sabato 25 ottobre 2014

Gli inetti al potere



Quando mi capita di vedere in televisione certi ministri e certi parlamentari ( a dir la verità cerco sempre di evitarli, per non rattristarmi), i quali dall’alto dei loro prestigiosi e strapagati incarichi istituzionali sciorinano in ogni occasione - con saccenteria e senza alcuna vergogna - le solite ovvietà spacciandole per grandi competenze, non posso non pensare a quello che diceva un poeta cinese, un certo Su Shih della dinastia Song, vissuto intorno all’anno 1100: “ogni famiglia, quando nasce un bimbo, lo vuole intelligente. Io con la mia intelligenza ho sofferto e mi sono rovinato tutta la mia vita. Spero solo che il mio bimbo sia stupido e ignorante: coronerà così una vita placida diventando ministro”.
Evidentemente, tale assunto avrà ispirato anche i genitori di alcuni degli attuali politici e amministratori pubblici, visto che quest’ultimi- da bambini stupidi e ignoranti quali erano - hanno potuto coronare la loro vita diventando ministri senza soffrire, così come si augurava per il figlio quel poeta cinese della dinastia Song. Stupidi si, ma ricchi e felici, considerato che lo stipendio medio lordo di un parlamentare sfiora i 20.000 euro. E già, perché la stupidità, la cialtroneria, la scarsa intelligenza, oltre a costituire “titoli di merito” per scalare le vette più alte della politica, pare che preservino pure dalle sofferenze e dagli affanni della vita. Ma non era solo il poeta cinese a pensarla così. C’è un famoso passo della Bibbia (nel libro di Qoelet) che recita: “grande sapienza è grande tormento; più intelligenza avrai, più soffrirai”. Vi risulta che i nostri politici, da come ci governano, siano intelligenti? O che abbiano grande sapienza? O che soffrano? La stupidità, l’incompetenza, l’ottusità dei loro cervelli sono una sorta di vaccino che li rende immuni da qualsiasi difficoltà dell’esistenza, da qualsivoglia angoscia esistenziale. Osservateli questi governanti nelle varie trasmissioni televisive: sono sempre sereni e felici; sorridono sempre, soprattutto le ministre. Essi restano imperturbabili anche di fronte ad una sciagura, anche quando un’alluvione distrugge un intero paese, anche quando le famiglie si ritrovano senza lavoro: loro non sono mai responsabili di quanto accade. E se c’è una responsabilità, ebbene questa appartiene sempre a qualcun altro.

Il politico, anche dinanzi a domande sgradevoli che lo inchiodano alle proprie responsabilità (a dire il vero di siffatte domande, da parte di un giornalismo sempre più asservito al potere, ne riceve davvero poche), non si scompone minimamente e sorridendo, ci illumina dicendo che “il paese ha bisogno di riforme, che non possono più essere rinviate”; ci spiega che “senza crescita economica le diseguaglianze sociali aumenteranno”; ci chiarisce che “ è disponibile al confronto con l’opposizione e le parti sociali”; ci fa capire che “ affermare che i politici dovrebbero prendere quanto gli altri lavoratori è solo demagogia”. E si potrebbe continuare all’infinito con queste frasi fatte e con tutte le altre banalità che vanno bene per ogni situazione.
Sconfiggere verbalmente il politico è un’impresa davvero impossibile. Odiarlo non serve a nulla. Dileggiarlo col sarcasmo e l’ironia non scalfisce le sue “certezze”, le sue ardite autoassoluzioni. Lui rimane impassibile, freddo, distaccato: ha sviluppato – dopo tantissime legislature e infinite battaglie verbali - una scorza talmente dura che difficilmente si piega. Tutto gli scivola addosso. La sua forza vincente sta nel fatto di non vedersi come noi lo vediamo, cioè incapace, né di dubitare mai di se stesso. Colpito dalle nostre invettive o dagli strali (finti) del giornalista di turno, resterà sempre in bilico, senza mai cedere, roteando all’infinito su se stesso e mostrando un ghigno folle e insulso, che lo libera da qualsiasi incertezza, da qualunque scrupolo di coscienza. E noi cittadini soffriamo in preda alla più cupa frustrazione.

Ricordate il principio di Peter, noto anche come principio di incompetenza?. E’ una tesi che sarebbe paradossale se non fosse vera e che riguarda le dinamiche di carriera all’interno di un’organizzazione gerarchica, formulata da uno psicologo canadese, tale Laurence Peter. Secondo me questo principio viene applicato anche in politica, altrimenti non si capisce perché ci siano tanti incompetenti. Peter afferma che “ in qualsiasi gerarchia, ognuno tende a salire di grado, finché non raggiunge il suo livello di massima incompetenza; pertanto ogni incarico elevato è destinato a finire nelle mani di un incapace”. In altre parole, se un cittadino svolge molto bene la sua attività lavorativa – facendo l’impiegato o l’avvocato o il medico, ecc. – passo dopo passo questo lavoratore farà la sua bella carriera all’interno dell’organizzazione in cui presta la sua opera. Scalando questa piramide, otterrà incarichi con un grado di difficoltà sempre superiore alle sue effettive competenze e capacità (per esempio verrà promosso Ministro della Repubblica). A questo punto la sua carriera avrà raggiunto l’apice e, pur essendo totalmente incompetente, non verrà mandato via ma conserverà quella poltrona per la quale si è dimostrato inadatto. E se proprio dovrà essere rimosso, allora gli verrà dato un incarico superiore. Così funziona la politica in Italia.

lunedì 20 ottobre 2014

Un omaggio agli innamorati dei libri



Non conoscevo lo scrittore ceco Bohumil Hrabal, morto a Praga nel 1997: sono rimasto attratto inizialmente dal bel titolo del suo libro “Una solitudine troppo rumorosa”. Succede quando mi capita tra le mani un testo di cui non so nulla: il titolo è il primo elemento che mi colpisce e mi spinge a  sfogliarlo; oppure a scartarlo.

Il libro è un monologo triste e crudele, tenero e amaro nello stesso tempo, poetico, con venature di piacevole ironia.

E’ la mia love story, così la chiama Hanta, il protagonista del romanzo, un uomo solitario che da 35 anni lavora in uno scantinato di un vecchio palazzo di Praga pressando carta vecchia e libri mandati al macero e bevendo ettolitri di birra, forse per dimenticare la sua condizione di solitudine. “..in questi trentacinque anni ho bevuto tanta birra che formerebbe una piscina da cinquanta metri…”.

Un libro, sotto certi aspetti, autobiografico, duro e appassionato: lo scrittore ceco, infatti, per un breve periodo della sua vita aveva lavorato ad una pressa meccanica ed anch’egli, come il personaggio del suo romanzo, era un grande bevitore di birra.

Hanta si nutre di libri, come i topi che affollano lo scantinato in cui lavora “tutti i topi hanno in comune con me il fatto che si nutrono di caratteri, ciò che trovano più saporito sono Goethe e Schiller rilegati in marocchino” e prima di distruggerli - trasformandoli in parallelepipedi pressati che lui ama avvolgere e ricoprire con riproduzioni di celebri dipinti, quasi a volerli ingentilire e dare loro un tocco artistico - quei libri li legge, li sfoglia, li accarezza, beve i pensieri in essi contenuti. “...Contro la mia volontà sono istruito e neppure so quali pensieri sono miei e provengono da me e quali li ho letti, e così in questi 35 anni mi sono connesso con me stesso e con il mondo intorno a me, perché io quando leggo in realtà non leggo, io infilo una bella frase nel beccuccio e la succhio come una caramella, come se sorseggiassi a lungo un bicchierino di liquore, finché quel pensiero in me si scioglie come alcool, si infiltra dentro di me così a lungo che mi sta non soltanto nel cuore e nel cervello, ma mi cola per le vene “ .

I libri più importanti, quelli che meritano di essere salvati perché contengono idee e pensieri eterni, Hanta li salva dalla distruzione ed ogni sera, quando ritorna a casa, riempie la sua borsa di quel prezioso carico. E’ una sorta di premio che si concede quotidianamente. La sua casa è stracolma di libri, accatastati ovunque c’è spazio libero, incombono in ogni anfratto vitale: in cantina, in soffitta, in cucina, nel bagno, nelle camere. Una enorme biblioteca, con testi che arrivano fino al soffitto: “due tonnellate di libri ho portato a casa in questi trentacinque anni”. Ama i volumi che rappresentano il sapere, la conoscenza e in essi si immedesima, così come ama il suo lavoro e la sua vecchia pressa meccanica. E’ soddisfatto e, anche se puzza di birra e di sporcizia, è felice perché in borsa porta a casa sempre quei libri salvati dai quali si aspetta che a sera da loro apprenderà qualche cosa che ancora non sa. Predilige i libri di filosofia, quindi Erasmo da Rotterdam, Kant, Schiller, Nietzsche. Il nostro personaggio vive in una sorta di solitudine popolata di pensieri, quasi a voler immedesimarsi nell’eternità che solo le grandi opere dell’ingegno umano sanno dare, si astrae dalla realtà, ha un continuo dialogo con i grandi, che hanno saputo lasciare una traccia importante del loro passaggio attraverso quei libri che lui ha cura di salvare dal macero, dalla insensibilità e dalla negligenza degli uomini. Un omaggio ai libri e alla lettura.

Ma i tempi cambiano e il protagonista, dopo trentacinque anni di lavoro, deve fare i conti con la nuova realtà produttiva efficiente e inumana. Il suo lavoro amorevole e artigianale è destinato a trasformarsi, a modificarsi. Era abituato a lavorare alla vecchia maniera, con le mani e senza guanti, a puzzare, a bere birra e a salvare i suoi libri che tanta gioia gli avevano donato in tanti anni di lavoro e non riusciva a comprendere ed accettare i nuovi macchinari, le nuove logiche produttive. Credeva che quella vecchia pressa meccanica andasse in pensione con lui, che non lo abbandonasse mai. Pertanto, all’arrivo di due nuovi giovani operai, vestiti elegantemente con guanti e berretti americani arancioni e in tuta azzurra - espressione del nuovo potere dominante e industriale, indifferente alla cultura e ai libri, ma attento invece ai ritmi produttivi - il protagonista si culla nella vana speranza che la sua vecchia pressa testimone di tante ore passate insieme “avrebbe scioperato, si sarebbe data malata”. Ma così non è…
 

letto nel gennaio 2010

domenica 12 ottobre 2014

Applausi al morto



Viviamo in una società dove i mezzi di informazione – in primis la pubblicità - celebrano, incessantemente, il trionfo del corpo sano e giovane, rigettando qualsiasi immagine e qualsivoglia riferimento legati alla fine naturale di quel corpo; rifiutano ogni aspetto che possa far pensare alla morte. Anche gli anziani vengono presentati in atteggiamenti giovanili – magari con una bella e forte dentiera che frantuma con un solo morso una mela o con un apparecchio acustico per sopperire alla perdita dell’udito -  però sempre scattanti e propositivi, come se davanti a loro avessero ancora un’intera vita da consumare. La televisione, poi, si rivolge di continuo a un telespettatore che è essenzialmente un consumatore - qualunque età egli abbia – e gli parla di vita e mai di morte. Come se il trapasso non esistesse e non facesse parte della vita.
Eppure – nonostante blandisca persone sempre più passive, disposte a farsi adescare senza reagire - la TV ci ha ormai abituati a guardare anche la morte. Anzi lo spettacolo della morte.

Io credo che nessuno, prima dell’avvento della televisione, abbia mai assistito a tanti omicidi e a tanti funerali - tra film e orrori legati alla cronaca nera di tutti i giorni – quanti ne sono riservati a un normale cittadino della nostra epoca. Da un lato c’è il tentativo di fuggire dalla morte, di nasconderla agli occhi dei telespettatori, di evitarla in tutti i modi, mentre dall’altro irrompe ineluttabilmente sullo schermo televisivo come un vero spettacolo. La morte viene mostrata nelle sue varie ed innumerevoli  rappresentazioni; domina la fiction, naturalmente, ma l’informazione di sciagure, di massacri familiari, di efferati omicidi in questi ultimi tempi non sono da meno ed occupano sempre più spesso le prime pagine dei giornali e degli spettacoli televisivi di intrattenimento. E’ quasi sempre una morte drammatica, per uccisione o per incidente, condita con dovizia di particolari davvero raccapriccianti. Tanto per fare un esempio: se un aereo precipita in mare causando la morte di tutti i passeggeri, non ci sarebbe la necessità di indugiare su macabri particolari, perché ognuno di noi è in grado di immaginare la tragica sorte toccata a quelle persone. Tuttavia, pur di rendere lo spettacolo più forte e morboso, la telecamera si sofferma sui resti umani che galleggiano sull’acqua e quelle immagini vengono date in pasto ad un pubblico sempre più vorace ed esigente.
Tragedie che generano angoscia ma nello stesso tempo ci tranquillizzano perché non ci toccano direttamente, le osserviamo sgomenti ma ne usciamo liberati perché sono morti che appartengono ad altri.

Ma la cosa più aberrante si verifica dopo, a disgrazia avvenuta, quando tutti i mezzi di informazione ne hanno diffusamente parlato: succede che orde di curiosi – spinti dalle immagini televisive e dagli innumerevoli spettacoli pomeridiani dedicati all’evento - si rechino come in una gita domenicale sui luoghi del disastro, o dell’incidente, o dell’efferato delitto passionale a caccia di morbose curiosità, immortalando l’avvenimento con fotografie e filmini da mostrare ai loro amici e familiari che non hanno avuto questa possibilità. E se è presente anche la telecamera, allora qualche attimo di notorietà è assicurato. Potranno salutare con la manina e testimoniare la loro effettiva presenza sul luogo dello spettacolo.
Io di fronte a queste oscene esibizioni mi domando sempre: ma è la televisione a creare interesse per questo genere di informazione, oppure tale comportamento è dettato da un normale bisogno dell’animo umano nell’immedesimarsi in tragedie che si ripetono, purtroppo, da sempre? Sono i giornalisti con i loro servizi e con le loro telecamere impietose che fanno di una disgrazia uno spettacolo televisivo, o sono piuttosto i telespettatori che cercano emozioni sempre più forti? E come qualsiasi spettacolo che si rispetti – in presenza di una telecamera - non possono mancare gli applausi: e sono quelli che vengono tributati immancabilmente alla bara che esce dalla chiesa. Ma che significato hanno gli applausi durante un funerale? L’applauso dovrebbe sottolineare un momento di gioia non di dolore, è rivolto ai vivi non ai morti. Ma è possibile che per esprimere partecipazione e dispiacere si debba applaudire come allo stadio o al teatro? Non sarebbe un comportamento più rispettoso restare in silenzio?

Mi vengono in mente le parole scritte da Antonio Scurati nel suo romanzo “Il sopravvissuto”: “Terminata la messa funebre, un applauso fragoroso e assurdo accolse le sette bare all’uscita della chiesa. In verità non c’era nulla di così sorprendente in quel battimano rivolto a dei cadaveri. Educata da milioni di ore trascorse davanti alla televisione, quella gente reagiva di fronte a ogni evento dell’esistenza, fosse anche gravemente luttuoso, con l’unico comportamento richiesto al pubblico televisivo: l’applauso”.

sabato 4 ottobre 2014

Rendere bello l'ospedale serve al bene



“…Un ospedale, oltre all’efficienza delle strutture, deve proprio contemplare una dimensione affettiva che compensi il malato di ciò che ha perduto, non solo la salute, quindi, ma i famigliari, gli affetti, che sono essenziali. E’ la cosa più importante: la dimensione umana, riflesso di quella umanistica. (…) Ma non basta che una cosa funzioni: occorre anche che una cosa sia bella, che corrisponda a un’esigenza interiore, e questa esigenza non è appunto quella della mera funzionalità. Il funzionalismo e il razionalismo hanno molto spesso ridotto l’uomo a una macchina che alla fine del lavoro deve essere parcheggiata come un’automobile in un deposito per essere umani. Questo ha distrutto il senso stesso dell’architettura. (…)
La sanità è una condizione normale, che non avverti. La malattia non la puoi scegliere: ti accade, è una violenza che tu subisci senza poter far nulla. Non puoi dire: scelgo tra l’essere sano e l’essere malato. La sanità ti accade e non la senti, la malattia ti accade e la senti. (…)

L’ospedale, come la prigione, è un luogo che cristianamente mira alla riparazione, alla possibilità (ma questo non capita quasi mai in prigione…) che uno ne esca migliorato. Non un luogo della scelta, ma della necessità. Quindi, la bellezza è un sostegno che consente di renderti più disponibile a guarire, a non lasciarti prendere dalla malattia, a non abbandonare la resistenza, a non lasciarti morire. L’ambiente, illuminato dalla bellezza, ti mette in buona disposizione rispetto alla guarigione. Ecco perché abbiamo detto, citando autori del passato, che un ospedale deve essere bello come una reggia, tale che anche un re sano possa andarci e starvi bene come fosse in vacanza. Se in una stanza di ospedale c’è un quadro o una piccola biblioteca, venti o trenta libri, il malato vede ricrearsi intorno a sé un ambiente che ha a che fare con la normalità, con la quotidianità, con il benessere. Rendere bello l’ospedale serve, cioè, al bene. E’ quello che hanno fatto le strutture ospedaliere del Quattrocento in poi. Perché il tema dell’assistenza è un tema sociale, civile. E’ la risposta della società al bisogno individuale urgente, improvviso, come è la malattia. La risposta della solidarietà umanistica. Se l’ospedale è un luogo di costrizione, quella costrizione deve essere allora temperata dalla bellezza. Diceva Palladio, delle sue architetture, che dovevano essere tanto comode quanto belle. “Perfettamente commode e onestamente belle”. E un ospedale, perciò, dev’ essere tanto comodo quanto bello, per le ragioni che ho appena esposto. Ricordiamo però che non si tratta di una bellezza messianicamente intesa, la bellezza estrema di una visione consolatoria, come in Morte a Venezia di Thomas Mann, quando il protagonista sta morendo e vede in lontananza il giovane Tadzio che gli piaceva…La bellezza negli ospedali è una bellezza funzionale alla sanità, al bene, alla guarigione. Uno strumento per un fine. Contro la fine”

(tratto da “Il bene e il bello” di Vittorio Sgarbi)

mercoledì 1 ottobre 2014

Fuga dal mondo






Ho letto il libro di Vittorino Andreoli “Fuga dal mondo”; questa lettura mi ha confermato che l'autore, oltre ad essere un grande psichiatra è anche un ottimo scrittore, il quale  probabilmente porta anche nei suoi libri e, quindi, nella finzione letteraria, la sua esperienza di lavoro, a contatto con la sofferenza e con il mondo della follia.
Io credo che le tematiche esistenziali trattate da Andreoli in questo libro siano anche le sue ossessioni e, attraverso questo suo originale romanzo, rappresenta la “sua” interpretazione della condizione umana intessuta di solitudine….paura….follia…malattia. Le percezioni che  ne ricaviamo, leggendolo, a volte non sono piacevoli, ci fanno male, in qualche maniera ci feriscono. Sono comunque dentro di noi e l’evocazione che ne fa lo scrittore attraverso il suo racconto turba la nostra coscienza, rattrista il nostro animo.
E’ pur vero che non possiamo considerare un buon libro solo quello che riesce a farci ridere, che ci mette di buon umore, che parla della bellezza e delle cose piacevoli della vita…esistono purtroppo anche altri aspetti della nostra esistenza che fanno riferimento alla tristezza, alla solitudine dell’uomo, alle sue ossessioni, alle sue paure. E’ come se dicessimo che sono belli solo i quadri che rappresentano un bel paesaggio, un bel ritratto e non quelli, invece, che ricordano la vecchiaia, la paura, la solitudine.
Intanto credo che il libro, in qualche maniera, può anche, “disturbare”,  creare disagio, prima di tutto perché in esso non c’è “amore” nella sua accezione nobile del termine. Non contiene quell’ottimismo che rende più leggera la vita e più sopportabile il dolore.
Può disturbare per esempio la nostra sensibilità quel continuo richiamo alla morte e ai cimiteri e poi… quella casa a forma di “Cubo” che il protagonista si fa costruire sull’orlo di un precipizio, simbolo delle distanze che vuole mantenere con il mondo intero, simbolo di solitudine e di incomunicabilità. Può disturbare quella sofferenza che aleggia sul libro, condizione insanabile e immodificabile e quella lunga disquisizione finale sulla vita e sulla morte.
 
letto nel dicembre 2009