Cerca nel blog

giovedì 11 aprile 2024

Lettera al Direttore di un giornale

 




Caro Direttore,

un tempo, nemmeno tanto lontano, ero un tuo affezionato lettore e compravo, tutti i giorni, il giornale da te diretto. Un rito irrinunciabile, come quello del caffè mattutino, per cominciare bene la giornata. Aveva poche pagine – quel giornale - perché è meglio tacere quando non c’è niente di nuovo da scrivere; e poche immagini in bianco e nero, immagini essenziali che sapevano davvero raccontare ciò che le parole non dicevano. Allora, i politici parlavano poco e scrivevano ancora di meno perché non esistevano quelle iatture che si chiamano “i social”, e i giornali non correvano il rischio di cadere nell’attuale riprovevole inganno: fare da cassa di risonanza alle loro parole. La pubblicità, poi, era quasi inesistente e appena lo aprivi – quel giornale - ti appariva la famosa “terza pagina”, sinonimo di cultura, di giornalismo di qualità. Sapesse - caro Direttore - quante ne conservavo di quelle pagine! Autentiche perle letterarie da rileggere nei momenti di particolare noia esistenziale. Oggi la “terza pagina”, inventata dai padri nobili del giornalismo, è occupata dalle quotidiane fandonie pronunciate da questo o da quell’altro politico di questo o di quell’altro partito, con tutti i noiosissimi e inconcludenti commenti al riguardo. E la pagina culturale che fine ha fatto? Relegata, quando c’è, in fondo al giornale. Come a voler dire che con la cultura non si mangia, come ebbe a sottolineare tempo fa un ministro, i cui sproloqui oggi trovano rilevanza proprio su quella pagina un tempo appannaggio di ben altri pensieri.

Come le dicevo, caro Direttore, da un po' di anni a questa parte, quel rito che si consumava con piacere tutte le mattine recandomi all’edicola non si ripete più, anche perché è sempre più difficile trovare un’edicola aperta: stanno chiudendo tutte e il giornale non lo compro con l’assiduità di un tempo. Ma non creda, caro Direttore, che io abbia scelto altre testate giornalistiche o che mi avvalga della rete per tenermi informato! Niente di tutto questo! A me piace troppo la carta stampata e non potrei mai leggere un giornale on line stando davanti allo schermo di un computer o - peggio ancora – con gli occhi incollati allo smartphone, che nemmeno possiedo. Semplicemente, non mi ci ritrovo più tra quelle pagine diventate teatrino della politica più greve e del gossip mediatico.

Mi preme sottolineare che ciò che oggi rimprovero ai giornali è di farci prestare attenzione a fatti a volte insignificanti e marginali, a seguire gli insulsi giochetti della politica politicante. E, sinceramente, devo anche dirle che non mi piace affatto questo sottile confine che esprime oggi la stampa, sempre in bilico tra il sensazionalismo e il voyeurismo, un giornalismo, questo, tipico della televisione commerciale, per cui se nel mese di agosto si suda, è immancabile il titolo a tutta pagina: “il paese nella morsa del caldo”; e se piove - come sempre piove in inverno - è la solita “bomba d’acqua” che si abbatte sull’Italia. E che dire della spettacolarizzazione del dolore e delle tragedie umane e familiari? Intere pagine riservate all’ultimo efferato delitto che “ha scosso la coscienza del Paese”, pagine che si ripetono per giorni e giorni in una sorta di raccapricciante telenovela. Capisco che, a volte, certe notizie e certi titoli fanno vendere più copie di giornali, perché sollecitano la morbosità latente della gente, così come le immagini più strazianti trasmesse dai telegiornali fanno più audience. Ma io credo – caro Direttore – che anche l’informazione abbia una sua dignità. Una sua credibilità. Interpretare correttamente gli avvenimenti che accadono, senza declamare alcuni fatti rispetto ad altri e senza costruire ad hoc una notizia per fare presa sul lettore, è compito fondamentale di un sano giornalismo. Altrimenti, perché dovrei comprare tutte le mattine un giornale che adopera certi espedienti solo per vendere qualche copia in più?

Il crollo delle vendite dei quotidiani è sotto gli occhi di tutti, basta entrare in un vagone della metropolitana di Roma nell’ora di punta: non vedi più nessuno che legge un giornale. Ma non è solo colpa di internet se tutti gli occhi sono appiccicati a quella famigerata tavoletta elettronica che si chiama smartphone. Qualche responsabilità ce l’ha anche chi fa giornalismo tradizionale, perchè non ha saputo trovare gli accorgimenti necessari per frenare l’avanzata dei nuovi canali informativi. E nell’era della dittatura digitale, la carta stampata sembra purtroppo un relitto del passato. Una vera disfatta. Stiamo perdendo un pezzo della nostra umanità, della nostra cultura, della nostra maniera di stare al mondo. Eppure, io credo che salvare il giornale cartaceo sia una fondamentale battaglia culturale, una vera e propria missione di civiltà e di libertà. Perciò - caro Direttore - mi affido alla sua lungimiranza, alla sua professionalità, alla sua capacità di mettere in discussione il sistema vigente che, attraverso la Rete, tende all’omologazione universale e  all’assenza di pensiero. Si inventi qualcosa di nuovo! riveda la sua maniera di progettare il giornale! faccia scrivere i suoi articoli alle menti più illuminate di questo Paese! non si arrenda lasciando l’informazione nelle mani dei media digitali. Insomma, caro Direttore, si adoperi nel migliore dei modi affinché quelli che amano il fruscìo della carta stampata possano continuare ancora a comprare un giornale. Per il nostro bene.


mercoledì 3 aprile 2024

Libri e guerre

 


Non amo leggere quei romanzi dove la guerra è al centro della narrazione e l’autore mescola personaggi di fantasia e fatti storici. Sarà perché – come diceva Gino Strada - io non sono un pacifista: sono contrario alla guerra. E mi fa orrore  anche solo pensarla e leggerla. Non riesco proprio ad appassionarmi a quelle storie romanzate, raccontate soprattutto da chi la guerra non l’ha vissuta personalmente. E ne dà una sua libera interpretazione. Ma dirò di più:  non riesco a guardare neppure i film di guerra. Non mi piace lo spettacolo della guerra. Così come non mi piace la spettacolarizzazione della sofferenza e del dolore altrui. Ma è proprio ciò che, oggi, succede sui mezzi di informazione. E che dire, poi, dei tanti guerrafondai da salotto che - comodamente seduti sulle loro poltrone - indossano l’elmetto d’ordinanza e discettano di guerra nei programmi televisivi! Secondo questi “pacifisti”, per garantire la pace nel mondo bisogna “preparare la guerra”. Io credo che tutti i problemi esistenziali dell’intera umanità potrebbero essere risolti se i potenti della terra, un bel giorno, decidessero finalmente di non spendere soldi per le armi e distruggere tutte quelle già esistenti. Riconosco che la mia è utopia allo stato puro. Mi piace, però, immaginare un mondo così: senza armi e senza guerre.

Ma ritorniamo ai libri sulla guerra; è necessario fare una distinzione tra i libri che raccontano storie di fantasia ambientate sullo sfondo di un conflitto, e quelli che raccontano, invece, la guerra attraverso la testimonianza di chi l’ha vissuta davvero sulla propria pelle, da combattente o da prigioniero. Devo dire che ho letto due volte “Se questo è un uomo” di Primo Levi, ma non sono riuscito ancora a leggere “Guerra e Pace” di Tolstoj. E tra i principali scrittori che hanno combattuto la guerra partigiana c’è, sicuramente, Beppe Fenoglio, un personaggio che ho sempre ammirato, conosciuto attraverso la lettura di articoli di giornali o la visione di qualche documentario televisivo, pur non avendo mai letto le sue opere, ispirate proprio dalle sue esperienze personali. “Una questione privata” è uno dei suoi libri più importanti – tra l’altro pubblicato dopo la sua morte - che stava da anni, in attesa, su un ripiano della mia libreria, ma per i motivi di cui sopra non avevo mai sfogliato. A volte certi libri, che appartengono a determinati generi letterari - che noi riteniamo difficoltosi per una serie di motivi - hanno bisogno di una sorta di spinta emotiva per poterli affrontare, indipendentemente dalla nostra volontà. E questa spinta a leggere Fenoglio è arrivata proprio alcune settimane fa, quando mi sono imbattuto in un bel post su https://orearovescio.wordpress.com/  dal titolo “la pioggia di marzo (cotture e letture)” dove il suo autore (massimolegnani) parlava, tra l’altro, di Beppe Fenoglio e di un suo romanzo “ostico”, dallo stile “difficile da digerire”: il Partigiano Jonny. Nel far presente - con un commento – che non mi ero mai misurato con le opere di questo scrittore piemontese, cantore delle Langhe e delle sue popolazioni durante l’ultima guerra, mi si è accesa una luce nella mente: era arrivata l’ora di affrontare la lettura, sempre rinviata, di “Una questione privata”.

E’ proprio vero: certi pregiudizi spesso influiscono sulle nostre scelte letterarie. E devo dire che il libro di Fenoglio non l’ho trovato per niente “ostico”, come ero portato a credere, ma intenso ed emozionante, che ti cala in quella realtà dura e drammatica che è stata la lotta partigiana. Un libro dallo stile asciutto e fulmineo che ha rafforzato la mia convinzione sull’assurdità della guerra, che determina sempre morte, distruzione, miseria. Una sconfitta per tutti. Fenoglio racconta le vicende di un giovane studente partigiano, Milton (il suo alter ego) durante la fine della seconda guerra mondiale, che vive la Resistenza come una questione privata, cercando di affermare e difendere il suo amore per Fulvia, una ragazza di Alba persa di vista. Un amore non tanto vissuto dal protagonista quanto evocato. E Fenoglio, con intensa partecipazione che coinvolge emotivamente, riesce a descrivere la guerra e i sentimenti, la morte e la giovinezza, la paura e il coraggio. A fine lettura ho pensato alle guerre in corso, che potrebbero deflagrare in una terza e definitiva guerra mondiale, e allora mi sono venute in mente quelle famose parole di Einstein: “non so con quali armi si farà la terza guerra mondiale, ma so che la quarta verrà combattuta con clave e pietre”. 



lunedì 18 marzo 2024

Leggere Mastro Don Gesualdo

 


E così, ci sono riuscito anch’io a leggere “Mastro Don Gesualdo” di Giovanni Verga, un libro che mi trascinavo dietro, come una zavorra, da oltre mezzo secolo. Un libro che tutti conoscono – almeno per sentito dire - ma pochi l’hanno davvero letto; un libro su cui siamo stati interrogati da studenti, il cui protagonista è da considerare, forse, tra i maggiori della nostra letteratura.

Gesualdo Motta è un muratore di umili origini della Sicilia rurale della prima metà dell’ Ottocento; è un “mastro”, come suol dirsi, il quale - dopo essersi arricchito – convola a nozze con una giovane donna appartenente ad una nobile famiglia decaduta e conquista il “Don”, quale appellativo di riguardo riservato ai notabili. Per tutti è Mastro Don Gesualdo: un uomo gretto, astuto, che non dà nessun valore ai sentimenti, attaccato ossessivamente alla sua “roba”, detestato e invidiato, per la rapida ascesa sociale, tanto dal basso ceto da cui proviene, quanto dalla nobiltà del paese che lo annovera tra i propri ranghi.

Un libro che mette in risalto due opposte visioni del mondo, due diverse realtà che si confrontano e si sfidano, senza mai trovare un punto d’incontro: da una parte la logica mercantile di un povero contadino che, diventato un ricchissimo proprietario terriero, tenta di emanciparsi socialmente, terrorizzato dalla paura di perdere la “roba” conquistata con tanta fatica e, dall’altra, l’ipocrisia e la superbia di una nobiltà di paese in declino, alla fine della sua parabola ascendente, corrosa da debiti e ipoteche.

Che dire: appare quasi anacronistica, oggi, la lettura di questo libro;  eppure, per comprendere meglio l’epoca in cui viviamo, a volte sarebbe necessario prendere le mosse proprio da certi testi letterari e dai fatti che raccontano, quei fatti scanditi in modo lento e ripetitivo dai tempi ciclici della natura, tanto che nell’arco di un’intera esistenza poteva capitare di non assistere a nessun tipo di cambiamento. Oggi, invece, i cambiamenti sono diventati inarrestabili grazie ai mezzi tecnologici che hanno determinato una compressione del tempo e dello spazio, imprigionando l’uomo moderno in un eterno presente che lo rende incapace, tanto di trarre insegnamento dagli errori e dalle virtù del passato, quanto di immaginare un futuro migliore. E allora, mi piace pensare che nel leggere Mastro Don Gesualdo – visto che è ancora presente nei programmi scolastici – gli studenti sappiano cogliere dalla tragedia umana ed esistenziale di questo antieroe della nostra letteratura che aveva affidato il suo riscatto sociale alla ricchezza, quel messaggio non scritto che però aleggia tra le pagine del libro, ossia: la felicità di un uomo non si può acquistare e la bramosia di possesso (l’accumulo di “roba” per Mastro Don Gesualdo) è sempre fonte di tensioni perché suggerisce una visione del mondo e della società distorta.


venerdì 8 marzo 2024

Un eremo non è un guscio di lumaca

 


Quando si pensa all’eremita, inevitabilmente affiorano alcuni pregiudizi duri a morire: si ritiene che il soggetto sia un asociale, che abbia paura della vita e allora non fa che chiudersi nel suo guscio, al riparo dalle difficoltà e dal mondo. Ma non è così. Scrive Adriana Zarri – teologa e scrittrice morta alcuni anni fa – in un suo libro che si intitola “Un eremo non è un guscio di lumaca” che un eremita “non è un misantropo inavvicinabile, non è nemmeno necessariamente un recluso che non possa, di tanto in tanto, muoversi e incontrarsi con la gente, che non possa soprattutto ricevere chi venga a condividere qualche ora della sua solitudine e a fargli dono della sua amicizia. L’eremita è semplicemente uno che sceglie di vivere da solo perché nella solitudine ha il suo momento privilegiato d’incontro”. Ecco, l’incontro si può avere solo in solitudine: l’incontro con gli uomini, l’incontro con sé stessi, l’incontro con Dio e con la preghiera (per chi crede) e l’incontro con la scrittura. Si, perché quando si scrive, e di conseguenza quando si legge, si sta in solitudine e, quindi, tanto la scrittura quanto la lettura sono attività eremitiche. 

Adriana Zarri era una donna libera che non aveva paura di esporsi a difesa delle sue idee e dei suoi principi. Non aveva mai praticato l’arrendevolezza: preferiva legare l’asino dove meglio credeva, anziché legarlo dove voleva il padrone. E, ad un certo punto della sua vita, decise di trasferirsi in una cascina sulle colline attorno ad Ivrea e di vivere da eremita, raccontando questa sua esperienza esistenziale in questo libro molto intenso. Il suo intento era quello di contestare, in qualche maniera, il nostro mondo che si fonda essenzialmente sull’ arrivismo e sul carrierismo, che predilige gli arrampicamenti sociali, calpestando magari i diritti delle classi più deboli. Ma desiderava anche sottolineare che, oggigiorno, alcuni valori sociali sembrano completamente dimenticati come il silenzio, il rispetto della natura e la preghiera, intesa - per un non credente – quale momento di ascolto interiore. Per la Zarri un eremo non è un guscio di lumaca: e lei non vi si era rinchiusa, ma aveva solo scelto di vivere in piena libertà, lontana dal clamore, lottando contro quella falsa retorica dello “stare insieme”, che vede i solitari come persone individualiste, nemici del vivere sociale. Ma il singolo, affinché possa acquistare una sua autonomia di pensiero e di giudizio che gli consenta di inserirsi nella comunità senza “affogarvi dentro”, ha bisogno di uno spazio di silenzio che gli permetta di non essere plagiato dal gruppo e da quei persuasori occulti che oggi si annidano nei mass media. “Silenzio e solitudine sono valori ineludibili” affermava la teologa; ma la cosa più interessante è che in ciascuno di noi “c’è una valenza monastica che attende d’essere tratta in superficie e sviluppata secondo le varie vocazioni”. 

Consiglio vivamente questo libro a chi oggi va sempre di fretta; a chi è convinto che i soldi siano l’unico valore in cui credere; a chi pensa che la solitudine sia un isolamento e un tagliarsi fuori e non, invece, un vivere dentro, percorsa da voci e animata di presenze. Lo consiglio a chi si fa possedere dalla tecnologia e dalle cose, anziché possederle; a chi si lascia stordire dalla folla e dal rumore, dimenticando che il silenzio “contiene ogni possibile parola”. Lo consiglio a chi non ha mai coltivato l’ “otium”, come l’ha coltivato per tutta la vita questa grande testimone dei nostri tempi.




sabato 2 marzo 2024

Il realismo magico di Antonio Donghi

 


Qualcuno ha detto che è impossibile, se non irriverente, commentare e descrivere un’opera d’arte. Davanti a un dipinto o ad una scultura possiamo solo guardare e lasciarci guidare, prima ancora che dal nostro stato d’animo, dalle emozioni che proviamo. E le emozioni non si possono raccontare, vanno semplicemente vissute. La parola scritta appare incompleta, insufficiente, e rischia di sovrapporsi a quanto il dipinto o la scultura vogliono trasmetterci. A questo pensavo mentre mi aggiravo per le sale di Palazzo Merulana a Roma, dove è stata allestita una mostra dedicata ad Antonio Donghi, uno dei maggiori esponenti del cosiddetto “realismo magico”, uno stile pittorico tra fantasia e realtà.



Questo artista mi affascina molto per le sue immagini inafferrabili e a volte indecifrabili, per le sue figure avvolte nel silenzio, sospese nell’attesa e nel mistero che sembrano inseguire una sorta di “incanto esistenziale”, per dirla con le parole dello storico dell’arte Bernard Berenson. Icone morbide e aggraziate, comunicano con la loro postura quasi ieratica, una bellezza taciturna e solenne. E ci osservano, chiuse nel loro mondo fuori dal tempo.

Il realismo magico di Antonio Donghi – scrive il curatore della mostra Fabio Benzi – è “intriso di una dimensione tutta romana, per la luce immobile di pomeriggi tiepidi, per la rilassatezza di pose e scene, per l’aria scanzonata di alcuni personaggi, che non sai se ti fissano severi o stanno scherzando, per l’ambiguità di fondo”.



lunedì 26 febbraio 2024

Diario siciliano: alla ricerca della felicità perduta

 


Amo leggere i grandi narratori siciliani del passato. Sono quelli provenienti dalla “provincia intelligente”, per usare una espressione cara a Leonardo Sciascia, che hanno fatto la storia della letteratura del nostro Novecento. E poi sono spariti, relegati nel dimenticatoio dall’esercito dei nuovi romanzieri di successo, i moderni interpreti e cantori del mondo attuale. Tra questi scrittori dimenticati c’è sicuramente Ercole Patti, il cui percorso umano e letterario si svolse tra Catania (dove nacque nel 1903) e Roma, che lo accolse e lo celebrò giovanissimo e dove si spense nel 1976. Grande amico di Vitaliano Brancati – altro figlio illustre di quella “provincia intelligente” - seppe descrivere mirabilmente nei suoi libri quella sicilianità che forse non esiste più, quel mondo dove la vita scorreva lenta, sonnacchiosa, monotona, noiosa...e dolce. Così dolce, ebbe a scrivere lo stesso Ercole Patti in un suo romanzo "che si poteva invecchiare senza accorgersene e ritrovarsi ad averla vissuta tutta senza averne avuto coscienza, rimanendo sempre figli di famiglia. Questo era il dolcissimo veleno di Catania".

Cercavo, da molto tempo, un suo libro che si intitola “Diario siciliano”: una raccolta di brani scritti in momenti diversi - molti dei quali pubblicati in più giornali del passato - e assemblati in un unico volume nel 1971, libro che non viene più stampato. E dove potevo trovarlo se non sul banchetto di un mercatino dell’usato? Devo dire che, nell’acquistarlo a soli tre euro, ho provato la stessa gioia che avverte un bambino nel ritrovare un giocattolo che credeva perduto per sempre.



“Diario siciliano” è un “viaggio autunnale compiuto a ritroso”, come lo definì l’autore, il quale contiene una trentina di racconti brevi autobiografici, scritti in forma diaristica tra il 1970 e il 1931. E’ una narrazione, questa – come peraltro il genere epistolare – che io considero di grande spessore letterario e che permette, all’autore prima ancora che al lettore, di soddisfare quell’estremo bisogno di tornare indietro nel tempo per riacciuffare, con la memoria, barlumi di felicità perduta. E questo libro di Ercole Patti, dalla prosa gradevole e armoniosa imbevuta di dolce malinconia, ne è la felice testimonianza. Attraverso il filtro incantato e poetico della sua scrittura, lo scrittore siciliano riesce a dare vita e voce a paesaggi, sentimenti, persone, odori, oggetti e gesti di un mondo scomparso. Vergati a ritroso, dagli anni più recenti a quelli della sua giovinezza, questi brevi capitoli del Diario sono come tasselli di un puzzle attraverso il quale l’autore sembra voler stemperare le proprie amarezze, la propria nostalgia e ricercare - per sé e per il lettore - quella felicità perduta.

Ecco, allora, la descrizione minuziosa degli oggetti che ci sono in un'antica casa di campagna, quel vecchio portone sprangato che evoca ricordi, il limone che cresce nell’orto i cui rami sfiorano il davanzale, l’antico uliveto che sorge tra rocce di lava secolare sulle pendici dell’Etna, dove fioriscono erbe selvatiche, ginestre e macchie di capperi; e poi l’odore inconfondibile e forte del frantoio, quello intenso delle olive macinate che piglia alla gola con una forza inebriante; il silenzio e la frescura dei paesetti che circondano le pendici dell’Etna immersi in un grande languore, in un dolcissimo letargo; e poi il suo amato paesino dell’infanzia – Pozzillo – tra Acireale e Catania, carico di agrumi e di olivi che si affacciano sui muretti a secco che costeggiano le strade; e il silenzio degli ulivi che si unisce al silenzio del mare che appare calmo e luminoso in fondo alle brevi stradine laterali che finiscono all’improvviso fra gli scogli; e ancora la vecchia credenza restaurata da cui emana un odore di lontana vita familiare e di affetti e che ricorda l’aria felice dei tempi dell’infanzia; il piccolo orto, attraverso il quale si entrava nella vigna; le fresche mattinate di ottobre, quando scendeva, ancora in pigiama, lungo i viottoli, tra le viti cariche d’uva ancora appannata dalla brina notturna; il ricordo struggente di quel bambino che, durante le mattinate d’estate a Catania - seduto tra la cameriera e la madre - allungava il collo per vedere l’arrivo della carrozza della ragazzina che amava, e che avrebbe incontrato sulla spiaggia; le strade di Catania piene di balconi in ferro battuto, ai quali Verga faceva affacciare i suoi personaggi nelle sere delle processioni; l’eterno passeggio pomeridiano in via Etnea, con i suoi marciapiedi consumati da un secolare strascicare di piedi… atmosfere,  queste, di un mondo, descrizioni di oggetti, di immagini, di odori, di colori, di paesaggi, di sensazioni che assurgono a protagonisti assoluti del libro, si confondono nella mente dello scrittore siciliano e diventano “l’espressione più alta della felicità”.


lunedì 19 febbraio 2024

Ritrovarsi in un libro

 


Se è vero che noi siamo quello che leggiamo, come sostiene qualcuno (ma si potrebbe anche affermare che noi leggiamo quello che siamo), ebbene lo scrivente – che si rifugia quasi sempre tra le pagine di certi libri del passato (a volte anche dimenticati) – non può che ritrovarsi in questo assunto: se il libro che sto leggendo mi piace è perché la mia anima si specchia in quel libro, e l’autore che l’ha scritto è un mio illustre alter ego che mi consente di scorgere, tra le righe, quella parte di me che forse non avrei potuto conoscere se non lo avessi letto. Mi ritrovo in quel determinato testo piuttosto che in un altro, perché la mia identità di lettore, la mia filosofia di vita, coincidono con la visione del mondo che racconta quel libro. Posso anche leggere gli “altri”, come faccio sempre, ma se non mi soddisfano, se mi lasciano indifferente, se quelle pagine scritte non le sento mie e non si verifica tra me e loro quella condizione che Goethe avrebbe definito “affinità elettive”, io quei libri li abbandono inevitabilmente da qualche parte sui ripiani della libreria. E non mi vedranno mai più.

A pensarci bene i libri che amo leggere e rileggere – almeno fino a questo momento – e che in qualche maniera li abito e me li sento addosso come un vestito su misura, non sono poi tanti e credo che si riducano ad una cinquantina, forse largheggiando. E molti di essi, come ebbe a dire una volta Ennio Flaiano, hanno aspettato anni e anni prima di essere ripresi e riletti, in un giorno di particolare disgusto esistenziale. Ma è la loro forza perché, proprio quelli e non altri, hanno la straordinaria capacità di farti riappacificare con la lettura. E con la vita.


lunedì 12 febbraio 2024

Chiese chiuse

 

Chiesetta di S. Francesco - Roma Torrevecchia

Amo perdutamente le chiese, scrive lo storico dell’arte Tomaso Montanari nel suo saggio “Chiese chiuse” edito da Einaudi. Luoghi di serenità e di preghiera, dove solo in linea teorica è possibile distinguere la dimensione religiosa da quella culturale. Luoghi capaci di suggerire una diversa dimensione del tempo, un altro ritmo esistenziale: riposo dell’anima e del corpo, le antiche chiese offrono una pausa di riflessione alla nostra vita esagitata, al nostro caos interiore. E’ tale la bellezza di questi spazi che anche la loro rovina riesce ad esercitare su di noi una indefinibile seduzione estetica. E devo dire - per quanto mi riguarda - che non esiste passeggiata per il centro storico di Roma che non comprenda una sosta in una chiesa, anche per allontanarmi solo per un momento dallo schiamazzo esterno e respirare un po' di silenzio. E riposarmi, in contemplazione, davanti al dipinto di una madonna del Seicento. Indipendentemente dal sentimento religioso, chi entra in una chiesa antica non può non subirne l’influsso. Non può non rimanerne affascinato.

Nessuno sa esattamente quante siano le chiese in Italia: si stimano in circa 95.000 - scrive il prof. Montanari nel suo libro - e sono migliaia quelle inaccessibili, pericolanti, sconsacrate e saccheggiate. Non è frutto solo della secolarizzazione che avanza o della nostra incapacità di preservare il patrimonio artistico e culturale, ma c’è qualcosa di più profondo che riguarda l’idea stessa di società che stiamo costruendo, sempre più orientata al profitto, all’evento mediatico, al sensazionalismo. “Il patrimonio è al sicuro – sostiene Montanari – finché è frequentato, amato, conosciuto: le chiese si aprono ai ladri, quando si chiudono ai cittadini”. Purtroppo noi, oggi, siamo martellati da un marketing maldestro e spietato che ci spinge ad essere clienti e turisti piuttosto che cittadini responsabili. Facciamo la fila per visitare l’ultima mostra a pagamento e non entriamo nella chiesa che si trova all’angolo, che spesso custodisce opere di altissimo valore storico ed artistico. E’ in atto una crescente mercificazione del nostro patrimonio culturale pensato non per aumentare la conoscenza e la sensibilità, non per una funzione educativa, ma per intrattenere e saziare un pubblico sempre più povero culturalmente. E sono sempre di più le antiche chiese che vengono chiuse ed alienate a privati, destinate poi - secondo logiche aziendalistiche - ad attività economiche ambitissime dall’industria dei matrimoni civili. Certo, niente vieta - scrive sempre Montanari - che nelle chiese si possano tenere concerti o conferenze o declamare poesie, insomma attività culturali: ma non a pagamento e senza snaturarne la dimensione spirituale.

In Italia, sono circa un centinaio le chiese monumentali cui si accede pagando, e moltissime altre prevedono biglietti per ambienti accessori, quali chiostri, sacrestie, campanili, cripte…ma una chiesa a pagamento non è più una chiesa, ma non diventa per questo un museo o una mostra. Le chiese sono sempre state – scrive Montanari – una sorta di “prosecuzione delle piazze…luoghi pubblici in cui entrare anche senza un perché. Perché fuori piove, o fa troppo caldo, per parlare con un amico in un giorno freddo, per rivedere un quadro o la curva di un arco che ci è caro. Luoghi intimi, spazi di respiro e riposo mentale per tutti noi che ci siamo cresciuti dentro: pezzi di una casa che ci ha dato forma e che potrebbe continuare a darcela. Un’esperienza unica, questa comunione con le antiche chiese: un’esperienza che di fatto i nostri figli non potranno avere”.

Di chi la colpa? si chiede il professor Montanari. Colpa di tutti i governi che hanno tagliato e continuano a farlo, i fondi per la manutenzione del patrimonio artistico. Colpa dei tanti proprietari delle chiese,  spesso non facili da identificare: dalla Santa Sede alle diocesi, dalle parrocchie agli istituti religiosi, dallo Stato alle Regioni…Colpa anche di un giornalismo servile capace solo di lodare il potente di turno per poi stupirsi che crollano i ponti e le chiese. Ha scritto Kant (citazione presente nel libro): “tutto ha un prezzo o una dignità. Ciò che ha un prezzo può essere sostituito da qualcos’altro a titolo equivalente; al contrario, ciò che è superiore a quel prezzo e che non ammette equivalenti, è ciò che ha una dignità”. Poter entrare, gratis, in una chiesa che custodisce bellezza è una cosa che ha una sua dignità. E sarebbe davvero intollerabile e blasfemo cancellare.



lunedì 29 gennaio 2024

Scrivere: un atto di vanità

 


Se ci soffermassimo a riflettere, con la dovuta attenzione, sui flussi di parole che inondano quotidianamente la nostra esistenza, capiremmo che il mondo non ha assolutamente bisogno delle nostre parole scritte. Sono già troppe quelle esistenti e niente possiamo aggiungere su ciò che è stato già detto da persone molto più autorevoli di noi, del presente e del passato. E’ come quando si entra in una grande libreria dove sono assiepati migliaia e migliaia di testi: ma chi mai dovrebbe comprare e leggere un nostro libro qualora decidessimo di scriverlo? Eppure, tutto questo non ci spaventa, non ci scoraggia e non ci fa desistere da questa attività che resta, nonostante tutto, tra le più nobili dell’animo umano. Mai come in questa nostra epoca ci siamo affidati in maniera così ostinata alla parola scritta, invogliati soprattutto dagli strumenti on line messi a disposizione dalla tecnica.

“Ho scritto poco – amava ripetere Cristina Campo – e mi piacerebbe aver scritto meno”. Un modo per attestare che la scrittura è una cosa seria che implica responsabilità civile, fatica, rispetto. E forse nessuna come lei rispettava le parole almeno quanto noi, sempre più spesso, le maltrattiamo. E poi aggiungeva: “se qualche volta scrivo è perché certe cose non vogliono separarsi da me come io non voglio separarmi da loro. Nell’atto di scriverle esse penetrano in me per sempre – attraverso la penna e la mano – come per osmosi”. Ma esiste questa fusione anche nel nostro scrivere? Le parole che usiamo hanno la forza di penetrare in noi e rimanerci? Diciamocelo: oggi usiamo la scrittura soprattutto per interagire con gli altri, quasi in tempo reale, attraverso i social. E’ un modo di scrivere istantaneo, frammentato - come il parlare – che non ha nulla a che spartire con un pensiero ponderato, riflessivo e profondo. Insomma, una scrittura liquida, scivolosa, che non lascia alcuna traccia importante né in chi scrive e tanto meno in chi legge.

Pare che il blog, invece, sia una forma espressiva superiore e di nicchia che ricorda - con i suoi testi brevi ed equilibrati - il diario o la lettera di antica memoria (anche se oggi nessuno si sognerebbe di scrivere una lettera come si faceva un tempo). Ma se il diario e la lettera sono strumenti privati che si rivolgono ad un solo destinatario, ad un solo lettore – anche se poi alcuni di questi testi sono diventati di dominio pubblico, epistolari famosi di alto valore letterario -  il post di un blog è indirizzato, invece, a tutti coloro che vi si imbattono per caso. E’ di tutti e di nessuno. Ma allora, se non ho un destinatario preciso e circoscritto, perché sento questo bisogno di scrivere e diffondere il mio messaggio in rete? E qui si potrebbe aprire un dibattito infinito dove ognuno esprimerebbe la propria motivazione.

 Io penso che tutte le convinzioni che spingono una persona a scrivere siano accomunate da un solo sentimento: la nostra vanità. Se fosse una merce in vendita, la vanità, andrebbe a ruba nonostante ne siamo tutti muniti, sia pure in diversa misura. E’ inutile girarci intorno: scrivere è un atto di vanità; è voler essere letti. Se nessuno ci legge non esistiamo. E noi vogliamo esserci in questo mondo. Vogliamo lasciare una traccia. E’ un sentimento così radicato nell’animo umano che ciascuno di noi desidera, in qualche maniera, essere ammirato e applaudito per ciò che scrive. Non metteremmo in rete un post, per il solo piacere di scrivere, se non avessimo la certezza che qualcuno prima o poi lo leggerà: fosse anche una sola persona. Ed è proprio questa persona sconosciuta la molla che ci spinge a farlo. Altrimenti basterebbe un quaderno su cui appuntare i nostri pensieri. Ma parlare ad una folla è molto più gratificante che parlare solo a sé stessi. Ti fa sentire importante. Ti fa immaginare che c’è qualcuno nella blogosfera che sta lì in attesa del tuo ultimo post.

Diceva una volta un filosofo che non affronteremmo un viaggio in mare per il solo piacere di vedere, senza speranza di poterlo mai raccontare. Scriviamo per gli altri, a cui vogliamo sempre insegnare qualcosa, ma non abbiamo nessuna intenzione di apprendere nulla da loro. Siamo tanto sensibili alle opinioni favorevoli che vengono espresse su di noi, quanto poco interessati a quello che gli altri dicono di sé stessi. In altre parole – miei cari amici blogger - la vanità degli altri proprio non la sopportiamo, attratti come siamo dalla nostra.


sabato 20 gennaio 2024

Pontiggia: chi l'ha visto?

 


“Spesso, quando si cerca di convincere gli altri, si tenta solo di placare i propri dubbi; e non c’è da stupirsi se si fallisce in entrambi gli intenti”


Mentre leggevo “La grande sera”, un romanzo di Giuseppe Pontiggia, mi veniva da pensare che quasi tutti i miei scrittori preferiti sono morti. E spesso dimenticati dagli editori prima ancora che dai lettori. Da Michele Prisco a Giovanni Arpino, da Ercole Patti a Luciano Bianciardi, da Raffaele La Capria a Vitaliano Brancati, da A. Maria Ortese a Lalla Romano – tanto per fare alcuni nomi, ma la lista è davvero lunga – sembra quasi che le mie letture siano legate ad una tomba. Come se la morte dell’autore potesse imprimere una sorta di sigillo di garanzia o un alone di grandezza su quelle opere letterarie che mi sono più congeniali. Senza negare, tuttavia, che certi scrittori passati a miglior vita appaiono, oggi – per la loro statura morale e artistica - molto più vivi dei vivi. Vista la distanza davvero incolmabile che passa tra le opere dei primi (i morti) e quelle dei secondi (i vivi).

Considero Giuseppe Pontiggia, scrittore lombardo morto una ventina di anni fa, la new entry in questa mia particolare e amata classifica. “La grande sera”, forse il suo libro più importante, l’ho scovato sul banchetto di un mercatino dell’usato. Conoscevo per sentito dire il nome di Giuseppe Pontiggia, ma non avevo ancora letto niente di suo. Questa lettura è stata, per me, davvero una piacevole sorpresa.

La vicenda del romanzo è estremamente semplice ed essenziale: in un pomeriggio estivo, in una Milano di qualche anno fa, un affermato professionista sparisce all’improvviso senza lasciare alcuna traccia. Oggi, probabilmente, se ne occuperebbe “Chi l’ha visto” che – guarda caso – è la storica trasmissione televisiva di RAI 3 che nasce nel 1989, l’anno in cui il libro fu pubblicato aggiudicandosi il premio Strega. L’assenza, congiuntamente all’attesa sono i due temi del romanzo, la cui vicenda riguarda non tanto la storia del protagonista che si è dato alla fuga quanto quella degli “altri” che ruotano intorno a lui e che reagiscono, in maniera diversa, alla scomparsa: la moglie, l’amante, il fratello, la cognata, il nipote, il socio d’affari. “Forse era stanco di definire insensata la propria vita come si fa solo per poterla accettare, e si era preso improvvisamente un giorno insensato”. Di fronte a questa oscura sparizione, emerge il carattere molto discutibile dei vari personaggi, ognuno avvolto nella propria ipocrisia, nelle proprie amarezze e delusioni e si scopre tutta la pochezza dei sentimenti da cui gli stessi sono animati. Sembra quasi che il protagonista scomparso riesca finalmente a disvelare i sotterfugi, le menzogne, le cose non dette e non fatte, il vuoto esistenziale delle loro vite poco esaltanti. E a mettere in luce ambizioni e rinunce, incertezze e falsità e ambiguità relazionali fino ad allora occultate. L’assente che smaschera la fuga dei presenti dalle loro responsabilità. E mentre cercano senza troppe convinzioni lo scomparso, costoro si rispecchiano in quell’assenza e finiscono per cercare sé stessi.

Con uno stile misurato e preciso, non privo di appuntite divagazioni ironiche sulla psicologia dei vari personaggi e con un’abbondanza di aforismi che impreziosiscono la narrazione e la rendono più profonda, Pontiggia ci restituisce il piacere della lettura. Come solo i grandi sanno fare.


venerdì 12 gennaio 2024

Stazione Termini

 


Sono appena sceso da un treno alta velocità “Frecciargento” di Trenitalia: rientro nella Capitale dopo molti giorni trascorsi nella mia casetta al paese. Il mio buen retiro. Ad accogliermi (si fa per dire) è la stazione Termini, “luogo non luogo” per antonomasia secondo l’antropologo francese Marc Augè, che ha coniato questo neologismo valido anche per gli aeroporti, gli autogrill e altri luoghi simili. L’impatto, per uno che viene da un paesello dove il tempo sembra essersi fermato e dove non esistono assembramenti è, a dir poco, traumatizzante. E devo dire che sebbene io sia vaccinato a questi contrasti, ogni volta avverto la stessa sensazione di straniamento.

La stazione Termini è diventata una sorta di centro commerciale dove, però, arrivano e da cui partono anche i treni. E’ un luogo nel quale manca ogni riferimento storico e identitario, uno spazio di passaggio per migliaia di individui che si incrociano senza mai entrare in relazione tra di loro; un luogo di consumo, da cui si parte per assolvere quell’intimo desiderio personale – ma anche quell’obbligo sociale (se non fai una settimana alle Seychelles non sei nessuno) - del viaggiare, sempre più orientato dalle riviste specializzate e dalle agenzie turistiche, che consigliano mete sollecitando desideri e sogni di evasione.

Per motivi diversi, di svago o di necessità, non riusciamo e forse non vogliamo più stare fermi nello stesso posto. Mi vengono in mente le parole di Blaise Pascal che riecheggiano nei suoi Pensieri e che sembrano rivolgersi all’uomo d’oggi, sempre più smanioso di partire, di andare “…tutta l’infelicità degli uomini proviene da una cosa sola: dal non saper restare tranquilli in una stanza…per questo gli uomini amano tanto il rumore e il trambusto…per questo il piacere della solitudine è una cosa incomprensibile”. Dobbiamo muoverci, viaggiare, spostarci a velocità supersonica da un punto all’altro della Terra con tutte le conseguenze che ciò comporta: inquinamento ambientale, distruzione del territorio e…coronavirus, diffuso proprio per via della vita frenetica e convulsa che tutti noi conduciamo. La condizione del vivere non è più legata intimamente al territorio. Il viaggiare, la fusione culturale, la facilità di muoversi, la creazione di grandi spazi urbanizzati e anonimi e non classificabili uguali gli uni agli altri, hanno finito con il produrre una separazione tra l’uomo e il territorio in cui abita, uno scollamento irreparabile tra l’uomo e la natura.

Osservo quella moltitudine assiepata nella stazione Termini (di cui anch’io faccio parte), munita di  trolley simili a vagoni ferroviari, brulicante e rumorosa come un alveare e mi sento isolato. Spaesato. E’ la solitudine che nasce non dall’essere soli ma dall’essere tanti in un luogo non luogo che avvolge tutti senza riferimenti identitari, circondati da immensi cartelloni pubblicitari e decine di monitor che proiettano, senza sosta, immagini di un mondo irreale, mentre i rumori di fondo, assordanti, disorientano e avviliscono. E’ incredibile come a volte l’impatto con un luogo possa farti piombare, all’improvviso, in una sorta di girone infernale e farti sentire a disagio. Avevo lasciato alle spalle altri paesaggi, altri riferimenti: il profilo di una collina, un bosco al limitare di una vigna, i rintocchi di una campana, un ritmo di vita lento e umano. E poi il silenzio, il grande assente in un luogo come la stazione Termini di Roma. Mi guardo in giro, ma non vedo smarrimenti di sorta, tutti sembrano sicuri e tranquilli, a proprio agio, indifferenti al rumore, alla frenesia che serpeggia nel luogo. Solo due persone anziane, dall’aria preoccupata – probabilmente marito e moglie – con la loro valigetta d’altri tempi si guardano intorno smarriti cercando  di trovare una via d’uscita in quella babele. Mi si avvicinano ansiosi come due pesci fuor d’acqua – forse perché sono l’unico che non sta al cellulare e non corre in maniera forsennata - per chiedermi del treno per Roccasecca. Li osservo con dolcezza e mi domando come possano trovarsi lì, da soli, in quella bolgia che scalpita. E mentre li indirizzo verso il treno per Roccasecca - la loro salvezza – mi ringraziano riconoscenti e mi dicono che il mondo a cui appartengono non esiste più. Loro sono gli ultimi superstiti. Queste parole mi colpiscono. E se, invece, fossimo tutti noi dei superstiti, in questo mondo?