Giuseppe Dessi è un nome poco conosciuto al grande pubblico dei lettori nonostante sia da annoverare tra i grandi narratori del Novecento italiano. Credo, inoltre, che i suoi libri siano ormai quasi tutti “fuori catalogo” e non vengano più stampati. Chissà secondo quali perverse strategie commerciali, oggi, un editore può permettersi il lusso di rinunciare alle sue opere letterarie, vista la buona qualità della sua prosa. Una prosa chiara, suggestiva, poetica che si legge con piacere. Ho iniziato ad apprezzare questo autore leggendo, qualche tempo fa, quello che forse è considerato il suo romanzo più importante, con cui vinse nel 1972 il Premio Strega: Paese d’ombre. Dessì era nato a Villacidro, un grosso centro del sud della Sardegna, a cui rimase legato per tutta la vita e che fa da sfondo a tutte le sue opere. Questo piccolo mondo - metafora di una Sardegna arcaica e sotto certi aspetti defraudata - lo ritroviamo già nel suo primo romanzo “San Silvano”, che segnerà il suo esordio narrativo. Lo scrittore sardo – così come spesso hanno fatto altri autori del passato – ha quasi sempre dato un nome di fantasia ai luoghi reali in cui collocava le vicende dei suoi romanzi, salvo poi spargere lungo il percorso narrativo tracce di un contesto facilmente identificabile, a lui noto e caro. Evidentemente, attraverso località non ben definite, Dessì preferiva non ingabbiare il lettore in rigide coordinate di riferimento che potessero in qualche maniera limitarne il racconto, lasciando così anche un ampio spazio di manovra alla sua appassionata immaginazione. Così facendo, il suo amato paese, Villacidro, diventa Norbio in “Paese d’ombre” per assumere poi il nome di San Silvano nell’omonimo romanzo. E ancora una volta devo ringraziare quei mercatini dell’usato se ho potuto sfogliare questo libro, rifiutato in modo ostinato da una certa “modernità” che rincorre spasmodicamente solo le novità. Anche le più mediocri.
San Silvano è un racconto autobiografico costruito con frammenti di ricordi, un nostalgico atto d’amore nei confronti del paese dell’infanzia; è la trasposizione nella scrittura degli affetti familiari dell’autore, delle sue memorie giovanili, del suo amore struggente per una terra “tanto vecchia e tanto lontana”. Rappresenta, in estrema sintesi, una sorta di manifesto del suo essere orgogliosamente sardo. Qualsiasi paese, per chi ha la fortuna di averne uno, costituisce sempre un gioioso e sereno approdo nei momenti tristi e malinconici. Per Dessì, Villacidro era il suo buen retiro, la sua “piccola patria”, capace di scatenare in lui sentimenti di forte passione ma anche di inevitabili contrasti. “Là sono diventato uomo – scriveva – là è la mia gente: case e tombe. Ma ciò che conta di più è che io, anche ora, se vado là, mi sento più forte, più intelligente, anzi onnisciente”. Sepolto nella memoria, San Silvano appare nei ricordi dello scrittore con i suoi ritmi lenti e con il suo silenzio, con le sue atmosfere serene e con i suoi ulivi enormi simili a pachidermi, chiusi nei campi cinti di muri a secco; e con quella tipica monotonia dei mesi estivi che rendeva immobile il paesaggio facendo quasi perdere la cognizione del tempo e degli avvenimenti. Un paese avvolto nella solitudine che sembrava essere la condizione persistente, l’ineludibile destino di ogni sardo. Eppure, Dessì si trovava a suo agio in quell’ambiente tagliato fuori dal mondo, aspro e selvaggio “come gli animali selvatici nel bosco e gli uccelli nell’aria”. Devo dire che San Silvano è un libro che ha una sua straordinaria forza evocatrice, capace di trasmettere nell’animo del lettore sensazioni e sentimenti, gli stessi provati dall’autore. E quel paese che scorgiamo tra le sue pagine, attraverso i ricordi del suo illustre figlio, ci appartiene perché diventa simbolicamente il nostro antico paese nativo, retaggio di un passato ormai perduto.
Anna Dolfi,
nella sua introduzione al libro (Oscar Mondadori – ediz. del 1980) ha scritto
che San Silvano è il libro “più intensamente poetico, più struggentemente disperato,
più appassionatamente lucido, coraggioso, patetico (nell’accezione antica,
silenziosa di pathos), tra quelli scritti da Giuseppe Dessì”.