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giovedì 22 dicembre 2022

Verso sera

 


Vittorio Sgarbi sostiene che esiste un legame inseparabile tra poesia e sofferenza interiore, perché nessuno meglio di un poeta che soffre sa elevare in versi le sue angosce e i suoi timori. Per il piacere di chi legge.  Sembra quasi che una poesia debba nascere da un dolore e che la tristezza sia materia d’ispirazione per chi si accinge a scrivere versi poetici.

Ho ricevuto da un’amica questa struggente poesia in vernacolo: mi piace qui riportarla, per chi sa cogliere e apprezzare la bellezza che, a volte, si nasconde dietro un velo impalpabile di malinconia.

 Verso sera

 Er celo che rosseggia verso sera

me mette ar core na malinconia

e dar petto me sarza na preghiera

“Venite a notte pe’ portamme via

vojo godemme l’urtimo tramonto

guardà li storni che passeno a frotte

pare che me stanno affà ‘n racconto

vojo sentillo prima che viè notte…”

Paola

 Tanti auguri e lunga vita a Paola e a chi passa, di tanto in tanto, da queste parti.


venerdì 9 dicembre 2022

La mercificazione del Natale

 




Si avvicina il Natale, la festa più importante della liturgia cristiana. E’ una ricorrenza che risveglia in me teneri ricordi legati al periodo della mia infanzia e della mia adolescenza. Ricordo quel piccolo e povero presepe che vegliava in un angolo della casa del paese rischiarato dalla fiamma vacillante del focolare: era l'espressione della dignitosa povertà di quei tempi. Ogni volta che lo osservavo, quel presepe, mi divertivo a cambiare la collocazione delle statuine di terracotta, quasi a voler dare loro una sorta di movimento. Ricordo, poi, l’arrivo degli zampognari, che sostavano per pochi minuti davanti alla porta di casa suonando “tu scendi dalle stelle”: ero affascinato dai loro tipici strumenti musicali, così diversi da quelli della banda musicale del paese. Ricordo il pranzo di Natale con le persone care che non ci sono più, il più abbondante e il più buono dell’anno: “perché era Natale”, come diceva mio padre. E poi i dolcetti tipici della tradizione che annunciavano la festa e rendevano più dolce l’attesa. Era una ricorrenza di sobria e moderata felicità, fatta di gesti semplici e di piccole cose, non ancora offuscata dalla sagra dell’abbondanza, dagli sprechi, dalla frenesia dei regali e dall’esasperata baldoria pubblicitaria sui mezzi di informazione. Ho come l’impressione che con la giovinezza sia finita non solo una stagione della vita ma anche la sacralità del Natale, quel Natale cristiano che mal si concilia con l’opulenza che ci viene offerta dalla nostra società. Un Natale che – dal punto di vista degli acquisti e della pubblicità – tende ad iniziare sempre prima come se la vigilia, di anno in anno, si spostasse all’indietro, tant’è che ho visto i primi alberi di Natale e relativi panettoni già a fine ottobre.

Ora, nonostante i miei contrastanti sentimenti intorno al Natale, devo dire che è davvero difficile sottrarsi a questo rito orgiastico di fine anno abusando del nome di Gesù Bambino. Ne prendo atto mentre giro per un centro commerciale della Capitale, sforzandomi di capire quali effetti possano produrre in me le tante vetrine addobbate a festa, stracolme di prodotti di ogni genere, e quali oggetti siano in grado di stimolare i miei desideri più reconditi. Prima di recarmi nel mio paese nativo, dove trascorro da sempre il Natale, mi sono concesso un bagno di folla per rendere più desiderabile il silenzio e la quiete che lì mi aspettano. E quale poteva essere il luogo migliore se non il centro commerciale: l’emblema del luogo-non-luogo della nostra epoca, dove l’anonimato ti protegge e ti isola, pur stando a stretto contatto con una moltitudine di persone. Il luogo della solitudine di gruppo, identico e indistinguibile l’uno dall’altro, in qualsiasi punto del pianeta lo si osservi. E durante le feste di fine anno – con il carico di luminarie, decorazioni, alberi di natale di plastica, cataste di panettoni e torroni e spumanti – il centro commerciale diventa la rappresentazione tragica di un presepe vivente laico e consumistico, dove i frequentatori assurgono al ruolo di re magi che, anziché portare doni al bambin Gesù, sono lì a caccia di doni.  

Mentre mi aggiro alquanto frastornato tra quella eccessiva offerta di mercanzia, mi viene in mente la scritta che sovrasta un famigerato “Centro”, simbolo del potere economico nell’età della globalizzazione, immaginato dallo scrittore portoghese Josè Saramago nel suo romanzo “La caverna”: “Ti venderemmo tutto quello di cui tu hai bisogno – dice la scritta - se non preferissimo che tu abbia bisogno di ciò che vendiamo”. La finzione letteraria diventa realtà. Come a dire che sono le scelte commerciali dei produttori a determinare i gusti della gente e a creare nuovi bisogni. Un potere, quello economico e produttivo, che ci vuole sempre insoddisfatti e dipendenti alla continua ricerca di novità. E noi, come schiavi, obbediamo. E compriamo. E, lo possiamo ben dire, ormai viviamo perennemente in un centro commerciale.

Intanto, come annullato e assorbito da quel traffico natalizio di cose e persone che mi circondano, e da quella forzata atmosfera festaiola che mi esonera dal pensare, passeggio in quegli spazi che man mano diventano sempre più affollati. E più che guardare le vetrine e comprare, osservo le tante persone cariche di pacchi e pacchetti e bustoni infiocchettati, come se avessero appena svaligiato delle botteghe; e vedo enormi carrelli che escono da un supermercato stracarichi di generi alimentari, come stesse per arrivare una terribile carestia. Mi accorgo che molti si assiepano - curiosi, avidi ed estasiati – davanti a un mega negozio che espone gli ultimi ritrovati della tecnologia, ed in particolare le novità della telefonia mobile. Sembra il punto vendita più ambito, più ricercato davanti al quale resto freddo e indifferente. I telefonini proprio non mi interessano: sono troppo legato al mio apparecchio fisso di casa, con tastiera a disco rotante. Amo quell’oggetto demodé che mi permette, ancora, di fare le mie poche telefonate lontano da occhi e orecchie indiscrete. E penso che se tutti fossero come il sottoscritto, il cellulare sarebbe l’invenzione più fallimentare della storia dell’umanità. Ma - per fortuna – non siamo tutti uguali e le cose sono andate diversamente: l’iPhone è diventato l’oggetto più desiderato. Mi viene da pensare che mentre la tecnologia avanza l’homo sapiens regredisce sempre di più.

Mi attardo per alcuni minuti in una libreria dove anche i libri sono infiocchettati con nastrini colorati come un qualsiasi prodotto industriale. Leggo i titoli delle copertine più in vista: vedo solo novità editoriali che non conosco, tranne i soliti personaggi noti che stanno sempre in televisione a promuovere le loro opere letterarie. Dei grandi del passato non c’è traccia. Va bene l’ennesima strenna natalizia di Vespa o di Carofiglio o di Cazzullo, ma perché dimentichiamo sempre gli autori che hanno fatto la storia della nostra letteratura? Mi piacerebbe che, ogni tanto, si vedesse in vetrina - che so - un Pavese o un Italo Svevo, tanto per fare qualche nome. Un modo, questo, per far conoscere anche alle giovani generazioni autori che non rientrano nel calderone pubblicitario e consumistico. Nel frattempo mi giungono alle orecchie le parole di una signora che all’interno della libreria chiede al commesso: “scusi…vorrei regalare un libro a un mio nipote che legge poco…mi può consigliare qualcosa?”

Davanti a un negozio di giocattoli provo una sorta di ammirazione puerile mista a stupore: non ricordo i miei trastulli infantili, ma certamente erano primitivi se li confronto con questi moderni ritrovati della tecnologia e della psicologia infantile, in bella mostra sugli scaffali. Guardo, poi, delle ragazze che hanno appena comprato jeans strappati, simili a quelli indossati dai due manichini nella vetrina di abbigliamento. Mia nonna, che ci teneva molto al decoro del vestiario e rammendava qualsiasi buco, avrebbe faticato a capire la ragione di questa moda così bizzarra. Più in là mi cattura una enoteca: è un luogo magico dove ogni bottiglia esposta racconta una storia e identifica un territorio. Quando mi capita di entrare in questi negozi – che restano i miei preferiti assieme alle librerie e alle ferramenta - resto affascinato da quella esposizione di bottiglie schierate apposta per sedurti, così diverse l’una dall’altra anche se apparentemente sembrano tutte uguali. Le osservo, leggo le etichette, ne prendo qualcuna tra le mani e avverto un desiderio fortissimo di piacere e di possesso: sarebbe bello avere una cantina con tante bottiglie di vini pregiati. Ne compro una: è un morellino di Scansano del 2018. Che dire: ogni tanto mi piace “tradire” il buon vinello del contadino del mio paese da cui mi fornisco, un vinello che io trovo genuino e delizioso.  E con questo prezioso bottino natalizio esco dal centro commerciale. Fuori sono accolto da uno strombazzare di Suv che tentano di farsi strada nel traffico impazzito. E’ Natale! Lo confesso: mi viene voglia di fuggire… ma dove? “Adda passà ‘a nuttata”, direbbe il grande Eduardo.