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martedì 28 luglio 2020

Dalla villeggiatura al turismo di massa



E’ racchiuso nei ricordi dei miei anni infantili, trascorsi in un piccolo paese del Cilento poco distante dal mare, il mio primo approccio alla comprensione della differenza di classe sociale che esisteva tra noi – figli di quel meridione povero degli anni sessanta – ed i componenti di una facoltosa famiglia del Nord che, all’inizio di ogni estate, arrivavano nel mio paese natale per trascorrervi la villeggiatura, ospiti di alcuni parenti. Devo dire che quella indelebile sensazione di diversità nasceva non tanto dalle differenti condizioni economico-sociali (che pure esistevano tra noi), quanto dal fatto che loro facessero la villeggiatura ed io no. E per giunta in un luogo dove vivevo tutto l’anno, da cui certe volte desideravo fuggire. Tuttavia ero affascinato da quei “signori” venuti da lontano, li osservavo nei loro spostamenti, cercavo di carpirne la “diversità”. Vestivano bene, erano educati, mi sembravano addirittura più belli: e poi parlavano l’italiano. Intanto avevo fatto amicizia con i figli, due ragazzi della mia stessa età, con cui spesso giocavo. In qualche maniera mi facevano sentire in villeggiatura, senza dovermi spostare da casa e senza fare bagagli, praticamente a costo zero. Anche se mi sarebbe piaciuto andare nella loro città, (ne parlavano con entusiasmo e ne elogiavano le magnificenze), per poter sperimentare anch’io l’ebbrezza del viaggio e della scoperta. L’ebbrezza della villeggiatura. Che poi, almeno lì da noi - durante quegli interminabili pomeriggi assolati scanditi dal canto senza fine delle cicale – la villeggiatura era fatta di piccole semplici cose: lunghe passeggiate, partite a pallone per strada, letture, noia, riposo. Insomma, quel dolce far niente ormai perduto.

La villeggiatura l’avevano inventata gli imperatori dell’antica Roma, i quali all’inizio della bella stagione lasciavano il caos e il caldo dell’Urbe per rifugiarsi nelle loro splendide ville al mare o in campagna. Erano le cosiddette “ville dell’ozio”, un genere architettonico che si diffuse in tutto il Paese, a partire soprattutto dal ‘700, quando le famiglie nobili e aristocratiche del tempo iniziarono a costruire magnifiche residenze, poste lontano dalla città, in cui si ritiravano per lunghi periodi di svago e di riposo. Erano le ferie di quei tempi, appannaggio solo dei ricchi. I poveri ne erano esclusi. Il boom economico degli anni 60/70 del secolo scorso avrebbe immesso nel circuito turistico anche loro, avrebbe sancito la vittoria delle vacanze di massa sulla villeggiatura per pochi privilegiati, con la fine dell’esclusione dei lavoratori dagli agi riservati ai “signori” e l’azzeramento di una piramide sociale in cui i meno abbienti comparivano, sulla scena della villeggiatura, solo come servitori. Finalmente anche loro – gli impiegati, gli artigiani, gli operai - potevano divertirsi andando in vacanza: sarebbe esploso, di lì a poco, il turismo di massa, nevrotico e consumistico sulla riviera adriatica. Rimini, Riccione: paradisi per chi voleva divertirsi con pochi soldi. Ma le conseguenze, con un impatto devastante sui luoghi e il paesaggio, erano dietro l’angolo: sovraffollamenti, code chilometriche di macchine sull’autostrada, stress, villaggi turistici e strutture alberghiere che sorgevano come funghi, seconde case, colate di cemento ovunque, pacchetti turistici tutto compreso. Sull’altra sponda, intanto, i ricchi, orfani della villeggiatura che evocava l’otium degli antichi Romani e imitava usi e costumi  delle residenze blasonate del passato, avrebbero eletto come luogo della propria vacanza estiva Cortina d’Ampezzo, Courmayeur, la Costa Smeralda ed altre perle simili. La villeggiatura era definitivamente finita: da una parte aveva perso i ricchi praticanti e dall’altra si era trasformata in vacanza di massa: i turisti lasciavano le città sempre più caotiche e rumorose per trasferirsi, in massa, nelle località di mare che diventavano, a loro volta, altrettanto caotiche e rumorose.

Oggi le località di villeggiatura sono diventate, sostanzialmente, indistinguibili l’una dall’altra grazie al costante livellamento dettato dal mercato globale, che tende a cancellarne le diversità. A volte mi chiedo se abbia ancora un senso andare al mare in Sardegna piuttosto che in Sicilia, trascorrere le vacanze nel Cilento anziché sul Gargano.
E’ saltato quell’antico e consolidato equilibrio che esisteva tra la natura incontaminata e la presenza proficua dell’uomo; un bilanciamento virtuoso che si fondava sul rispetto e sulla salvaguardia del territorio, un territorio non invaso da orde di turisti simili a sciami famelici di cavallette che - congiuntamente ad amministratori corrotti e incompetenti - stanno saccheggiando e deturpando qualsiasi posto. Anche il più bello. Chiunque, oggi, voglia osservare il fenomeno con spirito critico, non può non accorgersi della bassa qualità di questo “diritto alle vacanze” esteso a tutti e venduto in maniera ingannevole come esclusivo; un diritto svilito nella sua essenza. Se tutti frequentiamo in massa lo stesso luogo si finisce per stravolgerlo in poco tempo. E’ su questo squilibrio, tra la presenza eccessiva dell’uomo nei luoghi deputati allo svago e la natura offesa, che bisogna ragionare e riflettere.

Anch’io sto per andare in villeggiatura nel Cilento. Si, preferisco usare questo termine desueto: mi è più congeniale e mi riporta, almeno con la mente, al passato. Non sarò ospite di parenti come quei signori di antica memoria: no, mi accoglierà – come ogni anno - la mia “casarella” avita nel paese nativo: la mia villa otium. Quei “signori” di una volta – forse per nostra fortuna – non esistono più. Sono diventati dei borghesi piccoli piccoli, che vanno altrove o ritornano nei luoghi delle origini, come il sottoscritto. “Fate le vostre vacanze in Italia, scoprite le bellezze che ancora non conoscete o tornate a visitare quelle che già avete visitato”: è questo l’appello lanciato delle autorità istituzionali, in questi tempi di coronavirus. Io da sempre le faccio in Italia, le vacanze. E prima di ritornare nel mio paesello, amo trascorrere qualche giorno in una delle tante meravigliose località del bel Paese. Quest’anno, per colpa del covid 19, per la prima volta, mi accontenterò solo del Cilento. E non è poco! Il mio amato Cilento, il cui nome – al solo pronunziarlo – faceva battere il cuore all’eminente studioso e viaggiatore pugliese Cosimo De Giorgi che l’aveva percorso verso la fine dell’800. Fino a qualche anno fa era meta di pochi estimatori alla ricerca di silenzio, di mare pulito e di natura incontaminata, buen retiro per chi come me è nato da quelle parti. Una terra quasi selvaggia. Il turismo di massa è riuscito in poco tempo a cambiarlo, a standardizzarlo, a fargli perdere quell’identità che lo caratterizzava. Sia ben chiaro: io non voglio ritornare ai tempi degli antichi villeggianti, i soli che potevano permettersi una vacanza. Anche perché non credo che loro avessero un migliore rapporto con l’ambiente o fossero più civili di noi. Erano solo di meno e forse più austeri. Dobbiamo, quindi, ripensare il modo di fruire la vacanza e di godere i luoghi in cui andiamo. Non so come, ma dobbiamo far si che qualità e quantità possano in qualche maniera armonizzarsi, e non essere sempre inversamente proporzionali tra di loro. Se non vogliamo distruggere il valore di un posto, facendo danni irreparabili prima ancora che alla natura e alla bellezza, a noi stessi.

mercoledì 15 luglio 2020

Le piccole cose che amo di te



Con il passare degli anni cambiano anche le parole per esprimere l’amore. Con l’infatuazione ti lasci affascinare perfino dai difetti del partner, dai suoi capricci e da certi suoi strani comportamenti, tranne poi scoprire – quando il fuoco della passione è ormai spento e il tempo ha lasciato i suoi segni – che gli stessi gesti e le stesse imperfezioni che prima ti ammaliavano, ora ti procurano solo fastidio:

Le piccole cose
che amo di te
quel tuo sorriso
un po’ lontano
il gesto lento della mano
con cui mi accarezzi i capelli
e dici: vorrei
averli anch’io così belli
e io dico: caro
sei un po’ matto
e a letto svegliarsi
col tuo respiro vicino
e sul comodino
il giornale della sera
la tua caffettiera
che canta, in cucina
l’odore di pipa
che fumi la mattina
il tuo profumo
un po’ blalsé
il tuo buffo gilet
le piccole cose
che amo di te
Quel tuo sorriso
strano
il gesto continuo della mano
con cui mi tocchi i capelli
e ripeti: vorrei
averli anch’io così belli
e io dico: caro
me l’hai già detto
e a letto sveglia
sentendo il tuo respiro
un po’ affannato
e sul comodino
il bicarbonato
la tua caffettiera
che sibila in cucina
l’odore di pipa
anche la mattina
il tuo profumo
un po’ demodé
le piccole cose
che amo di te
Quel tuo sorriso beota
la mania idiota
di tirarmi i capelli
e dici: vorrei
averli anch’io così belli
e ti dico: cretino,
comprati un parrucchino!
E a letto stare sveglia
e sentirti russare
e sul comodino
un tuo calzino
e la tua caffettiera
che é esplosa
finalmente, in cucina!
La pipa che impesta
fin dalla mattina
il tuo profumo
di scimpanzé
quell’orrendo gilet
le piccole cose
che amo di te.
Stefano Benni

mercoledì 8 luglio 2020

Lo scrittore fantasma



Credo che per scrivere un libro nel terzo millennio – e mi riferisco soprattutto a chi si azzarda a pubblicare la sua prima opera letteraria - occorra avere davvero tantissimo coraggio. O tanta superbia, a seconda dei punti di vista. Basta entrare in una qualsiasi libreria, anche la più piccola, per accorgersi che il mondo non ha bisogno di un nuovo libro.

Tutto ciò che c’era di importante da scrivere, secondo me, è stato già scritto. Mi riferisco, naturalmente, alla buona letteratura e non alla spazzatura che oggi imperversa; e penso al libro come spazio della fantasia e non come semplice prodotto di mercato. Chi ha un po’ di dimestichezza con i libri sa dove cercare e dove attingere, perché esistono buone riserve, grazie ai grandi autori del passato che hanno lasciato opere indispensabili per la nostra formazione culturale. Con questo non voglio dire che non si debba più scrivere o che non ci siano giovani talenti in grado di fare ancora buona letteratura: me ne guardo bene da una simile affermazione. Però quello che vedo in giro mi lascia molto perplesso e mi induce a fare questa riflessione. Mi domando, quindi, perché mai dovremmo leggere un romanzo di Giovanni Floris, che sarà pure un bravo giornalista, ma non credo abbia la stoffa dello scrittore; Gigi Buffon è senz’altro uno dei più grandi portieri della storia del calcio, ma non si dovrebbe avventurare in campi che non gli appartengono; Matteo Renzi continui pure a fare politica – se proprio non sa che fare - ma lasci perdere la carta stampata. L’elenco dei nuovi scrittori sarebbe lunghissimo, ma mi fermo qui. Se dovessi dare un consiglio a questi personaggi famosi, direi loro: cercate di fare bene il vostro mestiere, provate a leggere qualche libro in più e risparmiateci le vostre opere letterarie. Oggi fanno letteratura - sto usando una parola grossa – soprattutto i volti noti della televisione e della carta stampata i quali - se non fossero tali - venderebbero tanti libri quanti ne potrebbe vendere il mio amico macellaio, qualora decidesse di abbandonare i quarti di bue per darsi alla scrittura. E lo dico senza nulla togliere a chi mi fornisce dell’ottima carne, perché  sono sicuro che lui ha più talento dei tanti personaggi noti, le cui facce sorridenti spuntano dalla quarta di copertina dei loro “capolavori” in mostra nelle vetrine delle librerie.

E’ sempre attuale quel motto di Leopardi che recita: “è più facile ad un libro mediocre d’acquistare grido per virtù di una fama già ottenuta dall’autore, che ad un autore di venire in reputazione per mezzo di un libro eccellente”. Se questo assunto era già valido ai tempi del poeta di Recanati, figuriamoci oggi che viviamo perennemente in una sorta di società dello spettacolo: se non sei un volto conosciuto, anche se hai ottime qualità, vieni inevitabilmente tagliato fuori dal mercato editoriale perché gli editori, quelli importanti, hanno ormai abdicato alle loro responsabilità culturali. Il personaggio famoso fa vendere, e chissenefrega della qualità dei libri e della scrittura. Ma va detto che se attualmente prolificano tanti scribacchini – alcuni dei quali non sarebbero capaci di scrivere neanche la lista della spesa - è perché esiste sul mercato una figura molto ricercata a cui si rivolgono questi geni con velleità letterarie: è lo “scrittore fantasma”. Si tratta di un autore che sa usare molto bene la penna; costui non scrive per sé ma per gli altri e cioè per quelli già famosi e per le grandi personalità del mondo dello spettacolo e della televisione. Tra questi spicca un talentuoso e scaltro scrittore inglese, tal Andrew Crofts, il quale ha capito molto bene il sistema ed ha scoperto il modo per fare un po’ di soldi scrivendo libri per i suoi clienti più importanti e popolari. E’ un perfetto sconosciuto questo Crofts, il suo nome infatti non appare mai in copertina. Ha pubblicato, in quarant’anni di carriera, oltre ottanta libri molti dei quali hanno scalato le classifiche di vendita inglesi, con decine di milioni di copie vendute. Viene contattato da editori, agenti letterari, da vip e romanzieri, anche sconosciuti (un migliaio di richieste annuali): e lui - attraverso la storia che gli viene commissionata e guardando il mondo con gli occhi di un altro, ossia “l’autore” del libro – scrive senza sosta oscurando il suo nome. Elabora in media tre libri all’anno e al suo cliente chiede “soltanto” 130.000 euro per ogni libro pubblicato. Vi consiglio, però, di non provarci perché se non siete delle star, se non avete partecipato neanche a un “grande fratello” e non siete mai stati ospiti a “che tempo che fa”, rischierete di buttare al vento molti soldi, perché il libro – seppure fosse scritto dal re dei bestseller Andrew Crofts – lo comprerebbero solo i vostri familiari: quelli più stretti.