“c’è ancora tempo, quando si deve morire, per imparare come si sarebbe dovuto vivere?”
Sono tanti i letterati,
soprattutto del passato, che nel corso della loro vita hanno cercato e trovato
risarcimento e conforto alla propria sofferenza nell’immaginazione, nell’ozio e
nella meditazione. Tra questi, un posto di rilievo lo occupa sicuramente
Jean-Jacques Rousseau, scrittore e filosofo svizzero, figura di spicco
dell’Illuminismo e precursore del Romanticismo, il quale, ferito da accuse,
condanne e interdizioni, ma anche perseguitato dai suoi fantasmi e dalle sue
ossessioni (pare che soffrisse di manie di persecuzione), ad un certo punto
della sua vita si autoesiliò dal consorzio umano, rifugiandosi nella solitudine,
nella scrittura e nel sereno abbraccio della natura.
“Le passeggiate del sognatore
solitario – Feltrinelli Editore” – la sua opera più perturbante, sperimentale e
innovativa di Rousseau, come scrive Beppe Sebaste nell’introdurre la sua
traduzione - è una sorta di testamento spirituale scritto negli ultimi anni
della sua esistenza, con cui l’autore ginevrino si abbandona al piacere della solitudine,
della confessione e della contemplazione immerso nella natura e nella vita
agreste, trasformando il suo disagio psichico, le sue insanabili tristezze, in pagine
di rara bellezza. Pagine dove vita e sogno spesso coincidono, dove il
vagabondare della mente si mescola al peregrinare del corpo, dove la prosa si
confonde con la poesia fino a raggiungere un’armonia stilistica incomparabile.
“Il sentimento dell’esistere –
scrive in una della sue passeggiate - spogliato di ogni altro affetto, è in
se stesso un sentimento prezioso di contentezza e di pace, che basterebbe, da
solo, a rendere l’esistenza amabile e dolce a chi sapesse allontanare da sé
tutte le impressioni mondane e sensuali che senza posa, quaggiù, vengono a
distrarci e guastarne la dolcezza…”. E questo sentimento lui lo ritrova
sull’isola di San Pietro in mezzo al lago di Bienne, in territorio svizzero,
dove trascorre un breve periodo libero da ostacoli e preoccupazioni,
dedicandosi alla sua occupazione preferita: l’ozio e il dolce far niente a
contatto con la natura. E’ il periodo più felice della sua vita “ e così felice – lui scrive - che
mi sarebbe bastato per tutta la mia esistenza senza che nell’anima mi nascesse,
anche per un solo momento, il desiderio di un’altra condizione…Desideravo che
quel rifugio mi venisse trasformato in una prigione perpetua, che mi si
confinasse lì per la vita togliendomi ogni possibilità e ogni speranza di
uscirne; che mi si vietasse infine ogni forma di comunicazione con la
terraferma, di modo che, restando all’oscuro di quanto si svolgeva nel mondo,
ne dimenticassi perfino l’esistenza, così come là sarebbe stata dimenticata la
mia”. (…)
“La felicità –
leggiamo ancora - è uno stato permanente che non sembra fatto quaggiù per
gli uomini. Tutto è sulla terra in un flusso continuo, che non permette a nulla
di assumere una forma costante. Tutto è mutevole intorno a noi. Noi stessi
cambiamo, e nessuno può assicurare di amare domani quello che ama oggi. Perciò
tutti i nostri progetti di felicità per questa vita sono chimere. Approfittiamo
della contentezza dello spirito quando essa è presente; badiamo a non
allontanarla per colpa nostra ma senza elaborare progetti per incatenarla,
perché simili piani sono pura follia. Ho visto pochi uomini felici, forse
nessuno; ma ho visto spesso cuori contenti, e di tutte le cose che mi hanno
colpito è ciò che mi ha reso a mia volta più contento. Credo sia una
conseguenza naturale del potere che le sensazioni hanno sui miei sentimenti. La
felicità non affigge insegne esteriori: per conoscerla bisognerebbe leggere il
cuore di un uomo felice. La contentezza invece si legge negli occhi, nei modi,
nell’accento, nell’andatura, e sembra comunicarsi a chi la osserva. C’è forse
un piacere più dolce del vedere tutto un popolo abbandonarsi alla gioia in un
giorno di festa, e la totalità dei cuori sbocciare sotto i raggi espansivi del
piacere che rapidamente, ma vividamente, passa attraverso le nubi della vita?
(…) C’è un compenso per ogni cosa. Se le mie gioie sono rare e brevi, ne godo
più vivamente quando mi giungono che se mi fossero abituali. Le rumino, per dir
così, con reminiscenze frequenti; e per quanto siano rare, fossero
incontaminate e pure sarei forse più felice che in tutta una vita di prosperosa
fortuna. Nell’estrema miseria ci si sente ricchi con poco; un mendicante che
trova uno scudo è più commosso di un ricco che trova una borsa piena d’oro…”