mercoledì 24 maggio 2023

Feste e malinconia

 


La malinconia è uno stato d’animo prezioso, da riabilitare e custodire che appartiene soprattutto alle persone più sensibili. In un’epoca come la nostra, ipercompetitiva e frenetica, iperconnessa e veloce che ti schiaccia e ti manipola, la malinconia merita di essere celebrata come un sentimento nobile, proprio per allontanarsi in punta di piedi dalla frenesia del presente. Naturalmente non sto parlando della malattia, del male oscuro che non ti fa vivere, ma di quel sentimento gentile e benevolo che tende all’introspezione, alla nostalgia, alla contemplazione. Alla buona solitudine. Un sentimento soggettivo che viene spesso proiettato sul mondo esterno. Quante volte ci capita di dire o di sentire: “ è un paesaggio malinconico”, oppure “è una giornata davvero malinconica” e ancora “è una scrittura malinconica”. Succede che la malinconia di chi guarda e la malinconia della realtà circostante si incrociano, si fondono e si alimentano a vicenda. Una simbiosi che fa bene all’anima, che rifugge il pensiero dominante della felicità e del successo a tutti i costi e valorizza l’attesa, la prudenza, la riflessione, il silenzio, il dubbio. Io tendo alla malinconia più che all’euforia e più che apparire preferisco eclissarmi. Mi piacciono le storie malinconiche, le persone malinconiche. Alla luce sfavillante preferisco la penombra. E poi – lo confesso - non sono uno che ama particolarmente le feste, perlomeno certe feste. Mi ha dato conforto questo brano che riporto di seguito, tratto dal libro di Alain De Botton “Varietà della malinconia” (Guanda Editore): non sarei stato capace di celebrare meglio questo dolce sentimento.

“Una festa può essere un’occasione particolarmente malinconica. Quasi sempre, fin dall’arrivo, avvertiremo il notevole sforzo fatto per creare un’atmosfera accogliente e amichevole. Qualcuno avrà predisposto un impianto audio, magari ci saranno drink colorati e palloncini che rimbalzano sul soffitto. Cosa ancora più importante, ci saranno persone estremamente ben intenzionate e desiderose di vederci passare una bella serata che, dopo un po', potrebbero avvicinarsi e chiedere: Tutto bene? Ti stai divertendo?

Le intenzioni sono commoventi, ma il risultato può farci sprofondare nella tristezza. La stragrande maggioranza delle feste si svolge con l’idea che, per aiutare la gente a rilassarsi e a sentirsi di buon umore, servono manifestazioni di felicità, e di una felicità particolarmente esuberante. Vedere l’allegria degli altri, ascoltarne i successi e le gioiose descrizioni di inarrestabili progressi ci aiuterà ad attingere alle nostre personali risorse di felicità e di fiducia.

Sembrerebbe logico, senonché la verità sulla nostra psicologia è ben più strana. Ciò che veramente ci fa uscire dall’isolamento non è vedere gli altri gioire, bensì constatare che i problemi che ci affliggono – vergogna, senso di colpa, rimpianto, disperazione, irritazione e disprezzo di sé – non sono semplicemente maledizioni personali, come sospettavamo nella camera di risonanza del nostro cervello ansioso, ma si trovano invece anche nel resto dell’umanità. E’ la sofferenza degli altri a convalidare la nostra tristezza e a risollevarci il morale.

Tenendo a mente questa nuova psicologia dell’amicizia, possiamo provare a immaginare come dovrebbe essere una festa davvero orientata alla socializzazione. Probabilmente non ci sarebbe musica allegra e ad alto volume, ma solo un malinconico concerto di Bach per violoncello o una messa da requiem in sottofondo. Il padrone di casa ci inviterebbe a raccontare tutto ciò che di imperfetto c’è nelle nostre vite e che la società al di fuori di queste mura ha censurato. Avremmo l’opportunità di svelare fino a che punto siamo ansiosi e quanto cupo siano certi nostri pensieri. Tornando a casa da una serata così, saremmo davvero felici perché avremmo avuto la possibilità di sfogarci e di sentir confermare da altri quanta tristezza c’è nella vita.

E’ facile sentirsi misantropi perché non si ha voglia di andare alle feste, ma in realtà è forse vero il contrario. Odiamo quasi sempre le feste perché desideriamo in modo eccezionalmente acuto dei legami profondi che semplicemente non riusciamo a trovare nelle classiche occasioni sociali. Vogliamo restare soli non perché non ci piaccia effettivamente stare in compagnia, ma perché ci piace quella vera, mentre quello a portata di mano è un simulacro di compagnia e ci ricorda con troppa forza una solitudine che ci spezza il cuore.

Alle feste, solitamente, ce ne stiamo in piedi, circondati da quaranta persone, sentendoci più soli che se ci trovassimo sulla superficie di Mercurio, perché i quaranta ospiti, che avrebbero potuto darsi l’un l’altro così tanto, sono collettivamente intrappolati nell’ideologia della finta euforia. In un futuro migliore, impareremo a organizzare delle “feste malinconiche”, occasioni sociali dal nome paradossale: niente più felicità ostentata, solo individui particolarmente vulnerabili e sinceri, seduti a confessare quanto sia difficile per loro essere umani. Ecco qualcosa che sarebbe davvero il caso di celebrare”.



lunedì 15 maggio 2023

SUV

 


Un tempo - almeno fino agli anni 50/60 del secolo scorso – le persone avevano desideri diversi  perché diversi erano i contesti in cui nascevano. Un contadino della Calabria aveva poche cose in comune con un impiegato di banca della Lombardia, tant’è che le loro intime aspirazioni e ambizioni non potevano che divergere. Ora la globalizzazione, la pubblicità sempre più martellante nonché l’uso massiccio degli strumenti tecnologici e dei suoi derivati, hanno determinato un’omologazione culturale che fa emergere gli stessi desideri. Tutto tende ad essere standardizzato ad un modello considerato normale, dove per normale si intende il comportamento adottato dalla massa. Uguali nelle dinamiche sociali per sentirsi parte del gruppo che domina e fa tendenza.

Per esempio, oggi la gran parte delle persone condivide il desiderio di avere un Suv, che è una sorta di carro armato a quattro ruote, costoso, ingombrante e inquinante, con un consumo molto elevato. Per muoversi in una città congestionata dal traffico come Roma, non dico che bisognerebbe ritornare alle carrozzelle trainate dai cavalli (le famose botticelle), ma servirebbero macchine di normali dimensioni, che consumano poco, facili da parcheggiare perché gli spazi sono ridotti. Eppure, da un po' di tempo a questa parte, io vedo in giro soltanto Suv – come se la Capitale d’Italia si trovasse sulla Cordigliera delle Ande - che procedono a passo d’uomo, con una sola persona a bordo, e non sai mai se sta seduta o in piedi nel suo abitacolo. Una visione surreale e inquietante. Che poi sono indistinguibili l’uno dall’altro, questi pachidermi della strada, neanche fossero stati fatti con lo stampo. Avanzano minacciosi nel traffico cittadino, e quando ti trovi alla guida della tua macchinetta tradizionale e ti appare nello specchietto retrovisore - all’improvviso - quella enorme sagoma ad assetto rialzato, ti senti quasi intimorito: levati di mezzo che devo passare, sembra volerti dire dall’alto in basso.

Ma è davvero necessario avere – nella condizione in cui viviamo - una macchina così voluminosa, visto che viene usata quasi esclusivamente nei normali spostamenti in ambito cittadino? Ho i miei dubbi! Credo, pertanto, che oggi la gente desidera un Suv perché è un’auto di moda. E’ uno status simbol. Come possedere l’ultimo modello di smartphone; come indossare un abbigliamento griffato; come avere il cane; come rasarsi i capelli a zero o farsi tatuare il corpo. E’ un reato seguire la moda? No! Ognuno è libero di fare come meglio crede. Però, lasciatemi dire una cosa: la moda – qualsiasi moda - definisce degli schemi ben precisi di universalità e conformismo all’interno dei quali si perde la propria individualità a favore di un generale appiattimento dei gusti. E si finisce per essere tutti uguali. E l’unico soggetto veramente anticonformista – senza aver fatto nulla per esserlo – diventa colui che va ancora in giro con la sua macchinetta d’altri tempi (si fa per dire). Ormai le case automobilistiche hanno smesso di produrre quelle berline, belle ed eleganti, che si riconoscevano da lontano, così diverse tra di loro. Quelle belle macchine che rendevano diversi i nostri desideri. Diversi i nostri gusti.


martedì 9 maggio 2023

Franco Arminio: tornate al paese

 


Franco Arminio è un gentile e colto signore dell’Irpinia il quale somiglia, sotto certi aspetti, ad un monaco laico: da molti anni a questa parte va predicando la poesia - in lungo e in largo per l’Italia - quale balsamo per l’anima oltre che forma di conoscenza e di bellezza. “Sogno un mondo – lui scrive – in cui si leggono poesie ai matrimoni, ai compleanni, ai funerali. Una poesia per aprire il collegio dei docenti e il consiglio dei ministri, una poesia prima del pranzo e della cena, nelle cerimonie di Stato, alla tv in prima serata, poesia al mercato, in camera da letto, in pizzeria…”. 

Si definisce “paesologo” e nei suoi versi, così come nei suoi scritti brevi, si coglie sempre il suo sguardo attento alla natura, alle cose semplici della vita e ai piccoli paesi da cui bisogna ricominciare se vogliamo salvarci come esseri umani. “Tornate al vostro paese, non c’è luogo più vasto. Tornate presto, non pensate se è conveniente per la vostra vita. Cominciate la grande migrazione al contrario. Avete una casa vuota che vi aspetta, la casa che vostro nonno ha costruito con i soldi dell’emigrazione: voi qui potete accendere la vita, altrove al massimo potete tirare avanti la vita. Tornate, non dovete fare altro. Qui se ne sono andati tutti, specialmente chi è rimasto”.


lunedì 1 maggio 2023

Scontenti

 


“Ci fu l’epoca dei rivoluzionari, ci fu il tempo dei ribelli, questa è l’era degli scontenti”. Lo scrive Marcello Veneziani nel suo libro “Scontenti” con sottotitolo “perché non ci piace il mondo in cui viviamo”, pubblicato da Marsilio. Oggi, pur vivendo meglio e pur avendo un’aspettativa di vita superiore a quella dei nostri antenati, siamo perennemente scontenti – dice l’autore del libro - non viviamo felici. E chi ci governa - vale a dire il potere economico e il potere tecnologico che hanno ormai surclassato quello politico – non fa che aggravare questa nostra condizione, perché ci vuole sempre più insoddisfatti per renderci sempre più dipendenti e alienati. Il cittadino ideale, quindi, non è più colui che si dimostra appagato della sua vita, ma chi è alla ricerca continua di novità. Siamo diventati dei “sudditi sedotti e sedati”, allineati e omologati e intercettati dagli strumenti tecnologici in nostro possesso, che ci dicono cosa dobbiamo desiderare e cosa dobbiamo comprare. Siamo “schiavi in piena libertà”.

L’autore compie un viaggio nei meandri della scontentezza di massa, ne esplora i contesti in cui si esprime e ne individua forme e livelli diversi: si è scontenti di ciò che si è, del proprio corpo, della propria età, del proprio status; si è scontenti di ciò che si ha; si è scontenti di ciò che si rappresenta per gli altri; si è scontenti di ciò che si fa e di chi ci sta intorno; si è scontenti del luogo in cui si vive e si lavora. Insomma, c’è sempre qualcosa nel nostro tempo che fa della scontentezza il tratto comune del vivere. Scrive Veneziani che il potere per lungo tempo si è retto sulla rassegnazione, sull’accontentarsi dei cittadini. Oggi, invece, punta tutto sullo scontento, che incanala e usa a suo vantaggio. Abbiamo tutto ma siamo scontenti di tutto. Scontenti “da quando non troviamo più la via d’uscita spirituale che ci affranca dal giogo della vita e dà una meta e un senso compiuto al nostro cammino”.

E tu? Io,  caratterialmente, non sono incline allo scontento, tuttavia devo dire che non mi ritrovo più nel tempo in cui vivo, nelle sue dinamiche sociali e nei rapporti che ne scaturiscono. Avverto - in certe occasioni e in certi contesti – disagio e spaesamento che radicano – giorno dopo giorno - il mio scontento esistenziale. La decadenza inarrestabile di certi antichi valori, quali l’onestà, l’educazione civica, il rispetto della cosa pubblica, la solidarietà; il conformismo imperante nei comportamenti, nei modi di pensare, nell’informazione che tende ad inglobare le differenze, che pure esistono; e poi la spietata invadenza della tecnica e della modernità che parlano un linguaggio che mi appare sempre più distante, dove le cose sembrano avere un ordine di importanza rivoltato; e il degrado civile e urbano della città in cui vivo abitualmente…tutto ciò contribuisce ad intristirmi. Per alleviare questo malumore, Marcello Veneziani nel suo libro suggerisce di mutare atteggiamento nei confronti delle persone e delle cose, cambiare lo sguardo, vedere la vita e il mondo con occhi diversi, cercare di capire ciò che sfugge, accettare le cose che sono sgradite e non si possono facilmente cambiare. Insomma, “soppesare lo scontento e relativizzarlo alla luce di una visuale più ampia, in un contesto più grande. Così lo scontento perde la sua carica, si fa docile, caduco e accidentale; svanisce ogni superbia di fronte al Tutto, di noi evanescenti esserini in transito terrestre…”. Sarà…ma la vedo dura!