Cerca nel blog

lunedì 26 novembre 2018

Lettere di una novizia di Guido Piovene



Si capisce già dal titolo che il libro di Guido Piovene “Lettere di una novizia” , pubblicato nel 1941, appartiene a quello specifico genere letterario classificato come “romanzo epistolare” in cui la narrazione si dipana attraverso uno scambio di lettere tra i vari personaggi, legati in maniera differente alle vicende del racconto. Da Foscolo (Le ultime lettere di Jacopo Ortis) a Goethe (I dolori del giovane Werther), da Grossman (Che tu sia per me il coltello) a Tabucchi (Si sta facendo sempre più tardi) – tanto per fare qualche nome – sono tanti gli autori, sia del passato che del presente, che si sono cimentati con questo interessante genere letterario.
“Lettere di una novizia”, considerato dalla critica il romanzo più importante dello scrittore vicentino, racconta la storia di una giovane donna (Margherita Passi) la quale - vicina a farsi suora – si trova a vivere una profonda crisi esistenziale che la porterà a dubitare della sua stessa vocazione monacale. Non riuscendo più a vedere chiaro in se stessa e provando timore per il futuro, la protagonista decide di scrivere una lunga lettera al suo padre confessore raccontandogli della sua vita, delle sue paure, dell’inquietudine da cui è tormentata. Da questa prima missiva prende il via una fitta corrispondenza che coinvolgerà altri personaggi, tra i quali la madre superiora del convento, il Vescovo e la stessa madre della novizia. Sono lettere di un elevato livello letterario, piene di risvolti psicologici da cui traspare un mondo, quello religioso legato in modo particolare alla vita conventuale,  ermeticamente chiuso in se stesso, dove l’ipocrisia, l’ inganno, la menzogna e le paure sembrano regnare sovrani. Ognuno si batte per salvare se stesso: la novizia cerca di far prevalere i suoi sentimenti e le sue buone ragioni, ricorrendo anche a falsità, mentre le autorità religiose si adoperano alacremente affinché l’ordine costituito non venga messo in discussione e l’esempio negativo non prenda il sopravvento. Tuttavia, tra errori ed inganni, sullo sfondo di un Veneto molto amato dall’autore, dove “solo la nebbia colorata e la luna hanno una triste opulenza”, non mancano i messaggi di amore e di redenzione diffusi attraverso le lettere dai protagonisti del libro.

martedì 20 novembre 2018

"Cristo si è fermato a Eboli": le annose questioni del Sud



Per la tematica trattata, oggi potrebbe essere definito un libro-denuncia il romanzo di Carlo Levi “Cristo si è fermato a Eboli”, che  io ho letto per la prima volta negli anni scolastici. L’ho voluto rileggere perché bisogna sempre ritornare sui grandi libri; e poi volevo ritornare a riflettere su quei problemi riguardanti il territorio a sud di Eboli che comunemente vengono associati alla “questione meridionale”.

Il romanzo rappresenta un duro e amaro “dipinto” sulle condizioni di vita disumane delle popolazioni del Sud Italia - e della Lucania in particolare - negli anni del ventennio fascista, popolazioni abbandonate da Dio e dallo Stato alle quali – scrive Levi - “neppure la parola di Cristo sembra mai essere giunta”. Si, perché Cristo, fermandosi ad Eboli non sarebbe mai arrivato in quella terra che era stata il regno dei banditi, dove il contadino viveva la propria esistenza nella miseria, eternamente paziente e rassegnato. Dove anche la natura, fatta di lande desolate e incolte, sembrava più matrigna che madre. Carlo Levi, antifascista di Torino, laureato in medicina, venne confinato in Lucania nel 1935 dove rimase per 3 anni. Assegnato prima a Grassano venne poi trasferito a Gagliano (l’attuale Aliano), dove si trovò immerso in una realtà per lui completamente sconosciuta, in un mondo arcaico, chiuso, feudale dove “gli odi e le guerre dei signori sono il solo avvenimento quotidiano”. E sono proprio i signori ed i contadini i protagonisti di questo libro. Da una parte, quindi, i cosiddetti galantuomini, rappresentati dal podestà, dal brigadiere dei carabinieri, dal medico condotto, dal farmacista, dal prete e così via, uomini  pieni di sussiego e supponenza, sempre diffidenti tra di loro “che trasformano la propria delusione e la propria noia mortale in un furore generico, in un odio senza soste, in un perenne risorgere di sentimenti antichi e in una lotta continua per affermare, contro tutti, il loro potere nel piccolo angolo di terra dove sono costretti a vivere”.  Dall’altra parte i contadini, che non erano considerati uomini ma bestie, rassegnati alla loro sorte, che vivevano miseramente in catapecchie fatte di una sola stanza che serviva da cucina, da camera da letto e quasi sempre anche da stalla per le bestie. I signori erano quasi tutti iscritti al “Partito”, perché il “Partito” ai loro occhi rappresentava il Governo, lo Stato, il Potere: essi naturalmente si sentivano partecipi di quel potere. I contadini invece, per la ragione opposta, non erano iscritti a nessun movimento politico, non potevano essere né fascisti, né socialisti, né liberali, perché erano faccende che non li riguardavano, appartenevano ad un altro mondo, non avevano una coscienza politica. Per loro, lo Stato era un’entità sconosciuta e astratta, da cui non si aspettavano nulla; per la gente della Lucania, Roma era la capitale dei signori, il centro di uno stato in cui non si sentivano di appartenere. La vera capitale era stata Napoli, al tempo dei Borboni; ora poteva essere New York, la città dove i contadini emigravano in cerca di lavoro e di fortuna. Ed infatti nelle loro case si potevano trovare due sole immagini appese alle pareti: il Presidente Roosevelt e la Madonna di Viggiano. Quindi né il Re, né il Duce vegliavano su di loro, ma il capo di uno stato estero e la Madonna. L’arrivo del forestiero Carlo Levi a Gagliano venne salutato dai signori con diffidenza: soprattutto i due medici del posto vedevano in lui (laureato in medicina anche se non aveva mai esercitato la professione) un possibile rivale. I contadini invece lo accolsero molto bene, si affidavano alle sue cure, ai suoi consigli, lo vedevano come un vero medico, molto più preparato dei “medicaciucci” del paese, di cui non si fidavano.

L’autore si dilunga in descrizioni molto intense sulle condizioni di vita di questa povera gente, alle prese con la fatica quotidiana del vivere in una terra senza risorse, completamente abbandonata dallo Stato e in continua lotta con una malattia che non lasciava scampo e mieteva vittime: la malaria. Attraverso quell’amara esperienza di vita, Carlo Levi maturò una convinzione: non poteva essere lo Stato a risolvere la questione meridionale, perché lo Stato era il vero ostacolo a che si facesse qualcosa di propositivo verso quella terra. Lo scrittore piemontese era convinto che esistesse un abisso fra lo statalismo fascista allora imperante e l’antistatalismo dei contadini, abisso che si sarebbe potuto colmare solo se i contadini si fossero sentiti parte integrante dello Stato. E poi c’era la borghesia di paese  - un vero nemico per quella terra - che impediva ogni libertà e ogni possibilità di esistenza civile ai contadini “una classe degenerata fisicamente e moralmente  - così scrive Carlo Levi - incapace di adempiere la sua funzione, e che solo vive di piccole rapine e della tradizione imbastardita di un diritto feudale. Finché questa classe non sarà soppressa e sostituita non si potrà pensare di risolvere il problema meridionale”. Cristo si è fermato a Eboli costituisce la rappresentazione letteraria di un dramma umano e sociale, le cui molteplici sfaccettature, a distanza di 80 anni, non sembrano del tutto risolte.

martedì 13 novembre 2018

I potenti



Che ridicole, le pose vanitose
e disperate dei potenti. Quando
sono al centro della scena,
si mostrano sicuri ed arroganti –
cala il sipario e in un istante,
senza pudore, alzano al cielo
guaiti, pianti, penosissimi lamenti.

E’ universale l’umano affanno
per il tempo che implacabile
trascorre, ma la parabola
dell’uomo di potere disegna un arco
più misero, meschino – ché dietro
all’eroico trionfatore si cela
quasi sempre un querulo bambino.

 
Franco Marcoaldi

venerdì 9 novembre 2018

I cilentani: chi sono costoro?



Nella primavera del 1881 – a vent’anni dall’Unità d’Italia – un insigne studioso pugliese, Cosimo De Giorgi, intraprese un lungo viaggio esplorativo nel Cilento, con l’incarico di redigere una carta geologica del territorio. Nel percorrerlo tutto, dalle valli del Calore a quelle dell’Alento, ebbe modo di conoscere e studiare dettagliatamente anche le condizioni di vita e di lavoro dei suoi abitanti nonché le caratteristiche degli stessi, evidenziandone miserie e degrado, pregi e difetti. Il suo reportage è contenuto in un libro molto importante “Viaggio nel Cilento” (pubblicato da Galzerano Editore) la cui lettura mi stimola (da buon cilentano) a fare una riflessione unicamente sull’identità e sulle caratteristiche peculiari dei cilentani. Sarebbe oltremodo interessante capire – a distanza di 137 anni da quel viaggio – se le specificità caratteriali di quei nostri antenati, descritte con dovizia di particolari nel libro, ancora ci appartengano o siano invece superate dai tempi, dalla cultura e dalla civiltà. Insomma, quello che io mi chiedo è se  possiamo ancora considerarci – noi moderni cilentani – discendenti di quegli antichi abitanti della seconda metà dell’Ottocento. E’ chiaro che la mia non vuole essere un’analisi socio-antropologica a valenza scientifica dell’intima natura dell’uomo cilentano: vorrei soltanto soffermarmi, con leggerezza e senza pregiudizi ed in maniera anche ironica, su alcuni aspetti caratteriali messi in evidenza dallo scrittore pugliese, il quale, “calandosi” tra gli uomini del Cilento, ci offre la possibilità di guardarci nello specchio del passato e verificare cos’è cambiato in questo arco di tempo.


La prima cosa che traspare dalla lettura del libro è la grande ospitalità che i cilentani sapevano offrire ai propri visitatori “un’ospitalità franca, cordiale e senza orpelli. E’ questa la pagina più bella che renderà simpatica a tutti gli Italiani questa regione, come ha lasciato in me dei ricordi carissimi”. Così scriveva De Giorgi, il quale, girando tra i diversi paesi ebbe la possibilità di sperimentare la bontà e la meravigliosa accoglienza che gli riservavano: infatti a Roccadaspide il Sindaco lo accolse “a braccia aperte e mi offrì una cortese e gradita ospitalità nel suo palazzo”; a Felitto i signori che lo ospitarono “furono cortesissimi e mi prodigarono nel breve tempo che mi  trattenni delle cure affettuose delle quali serberò perenne ricordo”; a Vallo della Lucania il sig. Ermenegildo “mi usò un mondo di cortesie nel tempo che mi trattenni da lui”; a Pollica i signori della Cortiglia si dimostrarono nei suoi confronti “gentilissimi e colti”; a Ortodonico “mi prodigarono mille cortesie”, a Rutino la famiglia Magnoni “mi fu cordialissima” e a Vatolla “fui accolto gentilmente”.

I cilentani, insomma, erano e sono rimasti così: ospitali, dal carattere tranquillo e cortese. Ecco, bisogna tirar fuori il meglio della tradizione. E il meglio è rappresentato senza dubbio dall’accoglienza e dall’affabilità dei comportamenti che sono alla base della nostra forza e ci contraddistinguono. Il De Giorgi scriveva anche che il cilentano è in generale “docile, buono, quieto, laborioso, coraggioso e audace nei pericoli”. Però poi notava che era anche “geloso e vendicativo specialmente nella cerchia dei suoi parenti e conterranei”.  Escludo che lui oggi possa considerarsi vendicativo: la vendetta è un sentimento che non gli appartiene. E poi uno che possiede una grande dose di bontà non può pensare alla vendetta come mezzo di riparazione delle offese ricevute. Sarebbe una palese contraddizione. Aveva poi notato - il viaggiatore pugliese - che l’abitante di quel territorio aveva qualcosa dei popoli orientali quando cantava le sue canzoni intrise di frasi monotone e melanconiche che egli ripeteva in maniera cantilenante: canzoni in cui vi era sempre “l’impronta dell’amore disperato, della gelosia, dell’abbandono e della voluttà”. E’ difficile oggi immaginare le giovani generazioni (sempre con un cellulare tra le mai) che si dedichino a questo tipo di canto di stampo orientale. La televisione e San Remo, diciamocelo, hanno provveduto in maniera definitiva a cancellare ogni traccia di quel passato. Parlando poi dell’indole del contadino, De Giorgi scriveva che “è svelto, sobrio, perspicace per talento naturale non per educazione o per istruzione: ma il suo lavoro è profuso in modo cieco ed irrazionale, e serve più come forza muscolare che come intelligenza”. Ebbene quando ho letto questa frase il mio pensiero è andato immediatamente a ciò che mi disse, tempo fa, proprio un contadino del mio paese natale, che avendo visto il suo asino in difficoltà mentre stava per attraversare un ruscello, se lo caricò sulle spalle sussurrandogli in un orecchio: “mi puoi fottere con l’intelligenza ma non con la forza”.

Nonostante il De Giorgi non viaggiasse per scopi artistici, tuttavia non poteva esimersi dal visitare i monumenti e i cimeli d’arte che incontrava lungo il suo percorso. “Quanti tesori di arte e di antichità sono nascosti in questi piccoli paesi”, così annotava tra i suoi appunti. A tal proposito ebbe modo di verificare, in diverse circostanze, che nel popolo cilentano il sentimento della bellezza e dell’arte “era ridotto ai minimi termini”. Infatti, osservando gli edifici pubblici oltre quelli privati, si era reso conto che non era raro “veder delle case a due e tre piani, belle e finite e mobiliate con lusso nell’interno, ma senza facciata”. Devo dire che questo vizio non l’abbiamo ancora perso, tant’è che girando per i paesi è facile imbattersi in queste costruzioni le cui rifiniture esterne lasciano molto a desiderare. Il De Giorgi aveva notato inoltre che la coltura dei fiori, che ingentilisce lo spirito e rallegra la vista, in quei posti era sconosciuta, tanto è vero che un ricchissimo proprietario gli rispose “che preferivano un cavolo cappuccio ad una rosa o a un gelsomino”. Ma la cosa più grave era che sia a Paestum che a Velia “l’incuria degli uomini verso i monumenti sa dei popoli barbari…la profanazione qui ha toccato l’apice e prosegue vandalicamente senza che nessun italiano pensi ad opporvi riparo”. Mi viene da pensare a tutte le spoliazioni di monumenti perpetrate sul suolo italico e non solo nel Cilento. Basti pensare al detto latino: quod non fecerunt barbari fecerunt Barberini.

Aveva inoltre riscontrato nella popolazione anche la mancanza di iniziativa, lo scarso spirito di associazione, una certa indolenza e indifferenza per le cose, caratteristiche queste che forse ancora ci appartengono e che riguarderebbero praticamente tutto il meridione. Ogni opera buona e degna di attenzione veniva accolta con freddezza e con indifferenza – rilevava De Giorgi – “va innanzi pel tenace buon volere di qualcuno, e poi rapidamente languisce. Invano l’Autorità superiore cerca di soffiare un po’ di vita nel corpo addormentato; difficilmente si sveglia e presto si addormenta”. Egli portava l’esempio di Vallo della Lucania, dove due monumentali fontane decoravano la piazza; ma erano simulacri senz’acqua nonostante i monti dei dintorni fossero ricchissimi di acque potabili.

Ma gli odierni cilentani si sono risvegliati da quel torpore? Hanno abbandonato quell’atavico letargo che li costringeva all’inerzia? Sono stati capaci – nel corso degli anni – di esprimere una classe di amministratori locali all’altezza della situazione? I risultati sono sotto gli occhi di tutti, nel bene e nel male. Mi viene da pensare che quando un popolo, qualunque esso sia, riesce a fare autocritica individuando la parte peggiore di sé, debba munirsi di strumenti adeguati per combatterla. E penso che debba anche saper investire tutte le risorse e le energie necessarie al fine di potenziare il meglio che gli appartiene.

lunedì 5 novembre 2018

Gesualdo Bufalino e quegli amori fuggitivi del '51



Ci troviamo in una Roma “deserta di luna”, più o meno agli inizi degli anni ’80 del secolo scorso; un professore di lettere sessantenne - ormai in pensione – bloccato dall’inverno in un albergo della Capitale, rievoca le sue giovanili avventure di cuore risalenti al periodo in cui insegnava a Modica, un paesino della Sicilia “a pigione di un’Amalia vedova, con figlia in collegio, usufruttuario settimanale delle sue vogliose pinguedini”. Questo professore, protagonista del romanzo “Argo il cieco” (Bompiani editore) è siciliano come l’autore del libro, Gesualdo Bufalino, e si chiama - guarda caso - anche lui Gesualdo: è l’alter ego dello scrittore oppure è solo una strana coincidenza onomastica?
“Fui giovane e felice un’estate, nel cinquantuno. Né prima né dopo: quell’estate”. E’ lo struggente incipit del romanzo con cui il protagonista ci tiene a farci sapere, quasi a sottolineare, che fu sfiorato dalla felicità e dalla giovinezza solo “quell’estate” quando aveva circa trent’anni, lui che si era sempre sentito come un bambino vecchio “invecchiato dalla vita e dai libri” e di non avere mai avuto vent’anni. “Li ebbi allora all’impensata – dice la voce narrante – in regalo da quell’estate, dopotutto m’erano dovuti”. Nella sua camera d’albergo il vecchio professore ritorna ad essere il trentenne di quell’estate del cinquantuno e rammenta, con nostalgia, quel breve periodo spensierato della sua vita; ricorda quei suoi “amori non corrisposti” che secondo lui “sono i più comodi”. “Maria Venera non provava niente per me? – pensava Gesualdo mentre si faceva la barba – Tanto meglio: me ne veniva una libertà senza limiti, i miei moti per lei non appartenevano a nessun altro che a me, potevo nella fantasia giocarmela e vincerla a gusto mio”. Come si fa a non provare simpatia per un tale personaggio, che sa scherzare con i sentimenti e ridere di se stesso! E poi c’era Assunta, Isolina, Flora, Ada, Corrada “la cassiera Adalgisa del cinema Splendor, sdegnosa, chissà dov’è…”. Tutte ragazze brune che si affacciavano allegre dai balconi del paese “fuggitive, ahimè, come gli anni…”. Ma l’amore – dice il nostro personaggio – “non ha nulla da spartire con un’idea di felicità. Salvo quando non è ancora giunto e lo aspettiamo dietro i vetri, coltivandone il vizio nella mente, e fiutandone da lontano il fiato come un allarme di primavera”.

Durante la narrazione, ogni tanto, l’autore smette i panni del suo personaggio Gesualdo, si sdoppia dalla voce narrante per diventare se stesso e rivolgersi al suo lettore, come quando scrive: “…hai visto lettore? Sfido che non t’è piaciuto, non piace nemmeno a me. Ma vedi, lettore, io non faccio nessuno sforzo per piacerti o piacermi, e tu mi devi capire: la mia passione divorante è la noia, mai mi diverto tanto come quando do fastidio e muoio di noia”. Caro Gesualdo Bufalino, ognuno si diverte come può; mi dispiace deluderti ma devi sapere, per quanto mi riguarda, che i tuoi sforzi per non piacere hanno sortito l’effetto contrario: mi sei piaciuto.
“Argo il cieco” è un libro la cui la scrittura prevale sulla trama e si allontana dal quel linguaggio omologato generato da una certa letteratura contemporanea e, soprattutto, dall’odierna società di massa veicolata, ormai in maniera esorbitante, dalla rete e dai social.