E’ racchiuso nei
ricordi dei miei anni infantili, trascorsi in un piccolo paese del Cilento poco
distante dal mare, il mio primo approccio alla comprensione della differenza di
classe sociale che esisteva tra noi – figli di quel meridione povero degli anni
sessanta – ed i componenti di una facoltosa famiglia del Nord che, all’inizio
di ogni estate, arrivavano nel mio paese natale per trascorrervi la
villeggiatura, ospiti di alcuni parenti. Devo dire che quella indelebile
sensazione di diversità nasceva non tanto dalle differenti condizioni
economico-sociali (che pure esistevano tra noi), quanto dal fatto che loro facessero
la villeggiatura ed io no. E per giunta in un luogo dove vivevo tutto l’anno,
da cui certe volte desideravo fuggire. Tuttavia ero affascinato da quei
“signori” venuti da lontano, li osservavo nei loro spostamenti, cercavo di
carpirne la “diversità”. Vestivano bene, erano educati, mi sembravano addirittura
più belli: e poi parlavano l’italiano. Intanto avevo fatto amicizia con i
figli, due ragazzi della mia stessa età, con cui spesso giocavo. In qualche
maniera mi facevano sentire in villeggiatura, senza dovermi spostare da casa e
senza fare bagagli, praticamente a costo zero. Anche se mi sarebbe piaciuto
andare nella loro città, (ne parlavano con entusiasmo e ne elogiavano le
magnificenze), per poter sperimentare anch’io l’ebbrezza del viaggio e della
scoperta. L’ebbrezza della villeggiatura. Che poi, almeno lì da noi - durante
quegli interminabili pomeriggi assolati scanditi dal canto senza fine delle
cicale – la villeggiatura era fatta di piccole semplici cose: lunghe passeggiate,
partite a pallone per strada, letture, noia, riposo. Insomma, quel dolce far
niente ormai perduto.
La villeggiatura l’avevano
inventata gli imperatori dell’antica Roma, i quali all’inizio della bella
stagione lasciavano il caos e il caldo dell’Urbe per rifugiarsi nelle loro
splendide ville al mare o in campagna. Erano le cosiddette “ville dell’ozio”,
un genere architettonico che si diffuse in tutto il Paese, a partire
soprattutto dal ‘700, quando le famiglie nobili e aristocratiche del tempo
iniziarono a costruire magnifiche residenze, poste lontano dalla città, in cui
si ritiravano per lunghi periodi di svago e di riposo. Erano le ferie di quei
tempi, appannaggio solo dei ricchi. I poveri ne erano esclusi. Il boom
economico degli anni 60/70 del secolo scorso avrebbe immesso nel circuito
turistico anche loro, avrebbe sancito la vittoria delle vacanze di massa sulla
villeggiatura per pochi privilegiati, con la fine dell’esclusione dei
lavoratori dagli agi riservati ai “signori” e l’azzeramento di una piramide
sociale in cui i meno abbienti comparivano, sulla scena della villeggiatura,
solo come servitori. Finalmente anche loro – gli impiegati, gli artigiani, gli
operai - potevano divertirsi andando in vacanza: sarebbe esploso, di lì a poco,
il turismo di massa, nevrotico e consumistico sulla riviera adriatica. Rimini,
Riccione: paradisi per chi voleva divertirsi con pochi soldi. Ma le
conseguenze, con un impatto devastante sui luoghi e il paesaggio, erano dietro
l’angolo: sovraffollamenti, code chilometriche di macchine sull’autostrada,
stress, villaggi turistici e strutture alberghiere che sorgevano come funghi,
seconde case, colate di cemento ovunque, pacchetti turistici tutto compreso. Sull’altra
sponda, intanto, i ricchi, orfani della villeggiatura che evocava l’otium degli antichi Romani e imitava usi
e costumi delle residenze blasonate del
passato, avrebbero eletto come luogo della propria vacanza estiva Cortina
d’Ampezzo, Courmayeur, la Costa Smeralda ed altre perle simili. La
villeggiatura era definitivamente finita: da una parte aveva perso i ricchi
praticanti e dall’altra si era trasformata in vacanza di massa: i turisti
lasciavano le città sempre più caotiche e rumorose per trasferirsi, in massa,
nelle località di mare che diventavano, a loro volta, altrettanto caotiche e
rumorose.
Oggi le località di villeggiatura sono diventate, sostanzialmente,
indistinguibili l’una dall’altra grazie al costante livellamento dettato dal
mercato globale, che tende a cancellarne le diversità. A volte mi chiedo se
abbia ancora un senso andare al mare in Sardegna piuttosto che in Sicilia,
trascorrere le vacanze nel Cilento anziché sul Gargano.
E’ saltato quell’antico e consolidato equilibrio che esisteva tra la natura
incontaminata e la presenza proficua dell’uomo; un bilanciamento virtuoso che
si fondava sul rispetto e sulla salvaguardia del territorio, un territorio non
invaso da orde di turisti simili a sciami famelici di cavallette che - congiuntamente
ad amministratori corrotti e incompetenti - stanno saccheggiando e deturpando
qualsiasi posto. Anche il più bello. Chiunque, oggi, voglia osservare il
fenomeno con spirito critico, non può non accorgersi della bassa qualità di
questo “diritto alle vacanze” esteso a tutti e venduto in maniera ingannevole
come esclusivo; un diritto svilito nella sua essenza. Se tutti frequentiamo in
massa lo stesso luogo si finisce per stravolgerlo in poco tempo. E’ su questo
squilibrio, tra la presenza eccessiva dell’uomo nei luoghi deputati allo svago
e la natura offesa, che bisogna ragionare e riflettere.
Anch’io sto per andare in villeggiatura nel Cilento. Si, preferisco usare
questo termine desueto: mi è più congeniale e mi riporta, almeno con la mente,
al passato. Non sarò ospite di parenti come quei signori di antica memoria: no,
mi accoglierà – come ogni anno - la mia “casarella” avita nel paese nativo: la
mia villa otium. Quei “signori” di
una volta – forse per nostra fortuna – non esistono più. Sono diventati dei
borghesi piccoli piccoli, che vanno altrove o ritornano nei luoghi delle
origini, come il sottoscritto. “Fate le
vostre vacanze in Italia, scoprite le bellezze che ancora non conoscete o
tornate a visitare quelle che già avete visitato”: è questo l’appello
lanciato delle autorità istituzionali, in questi tempi di coronavirus. Io da
sempre le faccio in Italia, le vacanze. E prima di ritornare nel mio paesello, amo
trascorrere qualche giorno in una delle tante meravigliose località del bel
Paese. Quest’anno, per colpa del covid 19, per la prima volta, mi accontenterò
solo del Cilento. E non è poco! Il mio amato Cilento, il cui nome – al solo
pronunziarlo – faceva battere il cuore all’eminente studioso e viaggiatore
pugliese Cosimo De Giorgi che l’aveva percorso verso la fine dell’800. Fino a qualche anno fa
era meta di pochi estimatori alla ricerca di silenzio, di mare pulito e di
natura incontaminata, buen retiro per chi come me è nato da quelle
parti. Una terra quasi selvaggia. Il turismo di massa è riuscito in poco tempo
a cambiarlo, a standardizzarlo, a fargli perdere quell’identità che lo
caratterizzava. Sia ben chiaro: io non voglio ritornare ai tempi degli antichi
villeggianti, i soli che potevano permettersi una vacanza. Anche perché non
credo che loro avessero un migliore rapporto con l’ambiente o fossero più
civili di noi. Erano solo di meno e forse più austeri. Dobbiamo, quindi,
ripensare il modo di fruire la vacanza e di godere i luoghi in cui andiamo. Non
so come, ma dobbiamo far si che qualità e quantità possano in qualche maniera armonizzarsi,
e non essere sempre inversamente proporzionali tra di loro. Se non vogliamo distruggere il valore di un posto, facendo danni
irreparabili prima ancora che alla natura e alla bellezza, a noi stessi.