, nella modernità; nella frenesia di un tempo dinamico. Lo studio appassionato, il vortice delle letture e i viaggi mi hanno insegnato che il mondo antico dei padri non veniva davvero sostituito dal mondo nuovo dei figli, anche se tutto quel che resta del passato, dei ricordi, della vita è sempre più essenziale per orientarmi in questo universo fragile, insicuro, attraversato da un’idea di futuro sempre meno definita con l’aumentare delle mie consapevolezze”.



mercoledì 1 novembre 2023

Dieci anni di blog

 


445 post, oltre 3200 commenti, poco più di 157.000 visualizzazioni: questi sono gli attuali numeri del mio blog nato nel novembre del 2013, dieci anni fa. Non sono numeri straordinari se paragonati ad altri siti web, però ne sono ugualmente soddisfatto. Come scrissi nella mia presentazione, volevo “fermare il tempo” e non disperdere ciò che mi appartiene, condividendo pensieri, riflessioni, letture, divagazioni. E per soddisfare, forse, quell’intimo desiderio insito in ogni uomo che scrive: essere letto da qualcuno. Diceva Pavese che “è bello scrivere perché riunisce le due gioie: parlare da solo e parlare a una folla”.

Mi domando, però, se abbia ancora un senso scrivere su un blog, consapevole del fatto che nella storia dell’umanità non si è mai scritto così tanto come nell’epoca che stiamo vivendo. Siamo letteralmente sommersi dalle parole, non sempre eccelse, e a volte mi chiedo quale importanza possano avere le mie.

Nel blog ho cercato di parlare dei libri che man mano andavo leggendo soffermandomi, in particolare, su quegli autori quasi dimenticati, prima ancora che dai lettori, dagli stessi editori: Giuseppe Berto, Lalla Romano, Ercole Patti, Michele Prisco, Giovanni Arpino, A.M. Ortese, Luciano Bianciardi, tanto per fare alcuni nomi. Ho insistito con quegli scrittori che più amo e che leggo e rileggo: Pavese, Pessoa, Proust, Svevo, Seneca…Mi sono addentrato, e continuo a farlo, nel meraviglioso mondo dell’arte e della poesia alla ricerca di bellezza e di sensazioni. Ho esplorato con passione la mia terra – il Cilento – con i suoi paesi arroccati sulle colline e ho descritto le bellezze e le brutture di una delle città più affascinanti del mondo, Roma, dove vivo da tanti anni. Ho osservato fatti e misfatti di questa nostra società, sempre più omologata e globalizzata,  cercando di capire il mondo tecnologico con i suoi derivati, che tutto forgia a sua immagine e somiglianza. Un mondo  lontano anni luce dalla mia filosofia di vita, che non prevede urgenze da smartphone. Ho solo sfiorato la politica, che mi ha deluso e mi ha tradito, e non vado più a votare. Ho cercato di guardare, più da vicino, i mezzi di comunicazione di massa che veicolano e manipolano informazioni e individui. Ho raccontato le mie malinconie, la mia solitudine, i miei rimpianti, le mie nostalgie. Mi sono fermato a riflettere sul tempo che scorre e lascia i suoi segni indelebili sulle cose e sugli uomini. E mi sono confrontato piacevolmente con persone squisite che – da dieci anni - hanno ancora la pazienza di leggermi.


giovedì 19 ottobre 2023

Imparare le poesie a memoria

 


Italo Calvino sosteneva che imparare le poesie a memoria, ripeterle mentalmente da bambini, da giovani ma anche da vecchi, è un ottimo esercizio per tenere viva la memoria e combattere l’astrattezza del linguaggio che ci viene imposto. E poi le poesie fanno tanta compagnia. Si potrebbe cominciare con quelle più corte, più facili da ricordare.

 Corre senza guinzaglio la poesia.

Nessuno si azzardi a dire: è mia.

Franco Marcoaldi


lunedì 16 ottobre 2023

Caro, dolcissimo Proust...

 


“Tu sei stato l’ultimo erede di una tradizione che ha creduto, come fine supremo dell’uomo, nell’arte. Hai esplorato con estremo coraggio il Continente Uomo, nei suoi vizi e nei suoi ideali. Hai estratto dal mondo fisico dei segni che nessun altro era riuscito a decifrare. Hai scoperto giardini nelle tazze da tè. Il campanile di una chiesa, una siepe di biancospino, i ciottoli disuguali del cortile di una casa, l’odor di muffa di un gabinetto, il rumore di un cucchiaio contro un piatto o lo scorrere dell’acqua nei tubi, e tante piccole cose per altri insignificanti hanno trovato in te lo storico e il poeta: e così i tristi effetti della patologia, della nevrosi, i tic, le nevralgie, i nostri peccati futili e gravi. Ti sei murato prigioniero in un faro, come Baudelaire, mescolando nell’ampia coppa del tuo sistema sostanze disparatissime: positivismo e bergsonismo, misticismo e intelletto, estasi e analisi, critica e immaginazione, platonismo e conoscenza. Parlando di tutto, di pittura, di teatro, di architettura, di musica, di poesia, inseguivi la specifica e volatile essenza delle cose, per la riconquista di un paradiso di essenze. Modernissimo fino allo spasimo, hai adorato perdutamente il sapore, il colore di cose vecchie e svanite della Francia “seigneuriale” e borghese, nel mistero religioso delle cattedrali, nella maestà della pietra.

Più di noi che in esse viviamo hai amato le nostre città, anche quelle che non conoscevi o che conoscevi soltanto attraverso mediocri riproduzioni o il suono vivo del loro nome: Parma, Firenze. Hai riversato nelle tue pagine le ansie ingenue del bambino e le insensate manie aristocratiche e, nella circolarità della tua esperienza, con quale tenerezza crudele osservavi la metamorfosi dello splendido volto umano nella immonda maschera goyesca, nelle decrepite ombre che in un istante d’allucinazione credono di essere libere, così come le belve, chiuse nelle gabbie del Jardin del Plantes, sognano di trovarsi nei deserti dell’Africa. Nella tua infinita prolissità ci hai costretto a soffrire, ad amare, ad annoiarci, ci hai regalato tristezza ed entusiasmo, fiducia e sconforto, guidandoci nella tua folta selva per poi disperderci, umiliarci. Hai scritto un’altra Commedia, o un nuovo Roman de la Rose. Ed ora che sulla tua opera si è depositata, come nelle antiche pitture, l’unità trasparente che chiamasti <<le vernis des maitres>>, e la patina è il velo che solo il tempo sa dare alle immagini dell’arte, anche ora avvertiamo di non poterti situare nella tranquilla luce diffusa, un po' fredda, che impongono le cosiddette operazioni critiche della storia. Da tutto quel che si è scritto, che è come una cattedrale piena di irte guglie su un’altra immensa cattedrale, ci basta ricavare la consolante certezza, che hai cambiato il vecchio mondo senza distruggerlo”.

Giovanni Macchia – “L’angelo della notte”


lunedì 9 ottobre 2023

Leggere lentamente

 


Leggo con estrema lentezza, che sia una pagina di un romanzo o un articolo di giornale. Quando prendo in mano un libro, intendo fare un percorso di pacata riflessione non già una gara di velocità con la scrittura, per arrivare rapidamente alla fine. E’ come intraprendere un viaggio: la felicità non è raggiungere la destinazione finale, ma godersi le bellezze lungo il percorso. Posso anche leggere solo poche pagine, fermarmi e poi riprendere la lettura: un modo questo per interiorizzare, ripensare, fantasticare. Spesso sento dire: “è un libro che ho letto tutto d’un fiato”; oppure, “l’ho divorato in una sola notte”. Devo dire che io non sono così vorace: e poi di notte preferisco dormire…quando ci riesco. E’ un tipo di lettura che non mi appartiene, e se un libro mi piace, amo sorbirlo piano piano, parola dopo parola, anziché ingurgitarlo. Diciamo che lo faccio durare di più.

Il libro è il cibo dell’anima e, al pari di un piatto prelibato, va “masticato” lentamente per assaporarlo meglio in tutti i suoi aspetti. Occorrono anni di lavoro per scrivere un libro e – secondo il mio parere - non lo si può mettere da parte e liquidare solo dopo poche ore di lettura. E’ come fare uno sgarbo al suo autore e non riconoscere il suo impegno, la sua fatica di scrivere. In qualche maniera, il modo di leggere è l’espressione del “ritmo” che abbiamo imposto alla nostra esistenza: c’è chi preferisce correre, quindi leggere molti libri, stare dietro a tutte le novità editoriali; c’è chi dice di avere poco tempo a disposizione e salta le pagine, per arrivare subito alla fine; e chi invece predilige passeggiare con le parole, andare piano, stare più a lungo con  il suo libro. Secondo lo scrittore Milan Kundera c’è un legame segreto fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio. Infatti se una persona cammina per strada e, ad un tratto, cerca di ricordare qualcosa, immediatamente rallenta il passo, si ferma a pensare. Chi invece vuole dimenticare, accelera la sua andatura, perché vuole allontanare da sé il passato. E il lettore compulsivo è uno che ha fretta, che ama la velocità, e non vede l’ora di passare al libro successivo, che è sempre migliore del precedente.

Leggere lentamente, invece, è voler ricordare, è soffermarsi sulle parole ascoltandone la cadenza, la musicalità, il significato più profondo; è saper cogliere il silenzio che si nasconde tra una frase e l’altra; è poter distogliere, ogni tanto, gli occhi e la mente dalla pagina per pensare e viaggiare in un mondo parallelo; è trovare connessioni e collegamenti con altri libri. Leggere lentamente è fantasticare; è poter sottolineare ciò che più colpisce l’immaginazione. E’ chiaro che è una modalità di lettura, questa, suggerita solo dai grandi autori della letteratura, cioè da quei libri che non si abbandonano mai, che si lasciano ma poi si riprendono, che si tengono sempre a portata di mano sul comodino, perché la sola vista procura piacere.


domenica 1 ottobre 2023

La pubblicità ti fa sentire sempre insoddisfatto

 


Fare leva sulle emozioni e sui sentimenti della gente, per spingerla a desiderare e a comprare una cosa, è una delle manipolazioni più aberranti dell’odierna società dei consumi. Lo dico senza mezzi termini: io detesto la pubblicità in tutte le sue forme. La evito come la peste, non la guardo, eppure riesce spesso a imbrigliarmi con i suoi invadenti tentacoli. Lo scrittore Erri De Luca sostiene che non può farne a meno: lui dice che è l’unico modo per sapere quali sono i prodotti da non comprare. E’ una strategia anche questa, ma non so quanto sia vincente. Io però preferisco oscurarla, la pubblicità: seguire e avvalorare, in qualche maniera, i suoi messaggi ossessivi mentre interrompono la visione di un programma televisivo, significa farsi del male da soli. 

La pubblicità è un vero e proprio bombardamento quotidiano, continuo e intollerabile. Prima di comprare un prodotto che davvero serve, sarebbe meglio leggere attentamente l’etichetta, anziché fidarsi dei “consigli per gli acquisti”. D’altra parte il motto di chi fa pubblicità è: “non prendete la gente per stupida, ma non dimenticate mai che lo è”. Insomma, i pubblicitari – i “creativi” della nostra epoca - non hanno grande stima delle persone a cui si rivolgono con parole e immagini, sempre false e ingannatrici.  E se poi uno spot pubblicitario – uno come tanti – viene enfatizzato e addirittura additato come opera d’arte, fino a monopolizzare il dibattito socio-culturale di un paese, allora significa che siamo veramente alla frutta.

Frédéric Beigbeder - prima di diventare un personaggio noto - faceva il pubblicitario in una grande agenzia francese. Nel 2000, consapevole che la pubblicazione di un suo libro “99 francs” (tradotto in italiano “Lire 26.900”) gli avrebbe causato il licenziamento, non esitò a denunciare, in una maniera davvero spietata, tutto il marcio del mondo della pubblicità. Così scrive nel suo libro:

“Tutto si compra: l’amore, l’arte, il pianeta Terra, voi, io. Scrivo questo libro per farmi licenziare. Se mi dimettessi, non beccherei l’indennità. Mi tocca segare il confortevole ramo su cui sto appollaiato…Preferisco essere sbattuto fuori da un’impresa che dalla vita. (…) Sono un pubblicitario: ebbene sì, inquino l’universo. Io sono quello che vi vende tutta quella merda. Quello che vi fa sognare cose che non avrete mai. Cielo sempre blu, ragazze sempre belle, una felicità perfetta, ritoccata in Photoshop. Immagini leccate, musiche nel vento. Quando, a forza di risparmi, voi riuscirete a pagarvi l’auto dei vostri sogni, quella che ho lanciato nella mia ultima campagna, io l’avrò già fatta passare di moda. Sarò già tre tendenze più avanti, riuscendo così a farvi sentire sempre insoddisfatti. Il Glamour è il paese dove non si arriva mai. Io vi drogo di novità, e il vantaggio della novità è che non resta mai nuova. C’è sempre una novità più nuova che fa invecchiare la precedente. Farvi sbavare è la mia missione. Nel mio mestiere nessuno desidera la vostra felicità, perché la gente felice non consuma. La vostra sofferenza dopa il commercio. Nel nostro gergo l’abbiamo battezzata “frustrazione post-acquisto”. Non potete stare senza un prodotto, ma non appena lo possedete, dovete averne un altro. L’edonismo non è un umanismo: è un cash-flow. Il suo motto? “Spendo dunque sono”. Ma per creare bisogni si devono stimolare la gelosia, il dolore, l’insoddisfazione: sono queste le mie munizioni. E il mio bersaglio siete voi. (…) Siete di fronte a individui che disprezzano il pubblico, che vogliono mantenerlo in un atto d’acquisto stupido e condizionato. Nel loro animo si rivolgono alla “rincoglionita sotto i cinquant’anni”. Voi cercate di proporre qualcosa di divertente, che rispetti un po' la gente, che tenti di tirarla verso l’alto, perché è una questione di buona creanza quando s’interrompe un film in tv. E vi viene impedito. (…) Idealmente, in democrazia, l’intento dovrebbe essere quello di utilizzare il formidabile potere della comunicazione per smuovere le menti anziché annientarle. Questo non succede mai perché le persone che dispongono di questo potere preferiscono non correre rischi. (…) Vedrete che un giorno vi tatueranno un codice a barre sul polso. Sanno che il vostro unico potere risiede nella vostra carta di credito. Hanno bisogno di impedirvi di scegliere. Devono trasformare i vostri atti gratuiti in atti d’acquisto. (…) Gli uomini politici non controllano più nulla; è l’economia che governa. Il marketing è una perversione della democrazia: è l’orchestra a dirigere il direttore. Sono i sondaggi che fanno la politica, i test che fanno la pubblicità, i panel che scelgono la programmazione musicale alla radio, le “sneak preview” che determinano il finale del film, l’auditel che fa la televisione. (…) Creativo non è un mestiere in cui devi giustificare il tuo salario; è il salario a giustificare il tuo lavoro. Come per gli autori di programmi televisivi, la carriera è effimera. Ecco perché un creativo prende in pochi anni quello che una persona normale guadagna in una vita intera. (…) La pubblicità si è messa a dettare legge su tutto. Un’attività che era partita quasi per scherzo domina ormai le nostre vite: finanzia la televisione, condiziona la stampa, regna sullo sport (non è la Francia che ha battuto il Brasile nella finale di Coppa del Mondo, ma Adidas che ha battuto Nike), modella la società, influenza la sessualità, sostiene la crescita economica…”



sabato 16 settembre 2023

Compagni di scuola

 


Ritrovarsi con dei vecchi compagni di scuola che non vedi da oltre mezzo secolo – lo confesso – fa uno strano effetto, tanto disorientante quanto emozionante. E’ un po' come ritrovare la strada perduta, o meglio, ritrovare finalmente se stessi attraverso gli altri.

Quante volte avevo guardato quella vecchia e ingiallita foto di gruppo, in bianco e nero, scattata sul piazzale antistante la scuola dove quell’anno (credo fosse il 1967) frequentavo la quarta ginnasio! Quanti ricordi mi trasmetteva quella fotografia a cui ero molto affezionato, ogni qualvolta mi capitava di osservarla! In prima fila, il Preside, una persona molto severa che suscitava, ai professori prima ancora che a noi studenti, un certo timore reverenziale per la sua grande cultura; e poi il timido e pacato professore di Lettere che addirittura arrossiva in certe particolari occasioni; e come non ricordare il mitico professore di educazione fisica che ci chiamava “bifolchi” quando lo facevamo arrabbiare. Scrutando quei volti, a volte mi domandavo: chissà cosa farà, oggi, il mio ex compagno di banco, Germano: invidiavo (io che ero un timido inguaribile) i suoi interventi sempre appropriati su qualsiasi argomento scolastico. E poi Giuseppe B., il più bravo della classe:  uno studioso instancabile! E poi ancora Antonio P. con quella sua aria da filosofo incompreso che si illudeva di sapere tutto! E Michele, con quella sua faccia un po' così, da Adone malinconico, il più corteggiato dalle donne! E già: le nostre donne, le nostre care compagne di classe che erano in minoranza rispetto a noi maschietti: la dolce Gina, la silenziosa Filomena, l’ironica e sempre pungente Piera, e poi Rosa, Irene….e le altre due compagne di cui non ricordavo più il nome e a cui oggi chiedo scusa. Ma il tempo, ahimè, fa di questi scherzi!

Poi un bel giorno di fine estate – dicevo - mi arriva una chiamata sul telefono di casa (non so come abbiano fatto a rintracciarmi, visto che non ho cellulari e non sto sui social e cerco di sfuggire a tutti i radar). “Sono Rosario” – mi dice una voce dall’altra parte – “ti ricordi di me? 4^ C, secondo banco, fila centrale. Ti aspettiamo…non puoi mancare…vengo a prenderti alla stazione” (gli avevo detto che abitavo a Roma). Andare o non andare? Di fronte ad una rimpatriata scolastica, a distanza di tanti anni, si affaccia sempre una sorta di timore generato dal confronto tra il passato e il presente. Mi viene in mente quella famosa battuta di Nanni Moretti nel film “Ecce bombo”, quando il protagonista dice al telefono: “mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?” Nonostante la mia titubanza, la mia indole solitaria, sciolgo il dilemma: prendo il treno e parto. Ero curioso di vedere come “eravamo ridotti” dopo 53 anni di lontananza. Volevo vedere la mia vecchiaia stampata sul volto di quei miei ex compagni di scuola. Ero curioso di scoprire  i successi e i fallimenti, le gioie e i dolori che la vita aveva imposto a ciascuno di noi. E mentre il treno mi portava nel luogo stabilito, mi veniva da pensare che a volte si trascorre una vita intera preparandosi a un avvenimento: e quell'avvenimento sembrava essere, ora, la nostra rimpatriata partorita dalla mente di qualcuno che forse, più di tutti, avvertiva questa nostalgia. Nel corso degli anni tutto sembra conservarsi, però si scolorisce come quella fotografia che avevo sotto gli occhi di un passato ormai lontano, che ci ritrae ragazzi inconsapevoli del proprio futuro. E così sbiadiscono, ma non muoiono mai, anche i ricordi. E ora che sono “vecchio” penso spesso alla mia gioventù. Dicono che sia una cosa naturale: quando l’inverno si approssima, il ricordo delle belle giornate estive si fa più forte.

E così ci siamo finalmente ritrovati - con esistenze e caratteri diversi, ma soprattutto con un aspetto fisico che ha messo a dura prova la nostra memoria visiva - in un ristorante affacciato sul meraviglioso mare del Cilento dove aleggia il mito di Palinuro, il nocchiero di Enea, annegato proprio da quelle parti. Un vero salto nel passato con gli stessi attori, solo un po' invecchiati. Baci, abbracci, emozioni, amnesie, risate, sguardi meravigliati… “ma tu chi sei? Oddio non ti riconosco”…”ma che piacere rivederti”…”ma non sei per niente cambiato, forse eri già vecchio prima”…”ma adesso che sei in pensione come passi il tempo?.… Giuseppe…Gaetano…Enzo…Irene…Antonio e tutti gli altri, compresi quelli che, purtroppo, non ci sono più…Dante…Mario…Fernando, a cui va il nostro pensiero.

Una rimpatriata di classe a volte può ricompattare un gruppo che, forse, in tempi scolastici non era affatto unito. Non esistono più invidie, rivalità, rancori, paure, sentimenti propri di una certa età. Si è più liberi e disincantati, non si ha più nulla da perdere, si è in pace con se stessi, con il mondo...e con la scuola. Si è più disponibili all’amicizia e ai ricordi. Devo dire che per qualche ora siamo ritornati ad essere i ragazzi spensierati di un tempo, dimenticando le nostre rispettive responsabilità, i nostri attuali ruoli sociali e familiari. Sono riaffiorati i ricordi, i momenti condivisi fatti di complicità tra i banchi di scuola, gli sfottò, tra risate e felicitazioni. L’occasione ci ha permesso di conoscerci meglio e di raccontare le nostre vicende personali, le nostre storie, i nostri rimpianti e di riannodare i fili di un’amicizia rimasta, per tanti anni, accesa come la brace sotto la cenere. E ora che ci siamo ritrovati, ci siamo ripromessi di rivederci al più presto, perché davanti a noi non c’è più una prateria ma solo un piccolo orticello che va coltivato con passione, giorno dopo giorno.


lunedì 11 settembre 2023

Vagabondare in autunno

 




Mi viene da pensare: ma dove eravamo rimasti? Poi mi rendo conto che una simile domanda non è più sostenibile, appare quanto mai anacronistica, fuori dal tempo. Io però mi ostino ad andare controcorrente. Con i moderni mezzi di comunicazione, oggi non esiste più sospensione tra il prima e il dopo. Non ci si lascia mai. Si è sempre connessi con il mondo intero senza soluzione di continuità. E non esiste più l’attesa. Abbiamo rinunciato alla “vigilia”, un tempo prolungato di felicità e di piacere, saltando direttamente alla festa che è, invece, un tempo breve che vola via in un attimo. Intanto il tempo inesorabilmente scorre, come sempre, rosicchiando i nostri giorni. Le nostre stagioni. E in questo precipitare verso la fine viviamo velocemente. Senza pause. Senza fermarci mai.

Comunque sia, ci eravamo lasciati in piena estate, o meglio, avevo chiuso questo spazio durante quelle interminabili roventi giornate di luglio. Ad oggi, i giorni si susseguono quasi identici, il caldo ancora imperversa e non sembra finire, anche se stiamo scivolando lentamente verso l’autunno, almeno dal punto di vista meteorologico. Ma non esistono più neanche le stagioni di una volta… e non è solo un modo di dire: ce la stiamo mettendo davvero tutta per stravolgere anche quelle. Ormai si passa direttamente dal caldo al freddo e viceversa. Ma cosa rappresentano per noi le stagioni? Ho cercato di scoprirlo leggendo il libro - poetico e malinconico – del filosofo Duccio Demetrio “Foliage - vagabondare in autunno”. Ed è proprio l’autunno il filo conduttore di questo saggio, arricchito dal pensiero filosofico, da poesie, da cenni letterari e diaristici, da immagini pittoriche, in particolare di quelle scuole che più l’hanno dipinto come gli impressionisti e i macchiaioli.

Ognuno di noi si immedesima in una stagione e durante lo scorrere delle altre non fa che aspettare che torni la propria, si legge nel libro. La mia sta arrivando e – diciamo pure – che ci sto già dentro: è l’autunno. E’ quella che mi è più congeniale. Prima ancora che una stagione dell’anno, l’autunno per me è uno stato mentale, un tempo interiore, una disposizione d’animo, un modo di vivere. Le quattro stagioni sono la metafora della condizione umana. Che la primavera rappresenti la giovinezza, l’estate il pieno fulgore (la bella estate di Pavese) e l’autunno la vecchiaia ai suoi inizi, ad un passo dall’inverno che ci verrà a trovare, prima o poi, con i suoi silenzi, le sue solitudini e i suoi acciacchi – scrive Duccio Demetrio – è un’immagine fin troppo risaputa. D’altra parte ogni stagione, in quanto esperienza prima di tutto sensoriale, incide su di noi e indirizza il nostro modo di essere e di agire. In particolare l’autunno, con le foglie che cadono dagli alberi – “dal mio nome ogni giorno cade una lettera”, dice Franco Arminio - con i suoi ritmi lenti, con lo scemare progressivo della luce, con i suoi paesaggi nebbiosi, con il suo declinare verso il freddo dell’inverno, si rivela molto vicino a certi miei stati d’animo velati di malinconia. “Veder cadere le foglie mi lacera dentro/soprattutto le foglie dei viali/soprattutto se sono ippocastani”, recitano i versi di una struggente poesia del poeta turco Nazim Hikmet. L’autunno è da sempre fonte di ispirazione poetica, tanto triste per i suoi detrattori quanto dolce per chi lo ama e in esso si immedesima.

Vagabondare con la mente, se non si riesce con le gambe, deve condurci a riscoprire questa stagione in tutta la sua essenza, in tutta la sua bellezza. L’autunno ci invita a scrivere, a non smarrire i ricordi di questi mesi, a viverlo sia come esperienza interiore che come impegno esteriore rivolto a tutti quei piccoli accadimenti, alle suggestioni e alle atmosfere che più ci colpiscono. L’autunno che è in noi va cercato e scoperto, bisogna prendersene cura come un modo di esistere, come stile di vita in controtendenza. E’ infatti in questi giorni settembrini che si fanno largo (tra passeggiate nei boschi a cercare funghi o castagne, allegre vendemmie o solitarie meditazioni) “i bilanci esistenziali necessari a dar senso morale alla propria vita”.

“Amo l’autunno – scriveva Flaubert - questa triste stagione si addice ai ricordi. Quando gli alberi non hanno più foglie, quando il cielo conserva ancora al crepuscolo la rossa tinta che indora l’erba appassita, è dolce guardare spegnersi tutto ciò che poco fa bruciava ancora in noi”.



sabato 22 luglio 2023

Radici

 


Ritornare nel “natio borgo selvaggio” - da cui forse non mi sono mai allontanato – è un rito irrinunciabile che si ripete ogni estate. E’ il luogo dell’infanzia e dell’adolescenza dove la “dolente bellezza” (prendo a prestito questa espressione di Carlo Levi in “Cristo si è fermato a Eboli”) non si manifesta esplicitamente in opere d’arte, in fontane seicentesche e statue barocche, ma la si scopre in certi angoli appartati, ben nascosta ad un osservatore frettoloso, in certi panorami al tramonto, in certi scorci naturali avvolti nella calura estiva, dove il silenzio è rotto solo dal canto incessante delle cicale.

Ogni piccola cosa degna di essere osservata è necessario scovarla, in un paese, e prendersene cura affinché resista nel tempo; ogni ricordo va nutrito, coltivato affinché si rinnovi quell’ intesa di fiducia e fedeltà alle proprie radici, quel senso di appartenenza su cui si fonda la nostra identità. E’ la casa in cui si è nati; è la strada in cui si è giocato a pallone; sono gli alberi su cui ci si è arrampicati scorticandosi le ginocchia; sono le case abbandonate, un tempo abitate da persone del posto; è il dialetto che parlavi come la sola lingua conosciuta; è il cimitero dove sono sepolti i propri defunti; è quel viottolo di campagna percorso in groppa all’asino del nonno; è il rintocco delle campane a festa che chiamava a raccolta una comunità che, oggi, non esiste più. Perché quel tempo non esiste più!

Immagini, sensazioni, ricordi che ritornano alla mente. Cose semplici colorite di infinite illusioni che ti appaiono, adesso, come le scene di un teatro a spettacolo finito, mentre senti il tuo cuore stretto da un’ indicibile malinconia. La malinconia degli anni che passano e delle stagioni della vita che si succedono, “del tacito infinito andar del tempo” diceva Leopardi. E mentre te ne stai, da solo e in silenzio, su quel terrazzino della casa avita che guarda verso il mare, riemerge quello che sei stato, come un temporale improvviso che ti coglie alla sprovvista e ti bagna. E tu ti lasci bagnare senza cercare alcun riparo, concedendo ai ricordi di fluire leggeri. E ti domandi cosa è rimasto in te del tuo paese, della vita di prima, quando non sapevi come sarebbe stato il tuo futuro e il solo immaginarlo ti faceva stare male, perché capivi che il futuro non poteva essere lì. E ti domandi cosa è rimasto di quella antica civiltà contadina esiliata dalla storia e con una diversa concezione del tempo, dove i giorni, i mesi, gli anni si succedevano monotoni senza che nulla cambiasse.

Si può essere costretti a spezzare gli antichi legami e partire. Ma poi arriva il momento del ritorno. E ritornare nel luogo in cui tutto è cominciato significa compiere una sorta di cammino a ritroso e guardare la realtà che ritrovi con occhi diversi. Ma niente è più come prima. Quella zona lontana che chiami passato non è altro che uno spazio d’oblio che attende, comunque, il momento per risorgere. Se ne sta nascosto in qualche anfratto, magari in un insospettabile oggetto, in un delicato profumo di madeleine. E proprio quando non rimane più nulla di quel lontano passato “l’odore e il sapore permangono ancora a lungo come anime – scriveva Proust -  a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto, a sorreggere senza tremare – loro, goccioline quasi impalpabili – l’immenso edificio del ricordo”.


venerdì 7 luglio 2023

Commenti

 


Il commento a un post ha una sua importanza; è uno strumento prezioso che misura, come un termometro, il grado di interesse e coinvolgimento dei lettori nei confronti di un blog. E poi fa sempre piacere ricevere un commento perché rappresenta, comunque, una gratificazione, soprattutto quando il post viene apprezzato. Certo, ci sono commenti e commenti e non tutti sono utili. Un buon commento deve avere una sua valenza, non può essere ridotto ad un semplice mi piace, perché il blog  è uno strumento social di nicchia e non di massa. Alcuni commenti possono addirittura essere dannosi per il blog, altri ancora sono del tutto generici, soprattutto quando non vanno oltre le due parole: che siano di apprezzamento o di biasimo. Per quanto mi riguarda, i commenti più graditi sono quelli che vengono chiamati guest post : veri articoli, a volte più interessanti del post commentato. Certo, per fare questo ti devi impegnare molto e devi “perdere del tempo”, cosa che non è da tutti. E’ più facile e sbrigativo scrivere una cosa scontata e banale, tipo: bel post parole bellissimemi piace, anziché argomentare quel giudizio positivo con un pensiero che fa pensare. La scrittura – d’altronde come la lettura - necessita di tempo e impegno, ma anche di fatica. E la fatica è una brutta bestia. Sarebbe meglio non commentare quando non si hanno argomenti convincenti e propositivi. Però poi sorge un problema: il do ut des dove lo mettiamo? Se non ci sono commenti sembra quasi che il blog non venga seguito da nessuno. E allora io ti dico che i tuoi versi sono meravigliosi a patto che tu scriva che il mio post rimarrà nella storia della blogosfera. Massì: punto…due punti…punto e virgola, facciamo vedere che abbondiamo, direbbe Totò.

E’ buona regola rispondere ai commenti. Io lo faccio sempre, con quei 3/4 commenti che ricevo abitualmente. Altrimenti sarebbe come essere invitati a pranzo e rimanere a parlare da soli, mentre il padrone di casa se ne sta tutto il tempo a smanettare sul suo smartphone senza degnarti di uno sguardo (…ma forse a questo ci siamo già arrivati). Meglio non essere saccenti, quando commentiamo, senza dimenticare l’educazione e il rispetto per gli altri, condizioni fondamentali per una corretta e civile comunicazione. Sono tanti i blogger che decidono di moderare i commenti sul proprio blog perché non si fidano di quello che potrebbero scrivere i lettori: io non l’ho mai fatto e devo dire che, in tanti anni, non mi è mai capitato nulla di spiacevole. Forse perché non scrivo mai di politica o di calcio o di pettegolezzi mediatici, argomenti questi che urtano in maniera sensibile la suscettibilità di tante persone. Naturalmente ognuno fa come meglio crede, ma io sono contrario ai filtri. Credo che i pensieri divergenti siano il sale della comunicazione: è il pensiero unico che mi fa paura. E ben venga chi non la pensa come me. Trovo, poi, alquanto divertenti certi “accapigliamenti”  che a volte si verificano su un blog dove ciascuno vuol far prevalere la propria idea. Se la contesa non va fuori le righe con offese e volgarità, è sempre interessante seguire il dibattito, soprattutto quando i contendenti sanno cavarsela molto bene con la scrittura. Devo dire che io commento poco, perché i blog che seguo si contano sulle dita di una sola mano. Ma il motivo è molto semplice: ho un’autonomia molto limitata e non riesco a stare su internet (con il PC di casa perché non ho cellulari, come qualcuno già sa) più di 20/30 minuti al giorno. E non tutti i giorni. Per leggere ho bisogno di sentire il fruscio delle pagine sfogliate, l’odore della carta. E non c’è blog, per quanto interessante, che possa distogliermi da questo mio modo di essere.


lunedì 26 giugno 2023

La schiavitù è la legge della vita

 


“Questa è una giornata nella quale mi pesa, come un ingresso in carcere, la monotonia di tutto. Ma la monotonia di tutto non è altro che la monotonia di me stesso. Ciascun volto, anche lo stesso che abbiamo visto ieri, oggi è un altro, perché oggi non è ieri. Ogni giorno è il giorno che è, e non ce n’è mai stato un altro uguale al mondo. L’identità è solo nella nostra anima (l’identità sentita con se stessa, anche se falsa), attraverso la quale tutto si somiglia e si semplifica. Il mondo è cose staccate e spigoli distinti; ma se siamo miopi, esso è una nebbia insufficiente e continua.

Il mio desiderio è fuggire. Fuggire da ciò che conosco, fuggire da ciò che è mio, fuggire da ciò che amo. Desidero partire: non verso le Indie impossibili o verso le grandi isole a Sud di tutto, ma verso un luogo qualsiasi, villaggio o eremo, che possegga la virtù di non essere questo luogo. Non voglio più vedere questi volti, queste abitudini e questi giorni. Voglio riposarmi, da estraneo, dalla mia organica simulazione. Voglio sentire il sonno che arriva come vita e non come riposo. Una capanna in riva al mare, perfino una grotta sul fianco rugoso di una montagna, mi può dare questo. Purtroppo soltanto la mia volontà non me lo può dare.

La schiavitù è la legge della vita, e non c’è altra legge perché questa deve compiersi, senza possibile rivolta o rifugio da trovare. Certuni nascono schiavi, altri diventano schiavi, ad altri ancora la schiavitù viene imposta. L’amore codardo che tutti noi proviamo per la libertà (libertà che, se la conoscessimo, troveremmo strana perché nuova, e la rifiuteremmo) è il vero indizio del peso della nostra schiavitù. Io stesso, che ho appena detto che desidererei una capanna o una grotta per essere libero dalla noia di tutto, che poi è la noia che provo per me, oserei forse andare in quella capanna o in quella grotta consapevole che, dato che la noia mi appartiene, essa sarebbe sempre presente? Io stesso, che soffoco dove sono e perché sono, dove mai respirerei meglio se la malattia è nei miei polmoni e non nelle cose che mi circondano? Io stesso, che ardentemente sogno il sole puro e i campi liberi, il mare visibile e l’orizzonte largo, chissà se mi adatterei al letto o al cibo o a non dover scendere otto rampe di scale per arrivare alla strada o a non entrare nella tabaccheria dell’angolo o a non scambiar il buongiorno con l’ozioso barbiere.

Quello che ci circonda diventa parte di noi stessi, si infiltra in noi nella sensazione della carne e della vita e, quale bava del grande Ragno, ci unisce in modo sottile a ciò che è prossimo, imprigionandoci in un letto lieve di morte lenta dove dondoliamo al vento. Tutto è noi e noi siamo tutto; ma a che serve questo, se tutto è niente? Un raggio di sole, una nuvola il cui passaggio è rivelato da un’improvvisa ombra, una brezza che si leva, il silenzio che segue quando essa cessa, qualche volto, qualche voce, il riso casuale fra le voci che parlano: e poi la notte nella quale emergono senza senso i geroglifici infranti delle stelle”.

da “Il libro dell’inquietudine”

di Fernando Pessoa


mercoledì 14 giugno 2023

Paesi e bellezza

 


Vivere in una grande città è trascorrere gran parte della propria vita immersi nella bruttezza, nel degrado dello spazio urbano. Faccio questa amara riflessione mentre percorro una strada del quartiere in cui abito, a sud-est di Roma. Una strada come tante, dove la bellezza - che ha plasmato la città eterna nel corso dei secoli - qui non è mai arrivata. Tra smog, incessanti rumori di fondo, traffico nevrotico, cumuli di rifiuti, marciapiedi maleodoranti, manifesti pubblicitari che ricoprono qualsiasi spazio, muri e saracinesche di negozi imbrattati di scritte, palazzoni simili ad alveari che sembrano respingere più che ospitare: una scenografia urbana, questa, che non evoca alcuna idea di bellezza. E non stimola affatto il buon umore.

Sono appena ritornato con il treno dal mio paesello, nel Cilento. L’impatto con la vita frenetica della Capitale, a cominciare dal caos della stazione Termini che per prima mi accoglie, appare sempre più traumatico. Mi viene da pensare che a volte sembriamo divisi tra l’impulso a ignorare le nostre sensazioni - diventando indifferenti e anestetizzati all’ambiente circostante - e il sentimento opposto che ci fa soffrire e riconoscere che il nostro carattere è legato intimamente al luogo in cui viviamo abitualmente. Un posto ameno e seducente, una bella architettura residenziale, una strada pulita, un parco pubblico non dico che sono garanti di felicità ma hanno, certamente, la capacità di migliorare lo stato d’animo delle persone che li abitano.

Capita, poi, di ritrovarci in un delizioso e antico paesino arroccato sulla collina che guarda verso il mare. Apriamo la finestra della casetta costruita in pietra dove ci siamo momentaneamente rifugiati, e veniamo assorbiti dal magnifico panorama che ci si presenta davanti: la bella vigna giù nella vallata, la distesa di ulivi secolari, qua e là alberi di querce e di lecci e di fichi, le rovine di un vecchio castello in lontananza, casupole di contadini a punteggiare il territorio circostante, il mare all’orizzonte…e il tutto sotto un cielo azzurro, limpido e profumato. Respiriamo a pieni polmoni quell’aria salubre e ci sentiamo felici. Nessun rumore di macchine, nessuno che farnetica ad alta voce con un cellulare, assenza di graffiti sui muri: solo silenzio, pace, tranquillità, armonia naturale. Insomma, un piccolo angolo di mondo che non conosce la bruttezza metropolitana e le miserie umane. Solo quando ci troviamo di fronte alla bellezza della natura ci rendiamo conto di quanta bruttezza ci sia nella nostra vita. Ci riempiamo gli occhi e il cuore con quel panorama non violentato dall’intervento scriteriato dell’uomo, mentre il pensiero va al nostro appartamento in città, con vista non sulla Fontana di Trevi o su Piazza di Spagna ma sulla facciata scrostata di un palazzo simile al nostro, e su quella sterminata distesa di lamiere, il nostro doloroso paesaggio quotidiano.

Ma perché ci siamo allontanati così tanto da certi fondamentali valori dell’esistenza? Perché scegliamo di vivere in agglomerati urbani superaffollati e sempre più invivibili? Come abbiamo potuto rinunciare a ciò che più conta nella vita, in primis, a quel rapporto virtuoso e salutare con la natura? Se esiste davvero la bellezza da ammirare e da godere tutti i giorni, allora la si deve cercare non in un museo o in un’antica cattedrale, ma proprio in uno dei tanti borghi del nostro Paese dove il paesaggio naturale - cancellato dentro di noi dalla modernità e fuori di noi dal cemento – si estende sereno dinanzi a noi; dove la lentezza è ancora un valore; dove un muretto a secco diventa la nostra cattedrale; dove ci si può ripulire la mente e l’anima dalle brutture quotidiane e abbandonarsi anche all’assenza di un pensiero; dove finalmente ci si può svestire delle nostre discutibili ed omologate impalcature metropolitane.


mercoledì 24 maggio 2023

Feste e malinconia

 


La malinconia è uno stato d’animo prezioso, da riabilitare e custodire che appartiene soprattutto alle persone più sensibili. In un’epoca come la nostra, ipercompetitiva e frenetica, iperconnessa e veloce che ti schiaccia e ti manipola, la malinconia merita di essere celebrata come un sentimento nobile, proprio per allontanarsi in punta di piedi dalla frenesia del presente. Naturalmente non sto parlando della malattia, del male oscuro che non ti fa vivere, ma di quel sentimento gentile e benevolo che tende all’introspezione, alla nostalgia, alla contemplazione. Alla buona solitudine. Un sentimento soggettivo che viene spesso proiettato sul mondo esterno. Quante volte ci capita di dire o di sentire: “ è un paesaggio malinconico”, oppure “è una giornata davvero malinconica” e ancora “è una scrittura malinconica”. Succede che la malinconia di chi guarda e la malinconia della realtà circostante si incrociano, si fondono e si alimentano a vicenda. Una simbiosi che fa bene all’anima, che rifugge il pensiero dominante della felicità e del successo a tutti i costi e valorizza l’attesa, la prudenza, la riflessione, il silenzio, il dubbio. Io tendo alla malinconia più che all’euforia e più che apparire preferisco eclissarmi. Mi piacciono le storie malinconiche, le persone malinconiche. Alla luce sfavillante preferisco la penombra. E poi – lo confesso - non sono uno che ama particolarmente le feste, perlomeno certe feste. Mi ha dato conforto questo brano che riporto di seguito, tratto dal libro di Alain De Botton “Varietà della malinconia” (Guanda Editore): non sarei stato capace di celebrare meglio questo dolce sentimento.

“Una festa può essere un’occasione particolarmente malinconica. Quasi sempre, fin dall’arrivo, avvertiremo il notevole sforzo fatto per creare un’atmosfera accogliente e amichevole. Qualcuno avrà predisposto un impianto audio, magari ci saranno drink colorati e palloncini che rimbalzano sul soffitto. Cosa ancora più importante, ci saranno persone estremamente ben intenzionate e desiderose di vederci passare una bella serata che, dopo un po', potrebbero avvicinarsi e chiedere: Tutto bene? Ti stai divertendo?

Le intenzioni sono commoventi, ma il risultato può farci sprofondare nella tristezza. La stragrande maggioranza delle feste si svolge con l’idea che, per aiutare la gente a rilassarsi e a sentirsi di buon umore, servono manifestazioni di felicità, e di una felicità particolarmente esuberante. Vedere l’allegria degli altri, ascoltarne i successi e le gioiose descrizioni di inarrestabili progressi ci aiuterà ad attingere alle nostre personali risorse di felicità e di fiducia.

Sembrerebbe logico, senonché la verità sulla nostra psicologia è ben più strana. Ciò che veramente ci fa uscire dall’isolamento non è vedere gli altri gioire, bensì constatare che i problemi che ci affliggono – vergogna, senso di colpa, rimpianto, disperazione, irritazione e disprezzo di sé – non sono semplicemente maledizioni personali, come sospettavamo nella camera di risonanza del nostro cervello ansioso, ma si trovano invece anche nel resto dell’umanità. E’ la sofferenza degli altri a convalidare la nostra tristezza e a risollevarci il morale.

Tenendo a mente questa nuova psicologia dell’amicizia, possiamo provare a immaginare come dovrebbe essere una festa davvero orientata alla socializzazione. Probabilmente non ci sarebbe musica allegra e ad alto volume, ma solo un malinconico concerto di Bach per violoncello o una messa da requiem in sottofondo. Il padrone di casa ci inviterebbe a raccontare tutto ciò che di imperfetto c’è nelle nostre vite e che la società al di fuori di queste mura ha censurato. Avremmo l’opportunità di svelare fino a che punto siamo ansiosi e quanto cupo siano certi nostri pensieri. Tornando a casa da una serata così, saremmo davvero felici perché avremmo avuto la possibilità di sfogarci e di sentir confermare da altri quanta tristezza c’è nella vita.

E’ facile sentirsi misantropi perché non si ha voglia di andare alle feste, ma in realtà è forse vero il contrario. Odiamo quasi sempre le feste perché desideriamo in modo eccezionalmente acuto dei legami profondi che semplicemente non riusciamo a trovare nelle classiche occasioni sociali. Vogliamo restare soli non perché non ci piaccia effettivamente stare in compagnia, ma perché ci piace quella vera, mentre quello a portata di mano è un simulacro di compagnia e ci ricorda con troppa forza una solitudine che ci spezza il cuore.

Alle feste, solitamente, ce ne stiamo in piedi, circondati da quaranta persone, sentendoci più soli che se ci trovassimo sulla superficie di Mercurio, perché i quaranta ospiti, che avrebbero potuto darsi l’un l’altro così tanto, sono collettivamente intrappolati nell’ideologia della finta euforia. In un futuro migliore, impareremo a organizzare delle “feste malinconiche”, occasioni sociali dal nome paradossale: niente più felicità ostentata, solo individui particolarmente vulnerabili e sinceri, seduti a confessare quanto sia difficile per loro essere umani. Ecco qualcosa che sarebbe davvero il caso di celebrare”.



lunedì 15 maggio 2023

SUV

 


Un tempo - almeno fino agli anni 50/60 del secolo scorso – le persone avevano desideri diversi  perché diversi erano i contesti in cui nascevano. Un contadino della Calabria aveva poche cose in comune con un impiegato di banca della Lombardia, tant’è che le loro intime aspirazioni e ambizioni non potevano che divergere. Ora la globalizzazione, la pubblicità sempre più martellante nonché l’uso massiccio degli strumenti tecnologici e dei suoi derivati, hanno determinato un’omologazione culturale che fa emergere gli stessi desideri. Tutto tende ad essere standardizzato ad un modello considerato normale, dove per normale si intende il comportamento adottato dalla massa. Uguali nelle dinamiche sociali per sentirsi parte del gruppo che domina e fa tendenza.

Per esempio, oggi la gran parte delle persone condivide il desiderio di avere un Suv, che è una sorta di carro armato a quattro ruote, costoso, ingombrante e inquinante, con un consumo molto elevato. Per muoversi in una città congestionata dal traffico come Roma, non dico che bisognerebbe ritornare alle carrozzelle trainate dai cavalli (le famose botticelle), ma servirebbero macchine di normali dimensioni, che consumano poco, facili da parcheggiare perché gli spazi sono ridotti. Eppure, da un po' di tempo a questa parte, io vedo in giro soltanto Suv – come se la Capitale d’Italia si trovasse sulla Cordigliera delle Ande - che procedono a passo d’uomo, con una sola persona a bordo, e non sai mai se sta seduta o in piedi nel suo abitacolo. Una visione surreale e inquietante. Che poi sono indistinguibili l’uno dall’altro, questi pachidermi della strada, neanche fossero stati fatti con lo stampo. Avanzano minacciosi nel traffico cittadino, e quando ti trovi alla guida della tua macchinetta tradizionale e ti appare nello specchietto retrovisore - all’improvviso - quella enorme sagoma ad assetto rialzato, ti senti quasi intimorito: levati di mezzo che devo passare, sembra volerti dire dall’alto in basso.

Ma è davvero necessario avere – nella condizione in cui viviamo - una macchina così voluminosa, visto che viene usata quasi esclusivamente nei normali spostamenti in ambito cittadino? Ho i miei dubbi! Credo, pertanto, che oggi la gente desidera un Suv perché è un’auto di moda. E’ uno status simbol. Come possedere l’ultimo modello di smartphone; come indossare un abbigliamento griffato; come avere il cane; come rasarsi i capelli a zero o farsi tatuare il corpo. E’ un reato seguire la moda? No! Ognuno è libero di fare come meglio crede. Però, lasciatemi dire una cosa: la moda – qualsiasi moda - definisce degli schemi ben precisi di universalità e conformismo all’interno dei quali si perde la propria individualità a favore di un generale appiattimento dei gusti. E si finisce per essere tutti uguali. E l’unico soggetto veramente anticonformista – senza aver fatto nulla per esserlo – diventa colui che va ancora in giro con la sua macchinetta d’altri tempi (si fa per dire). Ormai le case automobilistiche hanno smesso di produrre quelle berline, belle ed eleganti, che si riconoscevano da lontano, così diverse tra di loro. Quelle belle macchine che rendevano diversi i nostri desideri. Diversi i nostri gusti.


martedì 9 maggio 2023

Franco Arminio: tornate al paese

 


Franco Arminio è un gentile e colto signore dell’Irpinia il quale somiglia, sotto certi aspetti, ad un monaco laico: da molti anni a questa parte va predicando la poesia - in lungo e in largo per l’Italia - quale balsamo per l’anima oltre che forma di conoscenza e di bellezza. “Sogno un mondo – lui scrive – in cui si leggono poesie ai matrimoni, ai compleanni, ai funerali. Una poesia per aprire il collegio dei docenti e il consiglio dei ministri, una poesia prima del pranzo e della cena, nelle cerimonie di Stato, alla tv in prima serata, poesia al mercato, in camera da letto, in pizzeria…”. 

Si definisce “paesologo” e nei suoi versi, così come nei suoi scritti brevi, si coglie sempre il suo sguardo attento alla natura, alle cose semplici della vita e ai piccoli paesi da cui bisogna ricominciare se vogliamo salvarci come esseri umani. “Tornate al vostro paese, non c’è luogo più vasto. Tornate presto, non pensate se è conveniente per la vostra vita. Cominciate la grande migrazione al contrario. Avete una casa vuota che vi aspetta, la casa che vostro nonno ha costruito con i soldi dell’emigrazione: voi qui potete accendere la vita, altrove al massimo potete tirare avanti la vita. Tornate, non dovete fare altro. Qui se ne sono andati tutti, specialmente chi è rimasto”.