Cerca nel blog

giovedì 21 gennaio 2021

La Sardegna: una terra "tanto vecchia e tanto lontana"

 


Giuseppe Dessi è un nome poco conosciuto al grande pubblico dei lettori nonostante sia da annoverare tra i grandi narratori del Novecento italiano. Credo, inoltre, che i suoi libri siano ormai quasi tutti “fuori catalogo” e non vengano più stampati. Chissà secondo quali perverse strategie commerciali, oggi, un editore può permettersi il lusso di rinunciare alle sue opere letterarie, vista la buona qualità della sua prosa. Una prosa chiara, suggestiva, poetica che si legge con piacere. Ho iniziato ad apprezzare questo autore leggendo, qualche tempo fa, quello che forse è considerato il suo romanzo più importante, con cui vinse nel 1972 il Premio Strega: Paese d’ombre. Dessì era nato a Villacidro, un grosso centro del sud della Sardegna, a cui rimase legato per tutta la vita e che fa da sfondo a tutte le sue opere. Questo piccolo mondo - metafora di una Sardegna arcaica e sotto certi aspetti defraudata - lo ritroviamo già nel suo primo romanzo “San Silvano”,  che segnerà il suo esordio narrativo. Lo scrittore sardo – così come spesso hanno fatto altri autori del passato – ha quasi sempre dato un nome di fantasia ai luoghi reali in cui collocava le vicende dei suoi romanzi, salvo poi spargere lungo il percorso narrativo tracce di un contesto facilmente identificabile, a lui noto e caro. Evidentemente, attraverso località non ben definite, Dessì preferiva non ingabbiare il lettore in rigide coordinate di riferimento che potessero in qualche maniera limitarne il racconto, lasciando così anche un ampio spazio di manovra alla sua appassionata immaginazione. Così facendo, il suo amato paese, Villacidro, diventa Norbio in “Paese d’ombre” per assumere poi il nome di San Silvano nell’omonimo romanzo. E ancora una volta devo ringraziare quei mercatini dell’usato se ho potuto sfogliare questo libro, rifiutato in modo ostinato da una certa “modernità” che rincorre spasmodicamente solo le novità. Anche le più mediocri. 

San Silvano è un racconto autobiografico costruito con frammenti di ricordi, un nostalgico atto d’amore nei confronti del paese dell’infanzia; è la trasposizione nella scrittura degli affetti familiari dell’autore, delle sue memorie giovanili, del suo amore struggente per una terra “tanto vecchia e tanto lontana”. Rappresenta, in estrema sintesi, una sorta di manifesto del suo essere orgogliosamente sardo. Qualsiasi paese, per chi ha la fortuna di averne uno, costituisce sempre un gioioso e sereno approdo nei momenti tristi e malinconici. Per Dessì, Villacidro era il suo buen retiro, la sua  “piccola patria”, capace di scatenare in lui sentimenti di forte passione ma anche di inevitabili contrasti. “Là sono diventato uomo – scriveva – là è la mia gente: case e tombe. Ma ciò che conta di più è che io, anche ora, se vado là, mi sento più forte, più intelligente, anzi onnisciente”. Sepolto nella memoria, San Silvano appare nei ricordi dello scrittore con i suoi ritmi lenti e con il suo silenzio, con le sue atmosfere serene e con i suoi ulivi enormi simili a pachidermi, chiusi nei campi cinti di muri a secco; e con quella tipica monotonia dei mesi estivi che rendeva immobile il paesaggio facendo quasi perdere la cognizione del tempo e degli avvenimenti. Un paese avvolto nella solitudine che sembrava essere la condizione persistente, l’ineludibile destino di ogni sardo. Eppure, Dessì si trovava a suo agio in quell’ambiente tagliato fuori dal mondo, aspro e selvaggio “come gli animali selvatici nel bosco e gli uccelli nell’aria”. Devo dire che San Silvano è un libro che ha una sua straordinaria forza evocatrice, capace di trasmettere nell’animo del lettore sensazioni e sentimenti, gli stessi provati dall’autore. E quel paese che scorgiamo tra le sue pagine, attraverso i ricordi del suo illustre figlio, ci appartiene perché diventa simbolicamente il nostro antico paese nativo, retaggio di un passato ormai perduto. 

Anna Dolfi, nella sua introduzione al libro (Oscar Mondadori – ediz. del 1980) ha scritto che San Silvano è il libro “più intensamente poetico, più struggentemente disperato, più appassionatamente lucido, coraggioso, patetico (nell’accezione antica, silenziosa di pathos), tra quelli scritti da Giuseppe Dessì”.


martedì 12 gennaio 2021

Senza memoria

 




Quando io andavo a scuola  – negli anni 60/70 del secolo scorso – i professori ci davano da studiare a memoria le poesie. Era un’imposizione che accettavo di malavoglia e quegli esercizi mnemonici  rappresentavano per me una dura fatica. Devo dire che sono rimaste piccole tracce di quelle reminiscenze scolastiche. Quei pochi versi che si sono salvati dall’oblio e che hanno attraversato con me il tempo e lo spazio stanno nascosti, come reperti archeologici, in qualche angolo remoto della mia mente. E’ come se la mia memoria, allora, si rifiutasse di prendere in carico le poesie e, di proposito, le relegasse immediatamente nel cassetto della dimenticanza.

“O cavallina, cavallina storna, che portavi colui che non ritorna”…: a distanza di tanti anni, di quella famosa poesia di Giovanni Pascoli riecheggia nella mia mente solo questo malinconico ritornello. Non ricordo altro. E poi c’è l’altro cavallo di battaglia, “San Martino” di Giosuè Carducci: mi è rimasto impresso soltanto l’inizio, come un mantra: “la nebbia a gl’irti colli piovigginando sale, e sotto il maestrale urla e biancheggia il mar…”. Senza parlare, poi, di Giacomo Leopardi, il mio poeta preferito: il suo “Sabato del villaggio” è ridotto a poche parole: “La donzelletta vien dalla campagna in sul calar del sole, col suo fascio dell’erba; e reca in mano un mazzolin di rose e viole…”. Povero me! E miglior fortuna non poteva avere il Sommo poeta con la “Divina Commedia”. Mi resta quell’incipit indimenticabile del primo canto dell’Inferno, da tutti conosciuto: “nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, chè la diritta via era smarrita”. Potrei continuare ma mi fermo qui, sarebbe come roteare il coltello nella piaga. Invece non facevo fatica a memorizzare le formazioni di molte squadre di calcio (memoria che ho conservato), come per esempio quella della grande Inter di Herrera, all’epoca la mia squadra del cuore: Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi…o addirittura quella del grande Torino…Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano...(me la ricordo tutta, ma ve la risparmio).

Se oggi mi ritrovo una cattiva memoria, se interi periodi della mia vita sono spariti, se non ricordo più nulla di un libro letto solo qualche mese fa, se a volte dimentico perfino dove ho parcheggiato la macchina, ebbene io credo che ciò sia anche la conseguenza di quell’ostilità che nutrivo nei confronti delle poesie da imparare a memoria. Osteggiando quell’esercizio letterario, apparentemente noioso, finivo per indebolire giorno dopo giorno la mia capacità di memorizzare. E così, ricordi lontani ma anche vicini, avvenimenti belli e brutti, momenti di felicità e momenti di tristezza, inezie ma anche cose rilevanti: tutto sembra cancellato per sempre, avvolto in una nebbia fittissima che non mi permette più di ricordare né le cose che avrei dovuto conservare per sempre, perché importanti, né  quelle da buttare via perché inutili.

Purtroppo viviamo un presente che non ci viene incontro, in quanto ci schiaccia con la sua mole di informazioni che ci piovono addosso e si affollano dentro di noi, tanto che nessuna mente umana potrebbe contenerle. Così, anziché ricordare, dimentichiamo. E buttiamo via notizie, letture, fatti, sensazioni, sentimenti, senza poter scegliere e conservare il buono dal cattivo. La memoria, per mantenerla in perfetta salute, va esercitata quotidianamente come un qualsiasi muscolo e non va ingolfata di cose inutili e insignificanti. E quindi per rinvigorirla, bisogna foraggiarla con continui esercizi giornalieri. Purtroppo, tutto intorno a noi sembra remare contro, tutto ci spinge a dimenticare e ci ammonisce che la memoria (soprattutto quella storica, che riguarda i fatti accaduti nel passato) non serve più a nulla, non è necessaria: ci sono i computer, c’è internet con le sue innumerevoli applicazioni, ci sono i telefonini, le agende elettroniche, gli archivi informatici che ci assistono, rimpiazzando quella parte di cervello a cui gli uomini, nel corso dei secoli, si sono affidati per ricordare. E’ la tecnica che ormai pensa e ricorda per noi. Nei secoli passati non era così. La memoria era la madre di tutte le scienze e le arti e veniva raffinata, coltivata, pungolata come la più rara delle capacità umane. Si insegnava addirittura l’arte della memoria. Monaci, scrittori, poeti, artisti, viaggiatori portavano e custodivano - racchiusi negli edifici della propria memoria - fatti e ricordi da tramandare oralmente alle generazioni future. Oggi la memoria dei padri non viene più trasmessa ai figli perché i primi sono vissuti in un mondo reale e i secondi, vivendo in un mondo virtuale, non hanno né orecchi per ascoltare né occhi per guardare.

Qualche anno fa, in una lettera a un suo nipote, Umberto Eco ebbe a scrivere: “Coltiva la memoria, dunque, e da domani impara a memoria “la vispa Teresa”. Lo confesso: da un po’ di tempo a questa parte ho ripreso quell’esercizio che odiavo fare durante gli anni scolastici: imparare a memoria delle poesie. Voi direte che è troppo tardi e che la mia memoria è già avvizzita ed ha perso tono e vivacità: sarà, ma io ci provo lo stesso. Certo, ho iniziato con le poesie di pochi versi: indebolita com’è - la mia memoria – di sicuro non potrebbe sostenere il primo canto dell’Inferno. Tuttavia, conto di avventurarmi in imprese più significative. L’altra sera mi sono addormentato con questi versi di Franco Marcoaldi: non li dimenticherò mai più.

Un tempo di notte cantavo

a voce alta per farmi coraggio –

abitudine persa da quando mi è chiaro

che sono qui di passaggio.


sabato 9 gennaio 2021

L'educazione sentimentale di un adolescente

 


Capita raramente di leggere un libro dai toni così delicati e poetici, velato di sottile malinconia che solo certi testi dal sapore antico sanno trasmettere al lettore: “Estate al lago” – questo il titolo - scritto da Alberto Vigevani, uno scrittore milanese poco noto al grande pubblico, che meriterebbe tutt’altra considerazione. Pubblicato oltre mezzo secolo fa, con una prosa che sotto certi aspetti intenerisce e commuove, il romanzo esplora il passaggio dall’infanzia all’adolescenza di un quattordicenne, figlio di una ricca famiglia della borghesia milanese degli anni ’50. Giacomo, il protagonista, è un ragazzino dall’indole solitaria e scontrosa, incline alla “tristezza contemplativa”, timido ed impacciato, a volte indolente, al quale non dispiace stare da solo ad osservare e fantasticare. Alla compagnia chiassosa degli amici nei giardini della città in cui vive (la Milano industriale dei navigli tra paesaggi di nebbie e di palazzi grigi), preferisce i romanzi di Salgari e Verne e aspetta con viva trepidazione  l’estate, che per lui rappresenta una sorta di risveglio dal lungo letargo invernale, l’unico momento felice e spensierato della sua vita.

E quell’estate trascorsa sul lago (ci troviamo a Menaggio, sul lago di Como) alla soglia dei suoi 15 anni - un’età molto complicata in cui non si è più bambini ma non si è nemmeno adulti - così diversa da tutte le estati precedenti passate con la famiglia sempre in una località di mare, sarà vissuta dal protagonista non solo come una novità assoluta, ma anche come la sua ultima stagione da bambino, foriera  di stravolgimenti psico-fisici, che preludono alla maggiore età. Confusamente diviso tra l’amicizia per Andrew, un bambino gracile e malato più piccolo di lui,  e l’amore/attrazione per la bella e bionda madre del suo compagno di giochi, ci fa partecipi delle sue inquietudini, delle sue paure, dei suoi turbamenti adolescenziali.

Con questo romanzo, l’autore scruta l’età dell’innocenza in cui subentrano sentimenti nuovi, mai sperimentati prima, come l’amicizia, la seduzione e l’amore: ma sono sentimenti ancora incerti, nebulosi, sfumati, senza contorni precisi, tipici di quell’età, che procurano sofferenze piuttosto che piaceri, dubbi anziché certezze. Sono impulsi appena sbozzati, stordimenti di un istante che a un ragazzo molto sensibile creano apprensione. Alberto Vigevani, attraverso la sua scrittura gradevole – davvero rara di questi tempi - ci racconta l’amore muto e platonico di un adolescente, costellato di silenzi e contemplazione, ci dipinge con maestria la storia di una struggente educazione sentimentale.


lunedì 4 gennaio 2021

Buongiorno tristezza


 


Quando Françoise Sagan pubblicò – a soli 19 anni – il suo romanzo di esordio “Bonjour tristesse” correva l’anno 1954 ed io avevo due anni. Il libro divenne subito un caso letterario con milioni di copie vendute in tutto il mondo, forse anche a seguito della censura disposta dalla Chiesa. Lo lessi verso i 18/20 anni, a cavallo del ’68. Da allora - erano gli anni della contestazione giovanile che il libro, sotto certi aspetti, anticipava – è passato mezzo secolo. A pensarci bene, oggi, mi vengono i brividi!

L’ho riletto con piacere in questi giorni di feste e di confinamento. E’ la stessa edizione del 1971 edita da Longanesi, meravigliosamente invecchiata e ingiallita, nella sua mitica veste de “i super pocket” al prezzo di 450 lire. Il libro se ne stava quasi nascosto su un ripiano della mia libreria, impilato tra “Le confessioni” di Rousseau e “La nausea” di Sartre; l’ho preso tra le mani con delicatezza, accarezzando con lo sguardo l'insolita copertina; mi è giunto immediato quel profumo vanigliato di carta antica che nessun supporto informatico può dare; l’ho aperto a caso, a pagina 27, dove ho letto queste parole sottolineate a matita: “Credo che la maggior parte dei miei piaceri di allora io li dovessi al danaro: il piacere di andare in macchina a gran velocità, di comprare dischi, fiori, libri. Non ho vergogna nemmeno ora di quei piaceri facili, d’altronde li chiamo facili soltanto perché ho sentito dire che lo erano. Rimpiangerei, rinnegherei più facilmente i miei dolori o le mie crisi mistiche. Il gusto del piacere, della felicità, rappresenta il solo lato coerente del mio carattere”. Sono le parole della voce narrante del romanzo, una ragazzina di 17 anni, Cecilia, che racconta in maniera semplice e diretta la sua voglia di vivere la sua vita spericolata, la sua voglia di libertà, la sua voglia di infrangere le regole e le convenzioni sociali. Una ragazzina che alla compagnia dei suoi coetanei preferiva gli amici di suo padre, suo complice, “uomini sui quarant’anni che mi parlavano con cortesia, teneramente, trattandomi con una dolcezza da padre e da amante”. Non si ha alcuna difficoltà nel collegare questa figura ribelle e “maledetta” alla scrittrice francese, icona del disordine esistenziale e dell’anticonformismo, la quale scandalizzò la società benpensante del suo tempo con il suo stile di vita sconsiderato e distruttivo e con i suoi amori trasgressivi.

Un vecchio libro si rilegge perché ha lasciato un segno indelebile nella nostra memoria; e forse si rilegge per ritornare indietro nel tempo, in quel tempo della spensieratezza giovanile e dell’imprudenza. E perché no: si rilegge per assaporare quel gusto agrodolce del tempo che passa in fretta e se ne va. E mentre noi lettori invecchiamo leggendo, i libri belli – tranne le copertine - non invecchiano mai. “Bonjour tristesse” è uno di quelli: un libro “scandaloso” dalla sensualità sfumata, che non cade mai nella volgarità come uno potrebbe pensare, velato di leggera malinconia. Un libro che non si dimentica.