Quando il libro di Fausta
Cialente “Le quattro ragazze
Wieselberger” venne pubblicato – correva l’anno 1976 – il sottoscritto si
trovava per motivi di lavoro a Trieste, la città in cui è ambientato il romanzo.
La scrittrice, sebbene fosse nata a Cagliari, considerò sempre il capoluogo
giuliano come sua città elettiva in quanto la madre (Elsa Wieselberger) era appunto di origini
triestine. Ricordo che in città, quell’anno, si fece un gran parlare della sua
opera letteraria anche in considerazione del fatto che si aggiudicò il Premio
Strega. Allora non mi lasciai irretire dal successo del libro: l’ho comprato
(su una bancarella dell’usato) e l’ho letto solo in questi giorni, dopo 40
anni. E devo dire che – nonostante la Cialente faccia parte, purtroppo, di quel
nutrito elenco di autori dimenticati, le cui opere si possono trovare solo al
mercato dell’usato – il romanzo autobiografico conserva tutta la sua struggente
e poetica bellezza. Peccato che gli editori si ostinino – lo ripeto spesso - a
non prendere più in considerazione certe opere letterarie che, almeno nel loro
genere, restano ineguagliabili.
Protagoniste della storia sono
quattro sorelle (Alice, Alba, Adele ed Elsa, quest’ultima madre della
scrittrice, come ho già detto), appartenenti ad una facoltosa famiglia irredentista della Trieste di
fine Ottocento. Le vicende narrate, quelle private relative alla famiglia
Wieselberger e quelle sociali, si snodano
parallelamente nell’arco di circa 50 anni, fino agli anni immediatamente
successivi alla Seconda Guerra Mondiale, in un continuo incrociarsi e
sovrapporsi. Al centro della narrazione, vera protagonista del libro, è la ricca
borghesia cittadina, “la piccola
ignorante borghesia che noi eravamo” , con le sue contraddizioni e con le
sue indifferenze, con i suoi pregi e con i suoi difetti, in continua fuga dalle
sue responsabilità civili e sociali. Una borghesia che con somma alterigia
sentiva la propria superiorità nei confronti del resto della società italiana. La
voce narrante è quella di Fausta Cialente (prima bambina e poi donna adulta),
la quale attraverso i suoi nitidi e circostanziati ricordi, spesso velati di leggera
malinconia, ci parla delle gioie e delle avversità, dei successi e delle
disgrazie della sua famiglia, la cui esistenza si divideva tra la bella casa in
città adagiata su Ponterosso e la grande villa di campagna con giardino, orto e
vigna; ma ci parla anche dei suoi continui spostamenti da una città all’altra
dell’Italia che rompevano, di volta in volta, gli scarsi legami che riusciva a
stabilire nelle località in cui si stabiliva (il padre abruzzese, era un
ufficiale dell’esercito del Regno d’Italia “antimilitarista,
antimonarchico, antimeridionale certamente e forse antitaliano; in tutti i modi
antirredentista). Tutt’altra persona era invece la madre, la più giovane
delle sorelle Wieselberger, una donna dedita alla cultura, alla musica, alle
tradizioni familiari, che aveva ballato, una sera, con l’industriale e
commerciante di vernici Ettore Schmitz, non ancora diventato Italo Svevo. E
sullo sfondo delle vicende, la Trieste asburgica, con le sue architetture
settecentesche di stampo mitteleuropeo e con i suoi eleganti caffè storici, crocevia
di tantissime culture, avviata verso la sua lenta e inarrestabile decadenza che
coinciderà con il declino della famiglia Wieselberger. E poi la guerra,
presente nel libro con il suo orrore, con le sue devastazioni, con i suoi morti
(parole struggenti sono quelle dedicate al cugino e all’amato fratello, morti
appunto in guerra), quella guerra che “non
si poteva del resto eliminare dai nostri pensieri, come un’ombra livida seduta
al capezzale ci aspettava al risveglio e ci accompagnava dovunque, lo volessimo
o no”.
Le pagine finali del libro,
quando ormai della famiglia legata all’infanzia della scrittrice non rimaneva
più nessuno, se non la massa frusciante dei suoi ricordi quale vana
consolazione, sono di una rara, commovente bellezza. Pagine che da sole
basterebbero a giustificare la lettura di questo libro.