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venerdì 10 novembre 2023

Non si resta e non si parte mai del tutto

 


Ho letto molti libri di Vito Teti, un antropologo calabrese che si occupa di letteratura dei luoghi, argomento di cui sono estremamente appassionato. E’ diventato il mio punto di riferimento e sebbene i suoi testi raccontino, in modo particolare, i paesi della Calabria, trovo che gli stessi siano un valido punto di osservazione e di aiuto per conoscere e capire fenomeni di portata universale.

In questo suo ultimo saggio che si intitola “La restanza” (Einaudi), Teti ritorna su quelle tematiche a lui care come la ricerca d’identità attraverso il luogo nativo, l’emigrazione, l’antropologia dei paesi. Egli dice che noi siamo il luogo in cui siamo nati e cresciuti e siamo il luogo che abitiamo e da cui a volte fuggiamo, per necessità. E siamo il luogo che percorriamo e raccontiamo. Restare o partire non è mai una decisione che si prende a cuor leggero, senza incertezze e lacerazioni, perché un luogo è un insieme di relazioni umane, di affetti, di legami talvolta incerti e mutevoli, seppure fondamentali. Il luogo, oltre ad occupare una posizione geografica, è innanzitutto una costruzione culturale e antropologica di immagini, di vita e di racconti che abbiamo ereditato, è condivisione e partecipazione con chi ci vive e con chi ci torna saltuariamente, ma anche con chi lo ha abbandonato per sempre, a causa di migrazioni e di eventi naturali funesti come terremoti, frane, alluvioni.

Ognuno vive e resta in un luogo - paese o città che sia – eppure “restare in paese”, oggi, è percepito come un modo antiquato di stare al mondo, seppure complementare a quella visione neoromantica che celebra, invece, la retorica di un mondo salvifico da cercare proprio nel paese. Ci vorrebbe una più accorta antropologia dei luoghi, sostiene Vito Teti nel suo libro, capace di immaginare e decidere un diverso modello di sviluppo, “un nuovo patto sociale e valoriale tra quelli che restano e quelli che partono, tra quelli che tornano e quelli che arrivano”.

Bisogna capire – ribadisce Teti – che i piccoli borghi non migliorano e non si rilanciano con gli slogan, non si rivitalizzano con espedienti pubblicitari come l’arrivo di qualche personaggio famoso, o con proposte occasionali come la ristrutturazione di qualche casa con piscina, ma creando condizioni essenziali per consentire a chi vuole restare di rimanere nel suo paese, per favorire il ritorno a chi è andato via e per ospitare chi ha maturato la scelta di vivere in un paese, lontano dai rumori e dallo smog. Far vivere un paese significa ricostruire dei veri legami comunitari, ma questo non si ottiene attraverso la vendita “a un euro” delle case abbandonate dai proprietari. Per Vito Teti è una scelta devastante, questa, perché restituisce l’idea che quella casa non ha nessun valore, e significa quindi svalutare il prezzo delle case dei residenti che hanno continuato a vivere nel paese. Insomma, è come svendere la memoria di una comunità.

Come tutti i libri di Vito Teti, anche questo ripercorre, con una scrittura intima e poetica, alcuni suoi momenti autobiografici costringendo il lettore ad interrogarsi sul proprio modo di vivere il tempo e di abitare uno spazio, che sia un paese o una città. Così scrive: “Vivo nella casa in cui sono nato…e dove sono sempre tornato. Da fuori arrivavano le voci dei bambini che giocavano e i passi, i rumori, delle donne, degli uomini, degli asini, delle caprette che tornavano dalla campagna. Oggi arriva il silenzio senza colore. Il balcone si affaccia sulla ruga, dentro il paese, sul pieno di un tempo e sul vuoto di oggi. Anche se tutto è cambiato, tutto è riconoscibile ed in questa persistenza si consumano il paradosso e lo stigma del disfacimento. (…) Nel mondo da cui provengo e a cui sono rimasto fedele, magari a costo di qualche tradimento, ho imparato il valore della fatica, della solidarietà, delle piccole cose che più tardi ho scoperto, sui libri, essere il valore della polis, della comunità. Sono uno dei restanti più tenaci e resistenti tra quelli a me noti, anomalo, perché sono inquieto, amo viaggiare e cambiare spesso luoghi e contesti. Sono cresciuto a cavallo di tre generazioni e, contemporaneamente, nel crinale di due età, di due epoche, di due civiltà. In poco più di un trentennio ho vissuto diecimila anni, dalla nascita delle società agropastorali al loro inesorabile sparire. Incerto, irrequieto, sospeso, un tempo immaginavo che sarei vissuto in un mondo nuovo, nella modernità; nella frenesia di un tempo dinamico. Lo studio appassionato, il vortice delle letture e i viaggi mi hanno insegnato che il mondo antico dei padri non veniva davvero sostituito dal mondo nuovo dei figli, anche se tutto quel che resta del passato, dei ricordi, della vita è sempre più essenziale per orientarmi in questo universo fragile, insicuro, attraversato da un’idea di futuro sempre meno definita con l’aumentare delle mie consapevolezze”.



8 commenti:

  1. La mia non entusiasta "restanza" a Roma, la conosci, e non ho un paese dove celebrare origini, e forse per questo adoro viaggiare - unica consolazione -, visitare ed innamorarmi di infiniti paesini snobbati dai circuiti, infatuarmi di isolette minime, abbracciare anche megalopoli e città d'arte che contrastino comunque con la mia città di residenza, dove la restanza è obbligatoria, legata a infiniti impegni, affetti, doveri.. e mi adeguo ma, come possibile, mi avventuro nell'altrove, scoprendo solo meraviglia perché quella cerco e desidero.. e leggendo pensavo in parallelo a quei paesi dove si cerca di rianimare uno spirito scomparso, anche con encomiabili iniziative, tipo vendere ruderi al simbolico prezzo di 1 euro, cercando chi si impegni a ridonare vita e anima a luoghi abbandonati.. chissà che un giorno non realizzi un sogno mai sopito..

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    1. Se non sbaglio, tu un paese ce l'hai perchè spesso lo celebri come il tuo, ed è Scauri. Forse non ci sei nato, ma questo non è importante. L'importante è eleggerne uno come luogo dell'anima, dove ci ritroviamo e dove amiamo ritornare. Io amo ritornare nel mio, nel Cilento, vista anche la mia "non entusiasta "restanza" a Roma". Comunque devo dirti che fino a qualche anno fa il mio vicino di casa, nel paese, era un mio caro zio, che ora non c'è più. I suoi figli, alla sua morte, hanno venduto quella casetta in pietra - che confina proprio con la mia, non a 1 euro (per loro fortuna) ma secondo i prezzi di mercato (come dovrebbe essere, sempre) ad una strana famiglia venuta da fuori, poco incline all'ordine e alla pulizia, che non ha nessun legame con il territorio, il suo decoro, la sua storia. Anche da queste situazioni ti accorgi che il paese cambia e non è più quello di prima. E' come se perdesse la propria anima, e i colori e i profumi e i suoni di una volta, sintesi di un paesaggio percepito che genera nostalgia e uno sguardo diverso sul mondo che ti circonda. E allora finisci per sentirti un estraneo, in esilio, nel posto in cui sei nato e vivi, che poi è la condizione esistenziale del nostro tempo, mio caro Franco.
      Un saluto :)

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  2. Io sono siciliana e non mi sono mai mossa da Caltanissetta fino al 2013 (tolta la parentesi universitaria a Palermo), anno in cui siamo venuti a vivere a Roma, a causa di un trasferimento "forzoso" legato al lavoro di mio marito. Da allora mi sento come un "apolide": non mi sentirò mai romana (sebbene abbia ormai qui la cittadinanza) e non appartengo più alla comunità nissena da cui provengo. Nel sangue e nel cuore, però, so esattamente qual è e resterà sempre il mio "luogo"

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    1. Ti capisco. Neanch'io potrei mai sentirmi romano, nonostante io viva in questa città da 45 anni. Il mio luogo dell'anima è un altro, è il luogo della mia infanzia e della mia adolescenza, dove ho trascorso gli anni più belli e spensierati.

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  3. Ricordo gli altri tuoi post dedicati a Vito Teti e ne ho approfondito.Credo che in un certo senso lui non sbaglia affatto ,siamo tutti quel pezzo di terra delle nostre origini e anche per cause di forza maggiore chi non è rimasto sul luogo, lo conserva dentro di se ,fa parte della sua essenza .


    "Svendere la memoria di una comunità" ,come non essere d'accordo con Teti , perché è esattamente questo che accade . Se da una parte c'è abusivismo con costruzioni territorialmente inaccessibili ,dall'altra c'è una svendita di valori e fatiche talmente provocatorio da risultarne offensivo per chi in quei posti ancora ci vive.In fin dei conti per me alcuni luoghi di base non dovrebbero avere un metro di giudizio sul valore monetario ,cercando di mischiare il profano con il sacro.

    Buona giornata
    L.

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    1. Dici bene, mai "mischiare il profano con il sacro". Anche un rudere ha un suo fascino misterioso, una sua carica evocativa, un aspetto sacrale che va in qualche maniera protetto quale luogo della memoria. Non può essere svenduto a un euro. Un luogo risponde sempre al legame profondo che con esso vogliamo intrattenere. Un paese non si vende perchè non si possono cancellare i sentimenti, le storie, le gioie e i dolori che le sue case in pietra hanno accolto e conservato.
      Ciao L. e buona giornata a te. :)

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  4. Grazie per aver contribuito alla discussione con un pezzo così ben pensato.

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