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lunedì 26 febbraio 2024

Diario siciliano: alla ricerca della felicità perduta

 


Amo leggere i grandi narratori siciliani del passato. Sono quelli provenienti dalla “provincia intelligente”, per usare una espressione cara a Leonardo Sciascia, che hanno fatto la storia della letteratura del nostro Novecento. E poi sono spariti, relegati nel dimenticatoio dall’esercito dei nuovi romanzieri di successo, i moderni interpreti e cantori del mondo attuale. Tra questi scrittori dimenticati c’è sicuramente Ercole Patti, il cui percorso umano e letterario si svolse tra Catania (dove nacque nel 1903) e Roma, che lo accolse e lo celebrò giovanissimo e dove si spense nel 1976. Grande amico di Vitaliano Brancati – altro figlio illustre di quella “provincia intelligente” - seppe descrivere mirabilmente nei suoi libri quella sicilianità che forse non esiste più, quel mondo dove la vita scorreva lenta, sonnacchiosa, monotona, noiosa...e dolce. Così dolce, ebbe a scrivere lo stesso Ercole Patti in un suo romanzo "che si poteva invecchiare senza accorgersene e ritrovarsi ad averla vissuta tutta senza averne avuto coscienza, rimanendo sempre figli di famiglia. Questo era il dolcissimo veleno di Catania".

Cercavo, da molto tempo, un suo libro che si intitola “Diario siciliano”: una raccolta di brani scritti in momenti diversi - molti dei quali pubblicati in più giornali del passato - e assemblati in un unico volume nel 1971, libro che non viene più stampato. E dove potevo trovarlo se non sul banchetto di un mercatino dell’usato? Devo dire che, nell’acquistarlo a soli tre euro, ho provato la stessa gioia che avverte un bambino nel ritrovare un giocattolo che credeva perduto per sempre.



“Diario siciliano” è un “viaggio autunnale compiuto a ritroso”, come lo definì l’autore, il quale contiene una trentina di racconti brevi autobiografici, scritti in forma diaristica tra il 1970 e il 1931. E’ una narrazione, questa – come peraltro il genere epistolare – che io considero di grande spessore letterario e che permette, all’autore prima ancora che al lettore, di soddisfare quell’estremo bisogno di tornare indietro nel tempo per riacciuffare, con la memoria, barlumi di felicità perduta. E questo libro di Ercole Patti, dalla prosa gradevole e armoniosa imbevuta di dolce malinconia, ne è la felice testimonianza. Attraverso il filtro incantato e poetico della sua scrittura, lo scrittore siciliano riesce a dare vita e voce a paesaggi, sentimenti, persone, odori, oggetti e gesti di un mondo scomparso. Vergati a ritroso, dagli anni più recenti a quelli della sua giovinezza, questi brevi capitoli del Diario sono come tasselli di un puzzle attraverso il quale l’autore sembra voler stemperare le proprie amarezze, la propria nostalgia e ricercare - per sé e per il lettore - quella felicità perduta.

Ecco, allora, la descrizione minuziosa degli oggetti che ci sono in un'antica casa di campagna, quel vecchio portone sprangato che evoca ricordi, il limone che cresce nell’orto i cui rami sfiorano il davanzale, l’antico uliveto che sorge tra rocce di lava secolare sulle pendici dell’Etna, dove fioriscono erbe selvatiche, ginestre e macchie di capperi; e poi l’odore inconfondibile e forte del frantoio, quello intenso delle olive macinate che piglia alla gola con una forza inebriante; il silenzio e la frescura dei paesetti che circondano le pendici dell’Etna immersi in un grande languore, in un dolcissimo letargo; e poi il suo amato paesino dell’infanzia – Pozzillo – tra Acireale e Catania, carico di agrumi e di olivi che si affacciano sui muretti a secco che costeggiano le strade; e il silenzio degli ulivi che si unisce al silenzio del mare che appare calmo e luminoso in fondo alle brevi stradine laterali che finiscono all’improvviso fra gli scogli; e ancora la vecchia credenza restaurata da cui emana un odore di lontana vita familiare e di affetti e che ricorda l’aria felice dei tempi dell’infanzia; il piccolo orto, attraverso il quale si entrava nella vigna; le fresche mattinate di ottobre, quando scendeva, ancora in pigiama, lungo i viottoli, tra le viti cariche d’uva ancora appannata dalla brina notturna; il ricordo struggente di quel bambino che, durante le mattinate d’estate a Catania - seduto tra la cameriera e la madre - allungava il collo per vedere l’arrivo della carrozza della ragazzina che amava, e che avrebbe incontrato sulla spiaggia; le strade di Catania piene di balconi in ferro battuto, ai quali Verga faceva affacciare i suoi personaggi nelle sere delle processioni; l’eterno passeggio pomeridiano in via Etnea, con i suoi marciapiedi consumati da un secolare strascicare di piedi… atmosfere,  queste, di un mondo, descrizioni di oggetti, di immagini, di odori, di colori, di paesaggi, di sensazioni che assurgono a protagonisti assoluti del libro, si confondono nella mente dello scrittore siciliano e diventano “l’espressione più alta della felicità”.


lunedì 19 febbraio 2024

Ritrovarsi in un libro

 


Se è vero che noi siamo quello che leggiamo, come sostiene qualcuno (ma si potrebbe anche affermare che noi leggiamo quello che siamo), ebbene lo scrivente – che si rifugia quasi sempre tra le pagine di certi libri del passato (a volte anche dimenticati) – non può che ritrovarsi in questo assunto: se il libro che sto leggendo mi piace è perché la mia anima si specchia in quel libro, e l’autore che l’ha scritto è un mio illustre alter ego che mi consente di scorgere, tra le righe, quella parte di me che forse non avrei potuto conoscere se non lo avessi letto. Mi ritrovo in quel determinato testo piuttosto che in un altro, perché la mia identità di lettore, la mia filosofia di vita, coincidono con la visione del mondo che racconta quel libro. Posso anche leggere gli “altri”, come faccio sempre, ma se non mi soddisfano, se mi lasciano indifferente, se quelle pagine scritte non le sento mie e non si verifica tra me e loro quella condizione che Goethe avrebbe definito “affinità elettive”, io quei libri li abbandono inevitabilmente da qualche parte sui ripiani della libreria. E non mi vedranno mai più.

A pensarci bene i libri che amo leggere e rileggere – almeno fino a questo momento – e che in qualche maniera li abito e me li sento addosso come un vestito su misura, non sono poi tanti e credo che si riducano ad una cinquantina, forse largheggiando. E molti di essi, come ebbe a dire una volta Ennio Flaiano, hanno aspettato anni e anni prima di essere ripresi e riletti, in un giorno di particolare disgusto esistenziale. Ma è la loro forza perché, proprio quelli e non altri, hanno la straordinaria capacità di farti riappacificare con la lettura. E con la vita.


lunedì 12 febbraio 2024

Chiese chiuse

 

Chiesetta di S. Francesco - Roma Torrevecchia

Amo perdutamente le chiese, scrive lo storico dell’arte Tomaso Montanari nel suo saggio “Chiese chiuse” edito da Einaudi. Luoghi di serenità e di preghiera, dove solo in linea teorica è possibile distinguere la dimensione religiosa da quella culturale. Luoghi capaci di suggerire una diversa dimensione del tempo, un altro ritmo esistenziale: riposo dell’anima e del corpo, le antiche chiese offrono una pausa di riflessione alla nostra vita esagitata, al nostro caos interiore. E’ tale la bellezza di questi spazi che anche la loro rovina riesce ad esercitare su di noi una indefinibile seduzione estetica. E devo dire - per quanto mi riguarda - che non esiste passeggiata per il centro storico di Roma che non comprenda una sosta in una chiesa, anche per allontanarmi solo per un momento dallo schiamazzo esterno e respirare un po' di silenzio. E riposarmi, in contemplazione, davanti al dipinto di una madonna del Seicento. Indipendentemente dal sentimento religioso, chi entra in una chiesa antica non può non subirne l’influsso. Non può non rimanerne affascinato.

Nessuno sa esattamente quante siano le chiese in Italia: si stimano in circa 95.000 - scrive il prof. Montanari nel suo libro - e sono migliaia quelle inaccessibili, pericolanti, sconsacrate e saccheggiate. Non è frutto solo della secolarizzazione che avanza o della nostra incapacità di preservare il patrimonio artistico e culturale, ma c’è qualcosa di più profondo che riguarda l’idea stessa di società che stiamo costruendo, sempre più orientata al profitto, all’evento mediatico, al sensazionalismo. “Il patrimonio è al sicuro – sostiene Montanari – finché è frequentato, amato, conosciuto: le chiese si aprono ai ladri, quando si chiudono ai cittadini”. Purtroppo noi, oggi, siamo martellati da un marketing maldestro e spietato che ci spinge ad essere clienti e turisti piuttosto che cittadini responsabili. Facciamo la fila per visitare l’ultima mostra a pagamento e non entriamo nella chiesa che si trova all’angolo, che spesso custodisce opere di altissimo valore storico ed artistico. E’ in atto una crescente mercificazione del nostro patrimonio culturale pensato non per aumentare la conoscenza e la sensibilità, non per una funzione educativa, ma per intrattenere e saziare un pubblico sempre più povero culturalmente. E sono sempre di più le antiche chiese che vengono chiuse ed alienate a privati, destinate poi - secondo logiche aziendalistiche - ad attività economiche ambitissime dall’industria dei matrimoni civili. Certo, niente vieta - scrive sempre Montanari - che nelle chiese si possano tenere concerti o conferenze o declamare poesie, insomma attività culturali: ma non a pagamento e senza snaturarne la dimensione spirituale.

In Italia, sono circa un centinaio le chiese monumentali cui si accede pagando, e moltissime altre prevedono biglietti per ambienti accessori, quali chiostri, sacrestie, campanili, cripte…ma una chiesa a pagamento non è più una chiesa, ma non diventa per questo un museo o una mostra. Le chiese sono sempre state – scrive Montanari – una sorta di “prosecuzione delle piazze…luoghi pubblici in cui entrare anche senza un perché. Perché fuori piove, o fa troppo caldo, per parlare con un amico in un giorno freddo, per rivedere un quadro o la curva di un arco che ci è caro. Luoghi intimi, spazi di respiro e riposo mentale per tutti noi che ci siamo cresciuti dentro: pezzi di una casa che ci ha dato forma e che potrebbe continuare a darcela. Un’esperienza unica, questa comunione con le antiche chiese: un’esperienza che di fatto i nostri figli non potranno avere”.

Di chi la colpa? si chiede il professor Montanari. Colpa di tutti i governi che hanno tagliato e continuano a farlo, i fondi per la manutenzione del patrimonio artistico. Colpa dei tanti proprietari delle chiese,  spesso non facili da identificare: dalla Santa Sede alle diocesi, dalle parrocchie agli istituti religiosi, dallo Stato alle Regioni…Colpa anche di un giornalismo servile capace solo di lodare il potente di turno per poi stupirsi che crollano i ponti e le chiese. Ha scritto Kant (citazione presente nel libro): “tutto ha un prezzo o una dignità. Ciò che ha un prezzo può essere sostituito da qualcos’altro a titolo equivalente; al contrario, ciò che è superiore a quel prezzo e che non ammette equivalenti, è ciò che ha una dignità”. Poter entrare, gratis, in una chiesa che custodisce bellezza è una cosa che ha una sua dignità. E sarebbe davvero intollerabile e blasfemo cancellare.