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giovedì 30 giugno 2022

Il male oscuro

 


“il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore”

“Il male oscuro” di Giuseppe Berto è un libro che lascia un segno profondo e indelebile nell’animo del lettore. E’ un racconto autobiografico - duro e spietato - di una nevrosi, fondata sulla paura di vivere, e per uno scrittore, anche sulla paura di scrivere.  Un libro che l’autore vergò di getto, quasi impetuosamente, in una località della Calabria - Capo Vaticano - dove si era ritirato in solitudine, impiegando poco più di due mesi di tempo per redigere le oltre cinquecento pagine. La sua grande paura era proprio quella di fermarsi e di non avere più la forza di continuare a scrivere; e forse fu proprio questa paura che lo portò ad elaborare una tecnica narrativa nuova ed originale: periodi lunghissimi, interminabili, che corrono per pagine e pagine senza alcuna punteggiatura. “Era come se avessi scoperto – scrive Berto - il bandolo d’un filo che mi usciva dall’ombelico: io tiravo e il filo veniva fuori, quasi ininterrottamente, e faceva un po' male si capisce, ma anche a lasciarlo dentro faceva male”. Raccontare per guarire. La scrittura come autoanalisi e medicina dell’anima. Ma, una volta arrivato alla fine, Berto si rese conto che il romanzo andava rivisto e in qualche maniera riscritto; e fu un lavoro che gli costò molto più tempo e fatica di quanto non gli fosse costato scriverlo la prima volta. Pubblicato nel 1964, si aggiudicò in poche settimane due premi prestigiosi: il Viareggio e il Campiello. E' sicuramente un classico della nostra letteratura.

Da tempo volevo procurarmelo, ma poi usciva quasi sempre dai miei pensieri e, come dire, lo perdevo di vista, fino a quando non l’ho scovato sul solito banchetto di un mercatino dell’usato. Non è un romanzo facile, a dir la verità, tuttavia pur trattando il tema della malattia che forse mai nessuno, prima di Berto, aveva avuto l’ardire di raccontare in una maniera così cruda, senza pregiudizi e impedimenti, il libro non appare sconfortante. La lettura scorre veloce e senza affanno, nonostante i lunghi periodi, che a volte possono suscitare una sorta di effetto apnea. E tutto questo grazie ad una diffusa e sottile ironia che avvolge gli episodi più tragici, più sgradevoli e tristi della vicenda. Lo stesso Berto ebbe a scrivere nell’appendice: “non è certo un’invenzione mia: Svevo e Gadda ci sono arrivati assai prima di me, e d’altronde un nevrotico non potrebbe scrivere se non fosse sostenuto dall’umorismo: una fortuna in mezzo a tanti malanni”. Attraverso la sua umana esperienza, l’autore de “il male oscuro” sembra volerci insegnare che non dobbiamo avere paura di guardare dentro di noi, perché nascondere certe oscure verità, certi disagi, certe paure non serve che a renderci sempre più ammalati e infelici.


martedì 28 giugno 2022

Addio a Raffaele La Capria

 


“Mi sono svegliato con un allegro pensiero: “Ma io sono preparato davvero a morire?”. E ho concluso che no. So che devo morire – statisticamente – in questa decade, che va pressappoco dai miei ottanta ai miei novanta. Ora ne ho ottantuno. Dunque tra breve. Ma “non ci sto”, non posso crederci realmente e mi comporto e vivo come se non ci credessi. Ne parlo spesso in questo diario, per esorcismo e con poca vera convinzione. Non riesco proprio a immaginare che non ci sarò più. E’ inevitabile lo so, so che capita a tutti, faccio anche la concessione di accettarlo con una certa umiltà come una forma infine di vera uguaglianza che vale per l’uomo e l’animale, per me e per il mio cane, per il ricco e per il povero di spirito, ma fingermene almeno con la fantasia la vera portata, questo stamattina non mi riesce. E se ci provassi entrerei in una specie di racconto di Poe, che da una parte è terrificante e dall’altra non ha senso, perché non ha senso credere di poter sperimentare ciò di cui non è dato a nessuno fare esperienza da vivo.

Una parabola, raccontata dal solito saggio cinese, descrive bene quel che sento a volte quando penso al destino ineluttabile che m’aspetta. Un uomo entra in una sala con tante porte, quante sono le occasioni della vita all’inizio. Deve sceglierne una per uscire, lui esita parecchio, ci sono mille opportunità, poi apre una porta che lo conduce in una sala più piccola che di porte ne ha soltanto la metà, e poi di metà in metà arriva a una sala con sei porte. Ne sceglie una per andarsene ma questa dà in un’altra stanza che ha tre porte. Di nuovo ne sceglie una e finisce in una stanza con una porta sola. E quando apre quella entra in una stanza senza porte. Veramente la parabola del saggio cinese non finisce così, io l’ho modificata. Quella del saggio cinese non finisce in una stanza senza porte (come la mia) ma in un lungo corridoio in fondo al quale c’è un carnefice con una spada sguainata, la Morte. Io sono, nella mia immaginazione, forse più cinese del cinese, perché la mia angoscia al pensiero della morte è claustrofobica, sono morto ma allo stesso tempo sono un vivo che pensa se stesso come un morto. Insomma sono incapace di pensarmi in altro modo se non vivo. Ma poiché devo morire, entro in una stanza senza uscita e lì rimango per l’eternità come un sepolto vivo di Poe. Meglio non pensarci, meglio non pensare la morte se la pensi nell’unico modo in cui puoi pensarla: da vivo. E poi è possibile tenersi così in basso come fai tu? Neanche un po' di metafisica? Si, mi tengo in basso e penso ai due momenti in cui sento che il morto viene separato dai vivi: quando saldano la cassa di zinco e avvitano le viti del coperchio della bara, e quando in chiesa la bara viene portata via e tutti con un sospiro di sollievo “non ci pensano più” e se ne vanno finalmente per i fatti loro nella luce del sole, parlando delle solite cose. E’ allora che penso alla solitudine del morto e ne ho pietà. Allora sento che è abbandonato al suo destino, destino di distacco, di non ritorno, di addio definitivo. E penso al povero corpo lasciato solo al cimitero mentre cala tra le tombe l’ombra e l’umidiccio della sera. E comincia il processo graduale verso l’oblio totale”.

tratto da “L’estro quotidiano”

di Raffaele La Capria

 


giovedì 23 giugno 2022

Quella faccia un pò così...

 


Il sociologo Domenico De Masi, qualche anno fa, scriveva che i 5 Stelle non erano ancora pronti a governare perché, per essere classe dirigente di un paese, prima di tutto occorreva avere la faccia giusta: “quella rapace di La Russa, quella greve di Salvini, quella stitica di Monti, quella paracula di Mastella”. Ma non bastava la faccia, ci voleva anche “la parola alata di Vendola, quella sibillina di Moro, quella cafona di De Luca”. E poi – diceva sempre De Masi - occorrevano le idee, come quelle “sgangherate di Alfano, quelle perfide di Ichino, quelle variopinte di Gasparri”. Insomma, per diventare veri statisti di partito occorreva “l’ingenuo candore di Andreotti e l’adolescenziale stupore di Scajola, la santità di Previti e la trasparenza di Gianni Letta, il giovanile coraggio di Napolitano, la pluridecennale esperienza governativa della Boschi e la specchiata onestà di Ciancimino”. Ecco, finalmente dopo alcuni anni di praticantato e di esperienza, alcuni Pentastellati capeggiati da Giggino – rinnegando il passato - si sono staccati dalla casa madre perché ritenevano, finalmente, di avere acquisito le giuste e necessarie qualità per essere considerati vera classe dirigente di questo nostro martoriato paese. E pensare – caro Domenico De Masi - che il fesso e ingenuo che scrive, illudendosi, li aveva pure votati,  proprio perché allora non avevano quella faccia “un po' così…” che hanno i politici nostrani.


lunedì 6 giugno 2022

"Ognuno si sputa parole addosso"

 


“Si parla per risonanza e le parole non nascono più dal pensiero. La testa si è svuotata e ognuna ha generato un mobile, un telefonino che suona, per chiamare un altro telefonino che suona anch’esso. Sentendone suonare uno, ogni uomo accende il proprio e al rumore che esce dalle fauci si unisce il suono di sette miliardi e duecento milioni di telefonini, che produce in ogni minuto sette miliardi e duecento milioni di sms vocianti. Così tutti devono rispondere e, per rispondere, devono alzare il tono del telefonino. E le urla del telefonino si uniscono alle urla dell’uomo di superficie e persino in Cielo giungono urla disumane e gli angeli si spaventano. Jahvè urla come si fosse giunti al Giudizio universale, ma non si riesce più a distinguere un telefonino da un uomo e nasce un caos perché all’Inferno al posto di un peccatore viene talvolta inviato un mobile. (…) Ciò che serve è la parola. I concetti sono ormai putrefatti, l’iperuranio è un cimitero. Domina la parola. Esce dalla bocca ed è sputata contro un’effige umana che subito sputa una frase che, a propria volta, genera un periodo.

Ognuno si sputa parole addosso (…) Siamo fatti tutti di rumori e abbiamo bisogno di rumori per dare energia al rumore. Esistono studenti che leggono il trattato di filosofia teoretica mentre dalle cuffie giunge loro un brano di musica techno e allo stesso tempo parlano al telefonino con un interlocutore virtuale, che non c’è. Tutto deve avvenire in tempo reale e occorre muoversi senza un perché e senza un piano, semplicemente per lo stimolo a cui occorre dare subito una risposta. Ogni uomo ha raddoppiato e sovente triplicato la propria quota di rumore, poiché si trova all’interno di uno o due telefonini e, in quest’ultimo caso, anche i telefonini si parlano. Il risultato è sempre e soltanto il rumore.

Quando si incontra un uomo che non emette rumori, o è morto oppure è folle. In quest’ultimo caso, il tono della voce è flebile, l’espressione sotto tono e, così, non riesce mai a farsi sentire. Sindrome gravissima poiché non permette l’azione in tempo reale e mantiene l’uomo nella fase che precede il fare e così non agisce. E’ la malattia di chi immagina prima ciò che dovrebbe fare dopo e, così, non entra mai dentro il rumore e finisce solo per subirlo, senza creare la giusta parte che gli spetta come uomo di superficie. (…) Sono spaventato dalla regressione dell’uomo che vorrei fosse solo un mio delirio, ma che osservo invece dirigersi lentamente verso il primitivo e il selvaggio. E’ questa la superficie dell’uomo ridotto a un meccanismo di apparenza e a un sopravvivere come una farfalla che non sa immaginare per quale significato continui a volare. Ho assistito a un progressivo vantaggio evolutivo della stupidità e ho constatato che l’intelligenza e la creatività sono state poste ai margini come qualità inferiori di un vivente inferiore. La stupidità è uno stadio intermedio verso il non senso, verso il fare senza capire, al fare come automatismo per essere. Questo stato doveva definire un robot. E’ diventato l’uomo, l’uomo metropolitano. Sono testimone di come sia rapida la morte di una civiltà che ha richiesto secoli e fatica per essere costruita, pur senza raggiungere la perfezione. Una torre cresciuta a poco a poco e d’un tratto ridotta a macerie…”

Tratto da “BEATA SOLITUDINE – Il potere del silenzio” (Piemme)

Vittorino Andreoli