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giovedì 22 aprile 2021

Contentezza e felicità: le passeggiate di un sognatore solitario

 “c’è ancora tempo, quando si deve morire, per imparare come si sarebbe dovuto vivere?”



Sono tanti i letterati, soprattutto del passato, che nel corso della loro vita hanno cercato e trovato risarcimento e conforto alla propria sofferenza nell’immaginazione, nell’ozio e nella meditazione. Tra questi, un posto di rilievo lo occupa sicuramente Jean-Jacques Rousseau, scrittore e filosofo svizzero, figura di spicco dell’Illuminismo e precursore del Romanticismo, il quale, ferito da accuse, condanne e interdizioni, ma anche perseguitato dai suoi fantasmi e dalle sue ossessioni (pare che soffrisse di manie di persecuzione), ad un certo punto della sua vita si autoesiliò dal consorzio umano, rifugiandosi nella solitudine, nella scrittura e nel sereno abbraccio della natura.

“Le passeggiate del sognatore solitario – Feltrinelli Editore” – la sua opera più perturbante, sperimentale e innovativa di Rousseau, come scrive Beppe Sebaste nell’introdurre la sua traduzione - è una sorta di testamento spirituale scritto negli ultimi anni della sua esistenza, con cui l’autore ginevrino si abbandona al piacere della solitudine, della confessione e della contemplazione immerso nella natura e nella vita agreste, trasformando il suo disagio psichico, le sue insanabili tristezze, in pagine di rara bellezza. Pagine dove vita e sogno spesso coincidono, dove il vagabondare della mente si mescola al peregrinare del corpo, dove la prosa si confonde con la poesia fino a raggiungere un’armonia stilistica incomparabile.

“Il sentimento dell’esistere – scrive in una della sue passeggiate - spogliato di ogni altro affetto, è in se stesso un sentimento prezioso di contentezza e di pace, che basterebbe, da solo, a rendere l’esistenza amabile e dolce a chi sapesse allontanare da sé tutte le impressioni mondane e sensuali che senza posa, quaggiù, vengono a distrarci e guastarne la dolcezza…”. E questo sentimento lui lo ritrova sull’isola di San Pietro in mezzo al lago di Bienne, in territorio svizzero, dove trascorre un breve periodo libero da ostacoli e preoccupazioni, dedicandosi alla sua occupazione preferita: l’ozio e il dolce far niente a contatto con la natura. E’ il periodo più felice della sua vita  “ e così felice – lui scrive - che mi sarebbe bastato per tutta la mia esistenza senza che nell’anima mi nascesse, anche per un solo momento, il desiderio di un’altra condizione…Desideravo che quel rifugio mi venisse trasformato in una prigione perpetua, che mi si confinasse lì per la vita togliendomi ogni possibilità e ogni speranza di uscirne; che mi si vietasse infine ogni forma di comunicazione con la terraferma, di modo che, restando all’oscuro di quanto si svolgeva nel mondo, ne dimenticassi perfino l’esistenza, così come là sarebbe stata dimenticata la mia”. (…)

“La felicità – leggiamo ancora - è uno stato permanente che non sembra fatto quaggiù per gli uomini. Tutto è sulla terra in un flusso continuo, che non permette a nulla di assumere una forma costante. Tutto è mutevole intorno a noi. Noi stessi cambiamo, e nessuno può assicurare di amare domani quello che ama oggi. Perciò tutti i nostri progetti di felicità per questa vita sono chimere. Approfittiamo della contentezza dello spirito quando essa è presente; badiamo a non allontanarla per colpa nostra ma senza elaborare progetti per incatenarla, perché simili piani sono pura follia. Ho visto pochi uomini felici, forse nessuno; ma ho visto spesso cuori contenti, e di tutte le cose che mi hanno colpito è ciò che mi ha reso a mia volta più contento. Credo sia una conseguenza naturale del potere che le sensazioni hanno sui miei sentimenti. La felicità non affigge insegne esteriori: per conoscerla bisognerebbe leggere il cuore di un uomo felice. La contentezza invece si legge negli occhi, nei modi, nell’accento, nell’andatura, e sembra comunicarsi a chi la osserva. C’è forse un piacere più dolce del vedere tutto un popolo abbandonarsi alla gioia in un giorno di festa, e la totalità dei cuori sbocciare sotto i raggi espansivi del piacere che rapidamente, ma vividamente, passa attraverso le nubi della vita? (…) C’è un compenso per ogni cosa. Se le mie gioie sono rare e brevi, ne godo più vivamente quando mi giungono che se mi fossero abituali. Le rumino, per dir così, con reminiscenze frequenti; e per quanto siano rare, fossero incontaminate e pure sarei forse più felice che in tutta una vita di prosperosa fortuna. Nell’estrema miseria ci si sente ricchi con poco; un mendicante che trova uno scudo è più commosso di un ricco che trova una borsa piena d’oro…”


lunedì 12 aprile 2021

Il telefono cellulare? Uno strumento maleducato

 


Qualcuno ha detto che non avere uno smartphone, oggi, sia uno status simbol, così come lo era, qualche anno fa, quando solo poche persone potevano permettersi un telefono cellulare; qualcun altro, ancora più zuzzerellone, ha aggiunto che un soggetto così raro, praticamente in via di estinzione, andrebbe tutelato dal WWF come categoria protetta. Insomma, sembrerebbe che il sottoscritto - non essendo smartphonizzato come i circa 6 miliardi di esseri umani che hanno accesso alla telefonia mobile – sia una sorta di privilegiato. Sinceramente non aspiravo a tanto!

Ora io vorrei rivolgermi a chi si trovi a passare per caso da queste parti, naturalmente munito di cellulare di ordinanza. Immaginiamo di trovarci a chiacchierare gradevolmente su una terrazza a picco sul mare, davanti ad un gustoso piatto fumante di spaghetti alle vongole veraci. Il panorama è splendido, la giornata è meravigliosa, l’intesa relazionale è perfetta, la cucina è ottima. Improvvisamente irrompe tra di noi, come un temporale a ciel sereno rovinando quella piacevole atmosfera che si era creata, un disturbatore abituale, un molestatore tecnologico, l’oggetto più desiderato e – diciamocelo – più maleducato e invasivo che sia mai stato inventato: il tuo cellulare, in bella mostra sulla tavola imbandita. Ti sta annunciando, con fasci di luci colorate e una strana musichetta (stavo per scrivere uno squillo…ma io sono rimasto all’antico), che c’è un ospite per te che io non avevo invitato, con tanto di nome e provenienza e fotografia che appare sul display. Tu – caro amico/a - hai solo due possibilità, visto che la terza (spegnere il cellulare a tavola) non l’hai presa in considerazione: rispondere in mia presenza, oppure, se proprio non vuoi deliziarmi con la tua telefonata, allontanarti momentaneamente, lasciandomi solo al tavolo come un fesso. Una cosa rara, quest’ultima opzione, perché al cellulare si parla con chi sta lontano, ma con un occhio sempre rivolto a chi sta vicino, affinchè possa ascoltare. In entrambi i casi – spiace dirtelo - adotti comunque un comportamento scorretto: primo, perché interrompendo la nostra amabile conversazione dai preferenza a quell’altro (è come non rispettare la fila), e poi - la cosa più grave - lasci che il piatto di spaghetti alle vongole si raffreddi miseramente. E per fare cosa? Dare retta a uno scocciatore (come lo chiameresti, tu, uno che ti chiama senza nessun motivo all’ora di pranzo?), il quale anziché dire “pronto” (come si diceva una volta), ti domanda senza vergogna dove stai (lo vedi che ti tallonano e ti spiano?) e poi, dulcis in fundo, ti attacca un pippone sul perché la Roma ha perso il derby con la Lazio. Alla fine della lunga e noiosa telefonata (i miei spaghetti alle vongole me li sono gustati da solo…i tuoi li puoi ormai buttare), mi dici rattristato e deluso: “non se ne può più con questi cellulari…beato te che non ce l’hai”. Ora, perdonami, ma mi verrebbe da dire: a te l’ha prescritto per caso il medico, sto benedetto cellulare? E mi chiedo e ti chiedo: è maleducato lo strumento, oppure lo strumento ha reso maleducato chi lo possiede e lo utilizza?


lunedì 5 aprile 2021

La stanza del vescovo

 


Se i personaggi descritti da Italo Svevo nei suoi romanzi – di cui ho parlato nel mio post precedente – si sentivano inadatti a relazionarsi con gli altri, erano degli inetti e si lasciavano vivere in maniera abulica, quelli che popolano la narrativa di Piero Chiara - lo scrittore di Luino, in provincia di Varese, morto oltre trent’anni fa – hanno innato il gusto del vivere e la vita se la prendono a piene mani e se la godono. E’ uno scrittore forse un po' dimenticato, Piero Chiara, che racconta in tutte le sue opere la provincia lombarda affacciata sulle rive del lago Maggiore. “La stanza del vescovo”, il cui sottotitolo recita che è “un romanzo drammatico e dolce come il lago sul quale si intreccia”, ne è la testimonianza più significativa e gustosa.

Ci troviamo nei mesi immediatamente successivi alla fine del secondo conflitto mondiale. Il protagonista, voce narrante del libro e probabilmente alter ego dello scrittore, è un giovane sui trent’anni, libero e agiato, che se ne va a zonzo con la sua grossa barca a vela da un porto all’altro sul lago Maggiore e, ogni tanto, fa ritorno nel porto base – Luino - dove ha casa. Da quando è tornato dalla Svizzera, dove ha vissuto per due anni come internato, il nostro eroe sembra quasi voler recuperare con la “bella vita” il tempo perduto durante la guerra. Una sera, mentre ormeggia la sua imbarcazione nel porticciolo di Oggebbio, si imbatte in un signore di mezza età, “di una certa raffinatezza”, che attacca subito bottone e poi, senza pensarci più di tanto, lo invita nella sua villa immersa in un parco rigoglioso dove vive con la moglie, dispotica e molto più anziana di lui, la giovane e bella cognata, vedova, e tre fedeli servitori. Si chiama Temistocle Mario Orimbelli che aveva partecipato alla guerra d’Africa  e che “aveva imparato a prendere quello che la vita volta a volta gli offriva”. I due personaggi, che non hanno un lavoro ben definito, si piacciono all'istante, la loro intesa si consolida immediatamente, tant’è che scoprono di avere una somiglianza di fondo che li porta a vivere una nuova giovinezza “profittando dell’età ancora fresca e di un certo vigore del corpo”. Accaniti seduttori, sempre alla ricerca di qualche gonnella da conquistare, la barca diventa la loro alcova, il centro nevralgico della loro vita quotidiana, compagna inseparabile delle loro scorribande passionali sul “grande lago”.

Un racconto davvero godibile che Chiara dipinge - attraverso una scrittura velata di arguzia ed ironia - con estrema raffinatezza psicologica e piacevole malizia, come solo gli scrittori di razza sanno fare. Senza mai indulgere in banalità e tantomeno in volgarità, l’autore ci fa assistere ai rituali seduttivi di questi due briosi “dongiovanni” da una sponda all’altra del lago, lago che diventa parte integrante della narrazione, con i suoi innumerevoli meravigliosi paesi lungo le rive quali Locarno, Stresa, Arona, Ascona, Cannobio, Laveno, Pallanza…; con le sue ville affacciate sull’acqua e circondate da splendidi parchi. Per renderci, infine, partecipi di quel pericoloso gioco dei sentimenti cavalcato dai protagonisti che “nasconde sempre un dramma, lo prepara, quasi lo alleva tra allegre divagazioni e spensierate ebbrezze”.