Amo leggere i grandi narratori siciliani del passato. Sono
quelli provenienti dalla “provincia intelligente”, per usare una espressione
cara a Leonardo Sciascia, che hanno fatto la storia della letteratura del nostro
Novecento. E poi sono spariti, relegati nel dimenticatoio dall’esercito dei
nuovi romanzieri di successo, i moderni interpreti e cantori del mondo attuale.
Tra questi scrittori dimenticati c’è sicuramente Ercole Patti, il cui percorso
umano e letterario si svolse tra Catania (dove nacque nel 1903) e Roma, che lo
accolse e lo celebrò giovanissimo e dove si spense nel 1976. Grande
amico di Vitaliano Brancati – altro figlio illustre di quella “provincia
intelligente” - seppe descrivere mirabilmente nei suoi libri quella sicilianità
che forse non esiste più, quel mondo dove la vita scorreva lenta, sonnacchiosa,
monotona, noiosa...e dolce. Così dolce, ebbe a scrivere lo stesso Ercole Patti
in un suo romanzo "che si poteva invecchiare senza accorgersene e
ritrovarsi ad averla vissuta tutta senza averne avuto coscienza, rimanendo
sempre figli di famiglia. Questo era il dolcissimo veleno di Catania".
Cercavo, da molto tempo, un suo libro
che si intitola “Diario siciliano”: una raccolta di brani scritti in momenti
diversi - molti dei quali pubblicati in più giornali del passato - e assemblati
in un unico volume nel 1971, libro che non viene più stampato. E dove potevo
trovarlo se non sul banchetto di un mercatino dell’usato? Devo dire che,
nell’acquistarlo a soli tre euro, ho provato la stessa gioia che avverte un
bambino nel ritrovare un giocattolo che credeva perduto per sempre.
“Diario siciliano” è un “viaggio
autunnale compiuto a ritroso”, come lo definì l’autore, il quale contiene una
trentina di racconti brevi autobiografici, scritti in forma diaristica tra il
1970 e il 1931. E’ una narrazione, questa – come peraltro il genere epistolare –
che io considero di grande spessore letterario e che permette, all’autore prima
ancora che al lettore, di soddisfare quell’estremo bisogno di tornare indietro
nel tempo per riacciuffare, con la memoria, barlumi di felicità perduta. E
questo libro di Ercole Patti, dalla prosa gradevole e armoniosa imbevuta di
dolce malinconia, ne è la felice testimonianza. Attraverso il filtro incantato
e poetico della sua scrittura, lo scrittore siciliano riesce a dare vita e voce
a paesaggi, sentimenti, persone, odori, oggetti e gesti di un mondo scomparso.
Vergati a ritroso, dagli anni più recenti a quelli della sua giovinezza, questi
brevi capitoli del Diario sono come tasselli di un puzzle attraverso il quale l’autore
sembra voler stemperare le proprie amarezze, la propria nostalgia e ricercare -
per sé e per il lettore - quella felicità perduta.
Ecco, allora, la descrizione minuziosa
degli oggetti che ci sono in un'antica casa di campagna, quel vecchio portone
sprangato che evoca ricordi, il limone che cresce nell’orto i cui rami sfiorano
il davanzale, l’antico uliveto che sorge tra rocce di lava secolare sulle
pendici dell’Etna, dove fioriscono erbe selvatiche, ginestre e macchie di
capperi; e poi l’odore inconfondibile e forte del frantoio, quello intenso
delle olive macinate che piglia alla gola con una forza inebriante; il silenzio
e la frescura dei paesetti che circondano le pendici dell’Etna immersi in un
grande languore, in un dolcissimo letargo; e poi il suo amato paesino
dell’infanzia – Pozzillo – tra Acireale e Catania, carico di agrumi e di olivi
che si affacciano sui muretti a secco che costeggiano le strade; e il silenzio
degli ulivi che si unisce al silenzio del mare che appare calmo e luminoso in
fondo alle brevi stradine laterali che finiscono all’improvviso fra gli scogli;
e ancora la vecchia credenza restaurata da cui emana un odore di lontana vita
familiare e di affetti e che ricorda l’aria felice dei tempi dell’infanzia; il piccolo
orto, attraverso il quale si entrava nella vigna; le fresche mattinate di
ottobre, quando scendeva, ancora in pigiama, lungo i viottoli, tra le viti
cariche d’uva ancora appannata dalla brina notturna; il ricordo struggente di
quel bambino che, durante le mattinate d’estate a Catania - seduto tra la
cameriera e la madre - allungava il collo per vedere l’arrivo della carrozza
della ragazzina che amava, e che avrebbe incontrato sulla spiaggia; le strade
di Catania piene di balconi in ferro battuto, ai quali Verga faceva affacciare
i suoi personaggi nelle sere delle processioni; l’eterno passeggio pomeridiano
in via Etnea, con i suoi marciapiedi consumati da un secolare strascicare di
piedi… atmosfere, queste, di un mondo,
descrizioni di oggetti, di immagini, di odori, di colori, di paesaggi, di
sensazioni che assurgono a protagonisti assoluti del libro, si
confondono nella mente dello scrittore siciliano e diventano “l’espressione più
alta della felicità”.