Si avvicina il Natale, la festa
più importante della liturgia cristiana. E’ una ricorrenza che risveglia in me teneri
ricordi legati al periodo della mia infanzia e della mia adolescenza. Ricordo quel
piccolo e povero presepe che vegliava in un angolo della casa del paese
rischiarato dalla fiamma vacillante del focolare: era l'espressione della dignitosa povertà di quei tempi. Ogni volta che lo osservavo,
quel presepe, mi divertivo a cambiare la collocazione delle statuine di
terracotta, quasi a voler dare loro una sorta di movimento. Ricordo, poi, l’arrivo
degli zampognari, che sostavano per pochi minuti davanti alla porta di casa suonando
“tu scendi dalle stelle”: ero affascinato dai loro tipici strumenti musicali,
così diversi da quelli della banda musicale del paese. Ricordo il pranzo di
Natale con le persone care che non ci sono più, il più abbondante e il più
buono dell’anno: “perché era Natale”, come diceva mio padre. E poi i dolcetti
tipici della tradizione che annunciavano la festa e rendevano più dolce l’attesa.
Era una ricorrenza di sobria e moderata felicità, fatta di gesti semplici e di
piccole cose, non ancora offuscata dalla sagra dell’abbondanza, dagli sprechi,
dalla frenesia dei regali e dall’esasperata baldoria pubblicitaria sui mezzi di
informazione. Ho come l’impressione che con la giovinezza sia finita non solo
una stagione della vita ma anche la sacralità del Natale, quel Natale cristiano
che mal si concilia con l’opulenza che ci viene offerta dalla nostra società. Un
Natale che – dal punto di vista degli acquisti e della pubblicità – tende ad
iniziare sempre prima come se la vigilia, di anno in anno, si spostasse all’indietro,
tant’è che ho visto i primi alberi di Natale e relativi panettoni già a fine
ottobre.
Ora, nonostante i miei contrastanti
sentimenti intorno al Natale, devo dire che è davvero difficile sottrarsi a
questo rito orgiastico di fine anno abusando del nome di Gesù Bambino. Ne
prendo atto mentre giro per un centro commerciale della Capitale, sforzandomi
di capire quali effetti possano produrre in me le tante vetrine addobbate a
festa, stracolme di prodotti di ogni genere, e quali oggetti siano in grado di
stimolare i miei desideri più reconditi. Prima di recarmi nel mio paese nativo,
dove trascorro da sempre il Natale, mi sono concesso un bagno di folla per
rendere più desiderabile il silenzio e la quiete che lì mi aspettano. E quale
poteva essere il luogo migliore se non il centro commerciale: l’emblema del
luogo-non-luogo della nostra epoca, dove l’anonimato ti protegge e ti isola,
pur stando a stretto contatto con una moltitudine di persone. Il luogo della
solitudine di gruppo, identico e indistinguibile l’uno dall’altro, in qualsiasi
punto del pianeta lo si osservi. E durante le feste di fine anno – con il carico
di luminarie, decorazioni, alberi di natale di plastica, cataste di panettoni e
torroni e spumanti – il centro commerciale diventa la rappresentazione tragica
di un presepe vivente laico e consumistico, dove i frequentatori assurgono al
ruolo di re magi che, anziché portare doni al bambin Gesù, sono lì a caccia di doni.
Mentre mi aggiro alquanto
frastornato tra quella eccessiva offerta di mercanzia, mi viene in mente la
scritta che sovrasta un famigerato “Centro”, simbolo del potere economico
nell’età della globalizzazione, immaginato dallo scrittore portoghese Josè
Saramago nel suo romanzo “La caverna”: “Ti venderemmo tutto quello di cui tu
hai bisogno – dice la scritta - se non preferissimo che tu abbia bisogno
di ciò che vendiamo”. La finzione letteraria diventa realtà. Come a dire
che sono le scelte commerciali dei produttori a determinare i gusti della gente
e a creare nuovi bisogni. Un potere, quello economico e produttivo, che ci
vuole sempre insoddisfatti e dipendenti alla continua ricerca di novità. E noi,
come schiavi, obbediamo. E compriamo. E, lo possiamo ben dire, ormai viviamo
perennemente in un centro commerciale.
Intanto, come annullato e
assorbito da quel traffico natalizio di cose e persone che mi circondano, e da
quella forzata atmosfera festaiola che mi esonera dal pensare, passeggio in quegli
spazi che man mano diventano sempre più affollati. E più che guardare le
vetrine e comprare, osservo le tante persone cariche di pacchi e pacchetti e
bustoni infiocchettati, come se avessero appena svaligiato delle botteghe; e
vedo enormi carrelli che escono da un supermercato stracarichi di generi alimentari, come stesse per arrivare
una terribile carestia. Mi accorgo che molti si assiepano - curiosi, avidi ed
estasiati – davanti a un mega negozio che espone gli ultimi ritrovati della
tecnologia, ed in particolare le novità della telefonia mobile. Sembra il punto
vendita più ambito, più ricercato davanti al quale resto freddo
e indifferente. I telefonini proprio non mi interessano: sono troppo legato al
mio apparecchio fisso di casa, con tastiera a disco rotante. Amo quell’oggetto
demodé che mi permette, ancora, di fare le mie poche telefonate lontano da
occhi e orecchie indiscrete. E penso che se tutti fossero come il sottoscritto,
il cellulare sarebbe l’invenzione più fallimentare della storia dell’umanità. Ma
- per fortuna – non siamo tutti uguali e le cose sono andate diversamente: l’iPhone
è diventato l’oggetto più desiderato. Mi viene da pensare che mentre la
tecnologia avanza l’homo sapiens regredisce sempre di più.
Mi attardo per alcuni minuti in
una libreria dove anche i libri sono infiocchettati con nastrini colorati come un
qualsiasi prodotto industriale. Leggo i titoli delle copertine più in vista: vedo
solo novità editoriali che non conosco, tranne i soliti personaggi noti che stanno
sempre in televisione a promuovere le loro opere letterarie. Dei grandi del
passato non c’è traccia. Va bene l’ennesima strenna natalizia di Vespa o di
Carofiglio o di Cazzullo, ma perché dimentichiamo sempre gli autori che hanno
fatto la storia della nostra letteratura? Mi piacerebbe che, ogni tanto, si
vedesse in vetrina - che so - un Pavese o un Italo Svevo, tanto per fare qualche
nome. Un modo, questo, per far conoscere anche alle giovani generazioni autori che
non rientrano nel calderone pubblicitario e consumistico. Nel frattempo mi
giungono alle orecchie le parole di una signora che all’interno della libreria
chiede al commesso: “scusi…vorrei regalare un libro a un mio nipote che legge
poco…mi può consigliare qualcosa?”
Davanti a un negozio di
giocattoli provo una sorta di ammirazione puerile mista a stupore: non ricordo
i miei trastulli infantili, ma certamente erano primitivi se li confronto con
questi moderni ritrovati della tecnologia e della psicologia infantile, in
bella mostra sugli scaffali. Guardo, poi, delle ragazze che hanno appena
comprato jeans strappati, simili a quelli indossati dai due manichini nella
vetrina di abbigliamento. Mia nonna, che ci teneva molto al decoro del
vestiario e rammendava qualsiasi buco, avrebbe faticato a capire la ragione di
questa moda così bizzarra. Più in là mi cattura una enoteca: è un luogo magico
dove ogni bottiglia esposta racconta una storia e identifica un territorio. Quando
mi capita di entrare in questi negozi – che restano i miei preferiti assieme
alle librerie e alle ferramenta - resto affascinato da quella esposizione di
bottiglie schierate apposta per sedurti, così diverse l’una dall’altra anche se
apparentemente sembrano tutte uguali. Le osservo, leggo le etichette, ne prendo
qualcuna tra le mani e avverto un desiderio fortissimo di piacere e di possesso:
sarebbe bello avere una cantina con tante bottiglie di vini pregiati. Ne compro
una: è un morellino di Scansano del 2018. Che dire: ogni tanto mi piace
“tradire” il buon vinello del contadino del mio paese da cui mi fornisco, un
vinello che io trovo genuino e delizioso. E con questo prezioso bottino natalizio esco
dal centro commerciale. Fuori sono accolto da uno strombazzare di Suv che
tentano di farsi strada nel traffico impazzito. E’ Natale! Lo confesso: mi
viene voglia di fuggire… ma dove? “Adda passà ‘a nuttata”, direbbe il grande
Eduardo.