La malinconia è uno stato d’animo prezioso, da riabilitare e custodire che appartiene soprattutto alle persone più sensibili. In un’epoca come la nostra, ipercompetitiva e frenetica, iperconnessa e veloce che ti schiaccia e ti manipola, la malinconia merita di essere celebrata come un sentimento nobile, proprio per allontanarsi in punta di piedi dalla frenesia del presente. Naturalmente non sto parlando della malattia, del male oscuro che non ti fa vivere, ma di quel sentimento gentile e benevolo che tende all’introspezione, alla nostalgia, alla contemplazione. Alla buona solitudine. Un sentimento soggettivo che viene spesso proiettato sul mondo esterno. Quante volte ci capita di dire o di sentire: “ è un paesaggio malinconico”, oppure “è una giornata davvero malinconica” e ancora “è una scrittura malinconica”. Succede che la malinconia di chi guarda e la malinconia della realtà circostante si incrociano, si fondono e si alimentano a vicenda. Una simbiosi che fa bene all’anima, che rifugge il pensiero dominante della felicità e del successo a tutti i costi e valorizza l’attesa, la prudenza, la riflessione, il silenzio, il dubbio. Io tendo alla malinconia più che all’euforia e più che apparire preferisco eclissarmi. Mi piacciono le storie malinconiche, le persone malinconiche. Alla luce sfavillante preferisco la penombra. E poi – lo confesso - non sono uno che ama particolarmente le feste, perlomeno certe feste. Mi ha dato conforto questo brano che riporto di seguito, tratto dal libro di Alain De Botton “Varietà della malinconia” (Guanda Editore): non sarei stato capace di celebrare meglio questo dolce sentimento.
“Una festa può essere
un’occasione particolarmente malinconica. Quasi sempre, fin dall’arrivo,
avvertiremo il notevole sforzo fatto per creare un’atmosfera accogliente e
amichevole. Qualcuno avrà predisposto un impianto audio, magari ci saranno
drink colorati e palloncini che rimbalzano sul soffitto. Cosa ancora più
importante, ci saranno persone estremamente ben intenzionate e desiderose di
vederci passare una bella serata che, dopo un po', potrebbero avvicinarsi e
chiedere: Tutto bene? Ti stai divertendo?
Le intenzioni sono commoventi,
ma il risultato può farci sprofondare nella tristezza. La stragrande
maggioranza delle feste si svolge con l’idea che, per aiutare la gente a rilassarsi
e a sentirsi di buon umore, servono manifestazioni di felicità, e di una
felicità particolarmente esuberante. Vedere l’allegria degli altri, ascoltarne
i successi e le gioiose descrizioni di inarrestabili progressi ci aiuterà ad
attingere alle nostre personali risorse di felicità e di fiducia.
Sembrerebbe logico, senonché la
verità sulla nostra psicologia è ben più strana. Ciò che veramente ci fa uscire
dall’isolamento non è vedere gli altri gioire, bensì constatare che i problemi
che ci affliggono – vergogna, senso di colpa, rimpianto, disperazione,
irritazione e disprezzo di sé – non sono semplicemente maledizioni personali,
come sospettavamo nella camera di risonanza del nostro cervello ansioso, ma si
trovano invece anche nel resto dell’umanità. E’ la sofferenza degli altri a
convalidare la nostra tristezza e a risollevarci il morale.
Tenendo a mente questa nuova
psicologia dell’amicizia, possiamo provare a immaginare come dovrebbe essere
una festa davvero orientata alla socializzazione. Probabilmente non ci sarebbe
musica allegra e ad alto volume, ma solo un malinconico concerto di Bach per
violoncello o una messa da requiem in sottofondo. Il padrone di casa ci
inviterebbe a raccontare tutto ciò che di imperfetto c’è nelle nostre vite e
che la società al di fuori di queste mura ha censurato. Avremmo l’opportunità
di svelare fino a che punto siamo ansiosi e quanto cupo siano certi nostri
pensieri. Tornando a casa da una serata così, saremmo davvero felici perché
avremmo avuto la possibilità di sfogarci e di sentir confermare da altri quanta
tristezza c’è nella vita.
E’ facile sentirsi misantropi
perché non si ha voglia di andare alle feste, ma in realtà è forse vero il
contrario. Odiamo quasi sempre le feste perché desideriamo in modo
eccezionalmente acuto dei legami profondi che semplicemente non riusciamo a
trovare nelle classiche occasioni sociali. Vogliamo restare soli non perché non
ci piaccia effettivamente stare in compagnia, ma perché ci piace quella vera,
mentre quello a portata di mano è un simulacro di compagnia e ci ricorda con
troppa forza una solitudine che ci spezza il cuore.
Alle feste, solitamente, ce ne
stiamo in piedi, circondati da quaranta persone, sentendoci più soli che se ci
trovassimo sulla superficie di Mercurio, perché i quaranta ospiti, che
avrebbero potuto darsi l’un l’altro così tanto, sono collettivamente
intrappolati nell’ideologia della finta euforia. In un futuro migliore,
impareremo a organizzare delle “feste malinconiche”, occasioni sociali dal nome
paradossale: niente più felicità ostentata, solo individui particolarmente
vulnerabili e sinceri, seduti a confessare quanto sia difficile per loro essere
umani. Ecco qualcosa che sarebbe davvero il caso di celebrare”.