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lunedì 29 gennaio 2024

Scrivere: un atto di vanità

 


Se ci soffermassimo a riflettere, con la dovuta attenzione, sui flussi di parole che inondano quotidianamente la nostra esistenza, capiremmo che il mondo non ha assolutamente bisogno delle nostre parole scritte. Sono già troppe quelle esistenti e niente possiamo aggiungere su ciò che è stato già detto da persone molto più autorevoli di noi, del presente e del passato. E’ come quando si entra in una grande libreria dove sono assiepati migliaia e migliaia di testi: ma chi mai dovrebbe comprare e leggere un nostro libro qualora decidessimo di scriverlo? Eppure, tutto questo non ci spaventa, non ci scoraggia e non ci fa desistere da questa attività che resta, nonostante tutto, tra le più nobili dell’animo umano. Mai come in questa nostra epoca ci siamo affidati in maniera così ostinata alla parola scritta, invogliati soprattutto dagli strumenti on line messi a disposizione dalla tecnica.

“Ho scritto poco – amava ripetere Cristina Campo – e mi piacerebbe aver scritto meno”. Un modo per attestare che la scrittura è una cosa seria che implica responsabilità civile, fatica, rispetto. E forse nessuna come lei rispettava le parole almeno quanto noi, sempre più spesso, le maltrattiamo. E poi aggiungeva: “se qualche volta scrivo è perché certe cose non vogliono separarsi da me come io non voglio separarmi da loro. Nell’atto di scriverle esse penetrano in me per sempre – attraverso la penna e la mano – come per osmosi”. Ma esiste questa fusione anche nel nostro scrivere? Le parole che usiamo hanno la forza di penetrare in noi e rimanerci? Diciamocelo: oggi usiamo la scrittura soprattutto per interagire con gli altri, quasi in tempo reale, attraverso i social. E’ un modo di scrivere istantaneo, frammentato - come il parlare – che non ha nulla a che spartire con un pensiero ponderato, riflessivo e profondo. Insomma, una scrittura liquida, scivolosa, che non lascia alcuna traccia importante né in chi scrive e tanto meno in chi legge.

Pare che il blog, invece, sia una forma espressiva superiore e di nicchia che ricorda - con i suoi testi brevi ed equilibrati - il diario o la lettera di antica memoria (anche se oggi nessuno si sognerebbe di scrivere una lettera come si faceva un tempo). Ma se il diario e la lettera sono strumenti privati che si rivolgono ad un solo destinatario, ad un solo lettore – anche se poi alcuni di questi testi sono diventati di dominio pubblico, epistolari famosi di alto valore letterario -  il post di un blog è indirizzato, invece, a tutti coloro che vi si imbattono per caso. E’ di tutti e di nessuno. Ma allora, se non ho un destinatario preciso e circoscritto, perché sento questo bisogno di scrivere e diffondere il mio messaggio in rete? E qui si potrebbe aprire un dibattito infinito dove ognuno esprimerebbe la propria motivazione.

 Io penso che tutte le convinzioni che spingono una persona a scrivere siano accomunate da un solo sentimento: la nostra vanità. Se fosse una merce in vendita, la vanità, andrebbe a ruba nonostante ne siamo tutti muniti, sia pure in diversa misura. E’ inutile girarci intorno: scrivere è un atto di vanità; è voler essere letti. Se nessuno ci legge non esistiamo. E noi vogliamo esserci in questo mondo. Vogliamo lasciare una traccia. E’ un sentimento così radicato nell’animo umano che ciascuno di noi desidera, in qualche maniera, essere ammirato e applaudito per ciò che scrive. Non metteremmo in rete un post, per il solo piacere di scrivere, se non avessimo la certezza che qualcuno prima o poi lo leggerà: fosse anche una sola persona. Ed è proprio questa persona sconosciuta la molla che ci spinge a farlo. Altrimenti basterebbe un quaderno su cui appuntare i nostri pensieri. Ma parlare ad una folla è molto più gratificante che parlare solo a sé stessi. Ti fa sentire importante. Ti fa immaginare che c’è qualcuno nella blogosfera che sta lì in attesa del tuo ultimo post.

Diceva una volta un filosofo che non affronteremmo un viaggio in mare per il solo piacere di vedere, senza speranza di poterlo mai raccontare. Scriviamo per gli altri, a cui vogliamo sempre insegnare qualcosa, ma non abbiamo nessuna intenzione di apprendere nulla da loro. Siamo tanto sensibili alle opinioni favorevoli che vengono espresse su di noi, quanto poco interessati a quello che gli altri dicono di sé stessi. In altre parole – miei cari amici blogger - la vanità degli altri proprio non la sopportiamo, attratti come siamo dalla nostra.


sabato 20 gennaio 2024

Pontiggia: chi l'ha visto?

 


“Spesso, quando si cerca di convincere gli altri, si tenta solo di placare i propri dubbi; e non c’è da stupirsi se si fallisce in entrambi gli intenti”


Mentre leggevo “La grande sera”, un romanzo di Giuseppe Pontiggia, mi veniva da pensare che quasi tutti i miei scrittori preferiti sono morti. E spesso dimenticati dagli editori prima ancora che dai lettori. Da Michele Prisco a Giovanni Arpino, da Ercole Patti a Luciano Bianciardi, da Raffaele La Capria a Vitaliano Brancati, da A. Maria Ortese a Lalla Romano – tanto per fare alcuni nomi, ma la lista è davvero lunga – sembra quasi che le mie letture siano legate ad una tomba. Come se la morte dell’autore potesse imprimere una sorta di sigillo di garanzia o un alone di grandezza su quelle opere letterarie che mi sono più congeniali. Senza negare, tuttavia, che certi scrittori passati a miglior vita appaiono, oggi – per la loro statura morale e artistica - molto più vivi dei vivi. Vista la distanza davvero incolmabile che passa tra le opere dei primi (i morti) e quelle dei secondi (i vivi).

Considero Giuseppe Pontiggia, scrittore lombardo morto una ventina di anni fa, la new entry in questa mia particolare e amata classifica. “La grande sera”, forse il suo libro più importante, l’ho scovato sul banchetto di un mercatino dell’usato. Conoscevo per sentito dire il nome di Giuseppe Pontiggia, ma non avevo ancora letto niente di suo. Questa lettura è stata, per me, davvero una piacevole sorpresa.

La vicenda del romanzo è estremamente semplice ed essenziale: in un pomeriggio estivo, in una Milano di qualche anno fa, un affermato professionista sparisce all’improvviso senza lasciare alcuna traccia. Oggi, probabilmente, se ne occuperebbe “Chi l’ha visto” che – guarda caso – è la storica trasmissione televisiva di RAI 3 che nasce nel 1989, l’anno in cui il libro fu pubblicato aggiudicandosi il premio Strega. L’assenza, congiuntamente all’attesa sono i due temi del romanzo, la cui vicenda riguarda non tanto la storia del protagonista che si è dato alla fuga quanto quella degli “altri” che ruotano intorno a lui e che reagiscono, in maniera diversa, alla scomparsa: la moglie, l’amante, il fratello, la cognata, il nipote, il socio d’affari. “Forse era stanco di definire insensata la propria vita come si fa solo per poterla accettare, e si era preso improvvisamente un giorno insensato”. Di fronte a questa oscura sparizione, emerge il carattere molto discutibile dei vari personaggi, ognuno avvolto nella propria ipocrisia, nelle proprie amarezze e delusioni e si scopre tutta la pochezza dei sentimenti da cui gli stessi sono animati. Sembra quasi che il protagonista scomparso riesca finalmente a disvelare i sotterfugi, le menzogne, le cose non dette e non fatte, il vuoto esistenziale delle loro vite poco esaltanti. E a mettere in luce ambizioni e rinunce, incertezze e falsità e ambiguità relazionali fino ad allora occultate. L’assente che smaschera la fuga dei presenti dalle loro responsabilità. E mentre cercano senza troppe convinzioni lo scomparso, costoro si rispecchiano in quell’assenza e finiscono per cercare sé stessi.

Con uno stile misurato e preciso, non privo di appuntite divagazioni ironiche sulla psicologia dei vari personaggi e con un’abbondanza di aforismi che impreziosiscono la narrazione e la rendono più profonda, Pontiggia ci restituisce il piacere della lettura. Come solo i grandi sanno fare.


venerdì 12 gennaio 2024

Stazione Termini

 


Sono appena sceso da un treno alta velocità “Frecciargento” di Trenitalia: rientro nella Capitale dopo molti giorni trascorsi nella mia casetta al paese. Il mio buen retiro. Ad accogliermi (si fa per dire) è la stazione Termini, “luogo non luogo” per antonomasia secondo l’antropologo francese Marc Augè, che ha coniato questo neologismo valido anche per gli aeroporti, gli autogrill e altri luoghi simili. L’impatto, per uno che viene da un paesello dove il tempo sembra essersi fermato e dove non esistono assembramenti è, a dir poco, traumatizzante. E devo dire che sebbene io sia vaccinato a questi contrasti, ogni volta avverto la stessa sensazione di straniamento.

La stazione Termini è diventata una sorta di centro commerciale dove, però, arrivano e da cui partono anche i treni. E’ un luogo nel quale manca ogni riferimento storico e identitario, uno spazio di passaggio per migliaia di individui che si incrociano senza mai entrare in relazione tra di loro; un luogo di consumo, da cui si parte per assolvere quell’intimo desiderio personale – ma anche quell’obbligo sociale (se non fai una settimana alle Seychelles non sei nessuno) - del viaggiare, sempre più orientato dalle riviste specializzate e dalle agenzie turistiche, che consigliano mete sollecitando desideri e sogni di evasione.

Per motivi diversi, di svago o di necessità, non riusciamo e forse non vogliamo più stare fermi nello stesso posto. Mi vengono in mente le parole di Blaise Pascal che riecheggiano nei suoi Pensieri e che sembrano rivolgersi all’uomo d’oggi, sempre più smanioso di partire, di andare “…tutta l’infelicità degli uomini proviene da una cosa sola: dal non saper restare tranquilli in una stanza…per questo gli uomini amano tanto il rumore e il trambusto…per questo il piacere della solitudine è una cosa incomprensibile”. Dobbiamo muoverci, viaggiare, spostarci a velocità supersonica da un punto all’altro della Terra con tutte le conseguenze che ciò comporta: inquinamento ambientale, distruzione del territorio e…coronavirus, diffuso proprio per via della vita frenetica e convulsa che tutti noi conduciamo. La condizione del vivere non è più legata intimamente al territorio. Il viaggiare, la fusione culturale, la facilità di muoversi, la creazione di grandi spazi urbanizzati e anonimi e non classificabili uguali gli uni agli altri, hanno finito con il produrre una separazione tra l’uomo e il territorio in cui abita, uno scollamento irreparabile tra l’uomo e la natura.

Osservo quella moltitudine assiepata nella stazione Termini (di cui anch’io faccio parte), munita di  trolley simili a vagoni ferroviari, brulicante e rumorosa come un alveare e mi sento isolato. Spaesato. E’ la solitudine che nasce non dall’essere soli ma dall’essere tanti in un luogo non luogo che avvolge tutti senza riferimenti identitari, circondati da immensi cartelloni pubblicitari e decine di monitor che proiettano, senza sosta, immagini di un mondo irreale, mentre i rumori di fondo, assordanti, disorientano e avviliscono. E’ incredibile come a volte l’impatto con un luogo possa farti piombare, all’improvviso, in una sorta di girone infernale e farti sentire a disagio. Avevo lasciato alle spalle altri paesaggi, altri riferimenti: il profilo di una collina, un bosco al limitare di una vigna, i rintocchi di una campana, un ritmo di vita lento e umano. E poi il silenzio, il grande assente in un luogo come la stazione Termini di Roma. Mi guardo in giro, ma non vedo smarrimenti di sorta, tutti sembrano sicuri e tranquilli, a proprio agio, indifferenti al rumore, alla frenesia che serpeggia nel luogo. Solo due persone anziane, dall’aria preoccupata – probabilmente marito e moglie – con la loro valigetta d’altri tempi si guardano intorno smarriti cercando  di trovare una via d’uscita in quella babele. Mi si avvicinano ansiosi come due pesci fuor d’acqua – forse perché sono l’unico che non sta al cellulare e non corre in maniera forsennata - per chiedermi del treno per Roccasecca. Li osservo con dolcezza e mi domando come possano trovarsi lì, da soli, in quella bolgia che scalpita. E mentre li indirizzo verso il treno per Roccasecca - la loro salvezza – mi ringraziano riconoscenti e mi dicono che il mondo a cui appartengono non esiste più. Loro sono gli ultimi superstiti. Queste parole mi colpiscono. E se, invece, fossimo tutti noi dei superstiti, in questo mondo?