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domenica 24 aprile 2022

"Bagheria": quando la vita entra nella letteratura

 


Fare buona letteratura è anche raccontare la propria vita, raccogliere suggerimenti dal proprio vissuto. D’altronde, quasi tutti gli scrittori del passato, mescolando a volte finzione letteraria e realtà, hanno scritto romanzi autobiografici, a cominciare dal più grande di tutti: Proust. Anche la scrittrice Dacia Maraini, nata a Firenze e appartenente al ramo siciliano di un’antica e nobile famiglia - gli Alliata di Villafranca, duchi di Salaparuta - ha attinto dai suoi ricordi personali, dalla sua vita passata, per scrivere alcune sue opere. Questa scrittrice la conoscevo solo come donna amabilmente raffinata e salottiera, spesso ospite dei talk show televisivi, ma non avevo letto nulla di suo. Per caso mi sono imbattuto in “Bagheria”, un romanzo autobiografico pubblicato nel 1993, ed ho avuto modo di apprezzarne anche le  chiare doti letterarie.

Bagheria è la cittadina siciliana dove la Maraini arrivò, insieme alla sua famiglia, dopo due anni di prigionia trascorsi in un campo di concentramento giapponese. Qui, nella splendida villa familiare settecentesca di Valguarnera, circondata di limoni e ulivi e sospesa in alto sopra le colline - uno dei maggiori complessi architettonici di Bagheria - trascorre gli anni della sua fanciullezza e della sua adolescenza. I ricordi di quel periodo affiorano nitidi e a volte malinconici, tra le pagine di questo libro: la sua timidezza, le sue sterminate letture (Lucrezio, Tacito, Shakespeare, Dikens, Conrad, Melville…), il sesso scoperto come inganno e violenza, gli odori e i profumi di quella terra, la bellezza della valle di olivi che digradavano verso il mare, il rumore continuo delle onde sulle rocce, il freddo dell’inverno mitigato da una stufa; ma anche la mafia e l’arroganza di quell'aristocratica famiglia, e poi la madre “bionda e splendente”, il padre “burbero e allegro, ribelle e solitario”, le sorelle, i cugini, le tante zie, i nonni, gli amici dell’infanzia che orbitavano intorno alla villa: costituiscono i reali personaggi del romanzo. “Per anni – scrive la Maraini – ho cancellato dalla mia vita quelle parentele, considerandole tanto lontane da me da non poterne tenere conto. Mi vergognavo di appartenere, per parte di madre, a una famiglia così antica e nobile. Non veniva proprio da loro – si chiede la scrittrice - da quelle grandi famiglie avide, ipocrite, rapaci, gran parte del male dell’isola? Odiavo la loro incapacità atavica di cambiare, di vedere la realtà, di capire gli altri, di farsi da parte, di agire con umiltà. E la sola idea di dividere qualcosa con loro, fosse solo una involontaria somiglianza, mi disgustava”. Lei aveva sempre avversato le ricchezze di quelle grandi famiglie siciliane, che nutrivano e facevano prosperare le mafie locali. Non aveva mai voluto indagare sul passato, da dove venissero quelle ville, quelle terre che ormai non le appartenevano più ma erano lì a testimoniare fasti lontani. Era sempre stata dalla parte del padre che mal sopportava quel mondo ricco e arrogante, e si considerava nata dalla sua testa “come una novella Minerva, armata di penna e carta, pronta ad affrontare il mondo attraverso un difficile lavoro di alchimia delle parole”. Ma, alla fine, anche la madre aveva dato un calcio a quel passato e si teneva alla larga da quella pletora di parenti famelici.

Per parlare di quel mondo, di quella Sicilia, la Maraini ritorna in quei luoghi che l’avevano vista bambina, in quell’antica e bellissima residenza della sua infanzia dove ancora vive una sua vecchia zia. Ma non intende raccontare “di una Sicilia immaginaria, di una Sicilia letteraria, sognata, mitizzata. Ma di quel rovinio di vestiti di broccato, di quei ritratti stagnanti, di quelle stanze che puzzavano di rancido, di quelle carte sbiadite, di quegli scandali svaporati, di quelle antiche storie”, storie che comunque le appartengono e non possono essere scacciate solo perché la infastidiscono.

“Parlare della Sicilia significa aprire una porta rimasta sprangata”, dice  la scrittrice nel suo libro. E una volta aperta quella porta “mi sono affacciata nel mondo dei ricordi con sospetto e una leggera nausea. I fantasmi che ho visto passare non mi hanno certo incoraggiata. Ma ormai ero lì e non potevo tirarmi indietro”.


martedì 19 aprile 2022

Un libro dissotterrato: "Gli ultimi sensuali"

 


Parlavo l’altra sera con mia moglie di Mario Puccini, a cui avevo dedicato un post, tempo fa. Lo ripubblico.

Mario Puccini, chi era costui? Oggi, sicuramente, mi sarei posto questa domanda se non avessi conosciuto – tanti anni fa - una giovane ragazza (diventata poi mia moglie), che stava scrivendo la sua tesi di laurea in Lettere Moderne sulla vita e le opere di uno scrittore marchigiano, nato a Senigallia nel 1887 e morto a Roma nel 1957: Mario Puccini. Ricordo che la suddetta laureanda (che viveva nel Cilento) - non riuscendo a trovare un paio di libri di questo scrittore, ed essendo venuta a conoscenza che il figlio Dario Puccini (critico letterario ed uno dei massimi studiosi di letteratura spagnola) viveva a Roma - mi pregò di contattarlo, per recuperare quei testi, fondamentali per la preparazione della sua tesi di laurea. Devo dire che Dario Puccini mi accolse nella sua abitazione con squisita gentilezza e - nel fornirmi i due volumi tanto ricercati - mi omaggiò anche di un altro romanzo “Gli ultimi sensuali”, scritto sempre dal padre Mario (Garzanti editore – 1944). Ricordo ancora che lo “abbandonai” sullo scaffale della mia libreria, senza degnargli neppure uno sguardo, tra quei libri in attesa di essere letti. E lì è rimasto per oltre quarant’anni, con le sue pagine sempre più ingiallite dal tempo. Poi, giorni fa, chissà per quale oscura e misteriosa ragione - visto che già altre volte nel passato l’avevo preso tra le mani senza mai decidermi – ho avvertito una strana sensazione: era arrivato finalmente il momento di leggere “Gli ultimi sensuali” di Mario Puccini. L’ho preso con estrema delicatezza, come se fosse una cosa preziosa e rara e man mano che proseguivo nella lettura mi sono accorto che le pagine - che si erano mantenute intatte per tanti anni, seppure ingiallite – iniziavano a staccarsi dal dorso una ad una, come quando un innamorato sfoglia una margherita ripetendo “m’ama o non m’ama”. O come accade a un reperto archeologico che, mantenutosi integro per tanti secoli sepolto sotto una coltre di terra, si sgretola una volta rinvenuto e portato alla luce del sole.

Ma le parole erano intatte, limpide, senza tempo. Una prosa dal sapore antico, se mi è consentito, così lontana dalle mode effimere della letteratura usa e getta dei nostri giorni. Il libro contiene tre brevi racconti, incentrati su tre diverse tematiche: l’amore, l’amicizia e l’impotenza, condizione quest’ultima intesa come inadeguatezza del proprio ruolo sociale. L’autore porta avanti la sua narrazione attraverso personaggi riservati, schivi, dall’indole solitaria che appartengono ad una condizione umana inappagata e alienata e ne indaga l’aspetto psicologico della loro esistenza. Mi piace qui riportare l’incipit del primo racconto che io ritengo sia il più bello, quale assaggio dello stile narrativo di questo autore. Il protagonista è un professore che vive a Varese e conduce una vita solitaria, tra la scuola dove insegna e la camera in cui vive. Non avendo né affetti, né amici, né distrazioni decide di ritornare nel suo paese d’origine, per ritrovare ciò che laggiù aveva lasciato di caro e forse il meglio della sua vita: il suo antico amore.

 

“Trentadue anni che non ritornavo tra le mura, nelle vie; che non respiravo l’aria della mia città. Ma sono contento di essermivi riaffacciato in queste giornate: che da tempo non è più estate, ma il tardo, l’ultimo autunno non è ancora precipitato con le sue ore scopertamente grevi, mollicce: e il sole non è più troppo caldo, pieno, ma neanche si arrende languido e docile al vento che sgruppa ed allenta con estrema facilità le nuvole sulle quali il suo bagliore s’infila e sparpaglia. Al mare non si andava già più in queste mattine; ma la città pareva diventata come più piccola, più meschina: le piazze, le contrade, le case, le piante, sembrava avessero perso ciascuna qualche cosa; una sorta di patina bigia, come una ruggine, macchiava e incupiva tutto…”.

Di questo autore Vasco Pratolini (leggo su Wikipedia) ebbe a dire: “uno dei maestri a cui la letteratura italiana deve rendere giustizia”. Ma la buon’anima di Puccini sta ancora aspettando. I suoi libri non si trovano più da nessuna parte…e chissà se c’è ancora qualche temerario che si spinge a fare una tesi di laurea su di lui. Io credo che un romanzo non muore mai fino a quando c’è qualcuno che lo legge e ne parla. Perché leggere un libro introvabile e dimenticato da tutti è come riesumarlo dall’oblio del tempo e dargli nuova vita.

 


sabato 9 aprile 2022

Il mio mondo racchiuso nei libri di 50 scrittori

 


Leggo Carlo Collodi perché con “le avventure di Pinocchio” ritorno bambino;

leggo Miguel de Cervantes perché non si può non amare “Don Chisciotte della Mancia”;

leggo Michel de Montaigne perché è saggio;

leggo Federico de Roberto perché ha scritto un bellissimo romanzo storico: i Vicerè;

leggo F. Dostoevskij per capire che in ogni essere umano c’è l’aspirazione ad un mondo migliore;

leggo Sandor Marai perché è raffinato;

leggo Guido Ceronetti perché è dissacrante;

leggo Ennio Flaiano perché è illuminante;

leggo Hermann Hesse perché è spirituale;

leggo Luciano De Crescenzo perché è simpatico;

leggo Gabriele D’Annunzio perché è solenne;

leggo Erri De Luca perché scrive come parla;

leggo Raffaele la Capria perché è l’unico napoletano che mal digerisce la “napoletanità”;

leggo Robert Walser perché voleva essere uno “zero assoluto”;

leggo Erasmo da Rotterdam (l’elogio della pazzia) perchè bisogna essere pazzi per essere felici;

leggo Anna Frank perché il suo “diario” mi fa piangere;

leggo W. Goethe perché posso viaggiare senza partire con il suoViaggio in Italia”;

leggo Ivan Goncarov (Oblomov) perché amo l’ozio e la lentezza;

leggo Antonio Gramsci (Lettere dal carcere) perché la scrittura ti salva dall’isolamento;

leggo Primo Levi (Se questo è un uomo) per non dimenticare l’orrore di cui è capace l’animo umano;

leggo Alberto Moravia perché mi ricorda gli anni della mia giovinezza;

leggo Fernando Pessoa perché descrive le sue inquietudini, che sono anche le mie;

leggo Elsa Morante de “L’sola di Arturo” perché amo Procida;

leggo J. D. Salinger perché con Il giovane Holden” cavalco le mie (poche) ribellioni adolescenziali;

leggo Herman Melville perché mi piace “lo scrivano Bartleby” che dice sempre di No;

leggo Lucio Anneo Seneca perché non mi stanco mai di leggere le “Lettere a Lucilio”;

leggo Italo Svevo perché mi rispecchio nei suoi personaggi inetti;

leggo Cesare Pavese perché non si può non leggerlo;

leggo Carlo Levi perché “Cristo si è fermato a Eboli”;

leggo Marcel Proust perché è il più grande, e proprio per questo faccio fatica a leggerlo;

leggo Antonio Tabucchi perché mi ha fatto conoscere Pessoa;

leggo G. Tomasi di Lampedusa perché ha scritto “Il Gattopardo”, quello del tutto cambia affinché nulla cambi;

leggo Franco Arminio perché è il poetico paesologo dei nostri tempi;

leggo Vladimir Nabokov perché “Lolita” si legge almeno una volta nella vita;

leggo Oscar Wilde perché “Il ritratto di Dorian Gray” è un libro meraviglioso;

leggo Lalla Romano perché ti fa navigare “nei mari estremi”;

leggo Arthur Schopenhauer perché è pessimista;

leggo Vittorino Andreoli perché è un pessimista che illumina;

leggo Thomas Mann perché è un grande scrittore;

leggo Henry Thoreau perché “l’uomo che viaggia solo può partire oggi; ma chi viaggia in compagnia deve aspettare che l’altro sia pronto”;

leggo Ernst Gombrich perché nessuno, meglio di lui, sa raccontare la bellezza;

leggo Sibilla Aleramo perché era una donna affascinante ed ha scritto “Una donna”;

leggo Giorgio Bassani perché continuo ad amare i suoi libri;

leggo Gian Piero Bona perché “Il silenzio delle cicale” è un romanzo di rara bellezza;

leggo Vitaliano Brancati perché è l’ironico cantore del “gallismo italico”;

leggo Gesualdo Bufalino per il suo stile colto e raffinato;

leggo Dino Buzzati perché “Il deserto dei tartari” celebra l’attesa, che oggi abbiamo smarrito;

leggo Vincenzo Cardarelli perché non esistono più poeti come lui;

leggo Serge Latouche perché la “decrescita felice” può salvare il pianeta e migliorare la qualità della vita;

leggo Italo Calvino perché bisogna leggere sempre i classici perché “un classico non ha mai finito di dire quel che ha da dire”. Parola di Calvino.

 

leggo….


venerdì 1 aprile 2022

Scrivere, parlare...e leggere

 


Scrivere non è come parlare. Parlare non richiede tempo. Non richiede fatica. Non richiede impegno. Basta aprire la bocca e, anche se non è collegata al cervello, le parole defluiscono, volano, si perdono, fanno rumore. Basta sintonizzarsi su uno dei tanti talk show  televisivi (sono tutti uguali, cambia solo il nome), per rendersene conto. Scrivere richiede tempo, fatica, abilità. Le parole scritte hanno maggiore responsabilità. E poi restano, perché chi le scrive vuole restare a lungo nella mente di chi legge. Il desiderio segreto di chi scrive è quello di restare “per sempre”. “Scrivere è anche non parlare – diceva Marguerite Duras – E’ tacere. E’ urlare in silenzio”. Parlare e scrivere hanno distinte proprietà e richiedono differenti capacità: non è detto che chi scrive bene sappia essere altrettanto convincente nel parlare e viceversa. Certi scrittori, per esempio, io preferisco ascoltarli mentre parlano, piuttosto che leggerli: Andrea Camilleri, tanto per fare un nome, era uno di questi. Fino ad ora non ho mai letto un suo libro (e me ne rammarico), però pendevo dalle sue labbra quando mi capitava di vederlo in televisione. Quel suo modo di parlare, di gesticolare e di raccontare mi stregava. Naturalmente, me ne guardo bene dal dire che non sapesse scrivere! Ci sono poi altri scrittori che, in qualche maniera, scrivono così come parlano e si possono leggere o ascoltare con lo stesso entusiasmo. Con lo stesso piacere. Erri De Luca è uno di questi: quando comunica verbalmente sembra stia leggendo un suo libro. E poi esiste un’altra categoria di scrittori, senz’altro la più scadente, ed è quella rappresentata dai volti noti dello spettacolo, dello sport e della politica: straparlano su tutto in TV e, non contenti, si sentono pure autorizzati a scrivere libri per diffondere il loro verbo.

Non credo che oggi ci sia la impellente necessità di nuovi scrittori: basta entrare in una qualsiasi grande libreria per capirlo. Esistono già, per nostra fortuna, le fonti autorevoli da cui attingere il nostro nutrimento spirituale. E - se proprio lo vogliamo dire - non abbiamo alcun bisogno di “novità editoriali”. Certo, l’uomo non può smettere di scrivere, né si può impedirlo, sarebbe la fine della letteratura. Peccato, però, che certe opere scadenti a volte prendano il sopravvento, complice anche l’operato di certi editori che preferiscono gli affari alla cultura. E poi, viviamo in un tempo in cui la rincorsa alle novità è perenne, come se le novità fossero tutto. Ma un libro non è come l’ultimo modello di un telefonino. Un buon libro non invecchia mai, e per nostra fortuna ne sono stati già scritti tanti. Se rileggessimo, senza comprarne altri, quei nostri cento libri più importanti allineati sui ripiani della nostra libreria - aggiungendo magari all’elenco qualche classico che ci manca - io credo che faremmo una scelta culturale davvero meritoria. Più che di nuovi scrittori, abbiamo bisogno di nuovi lettori. Ho come l’impressione che tutto quello che c’era da scrivere, in qualche maniera, sia stato già scritto dai grandi della letteratura di ogni epoca. E in giro non ne vedo altri in grado di eguagliarli. Chi decide di scrivere un libro – che sia un autore affermato o un esordiente – credo che non abbia davanti a sé niente di nuovo da raccontare. Le solite storie fritte e rifritte. Oggi uno scrittore deve stare in sintonia col gusto corrente, che è il gusto della massa. E, infatti, quando un libro incontra il favore della maggioranza, si afferma come best-seller. Diventa il libro più venduto. Un libro che spesso nuota nel mare magnum dell’attualità, e fa sentire solo quel “brusio fuori dalla finestra – come diceva Calvino - che ci avverte degli ingorghi del traffico e degli sbalzi meteorologici”. E dopo un breve periodo di notorietà, quel libro cade nel dimenticatoio. Un fuoco di paglia, senza alcuna rilevanza letteraria. 

C’è da dire che i grandi scrittori del passato, all’inizio della loro carriera, raramente venivano compresi. Spesso infrangevano gli equilibri preesistenti, andavano contro il pensiero dominante, comunicavano una nuova etica, una nuova estetica. Insomma, sapevano guardare lontano creando un nuovo bisogno culturale che, raccolto dalle generazioni future, conferiva loro quell’aura di grandezza. Ecco, secondo me, oggi mancano questi autori non allineati, e se ci sono vengono ostacolati ed emarginati e, forse, verranno compresi e apprezzati solo in un prossimo futuro. Chi scrive oggi, preferisce adeguarsi alla logica narrativa dei tempi e vendersi al migliore offerente: è la strada più facile per trovare un briciolo di successo e vendere qualche libro.