La famiglia, con il suo gravoso
carico di responsabilità e di bisogni, è da sempre al centro dell’attenzione e
del dibattito socio-culturale del nostro Paese. Come d’altronde è giusto che
sia, visto che rappresenta il nucleo sociale fondante di ogni nazione. Si fa poi
un gran parlare, sulla stampa e nelle discussioni televisive, del difficile
mestiere dei genitori e del ruolo che gli stessi occupano nell’attuale società.
Naturalmente si dà grande risalto anche all’educazione dei figli e al rapporto
genitori-figli che quasi sempre risulta conflittuale e contraddittorio.
Anche la letteratura si è spesso
misurata con queste tematiche che prendono spunto, il più delle volte, dalle
esperienze personali degli stessi autori. E proprio in tale contesto va inquadrato
il libro autobiografico della scrittrice piemontese Lalla Romano (morta a
Milano nel 2001), dal poetico titolo “Le parole tra noi leggere” tratto
da una poesia di Eugenio Montale. Con questo romanzo - che ho appena finito di
leggere, e devo dire che non mi ha entusiasmato più di tanto - la Romano
racconta ed esamina, soprattutto attraverso lettere e appunti di diario, il problematico
rapporto che ebbe con suo figlio, a partire dagli anni dell’infanzia e fino
alla sua piena maturità. Un legame molto difficile reso ancora più complesso dal
peculiare carattere del figlio: scontroso e insofferente, solitario e bastiancontrario,
contemplativo e libertario. Egli, secondo quanto racconta la scrittrice, aveva
fatto della sua camera una sorta di tana-laboratorio, simbolo e corazza del suo
isolamento e che aveva due grandi passioni: le armi e il materiale di recupero,
perché solo col vecchio si può fare del nuovo, cioè creare, e lui si sentiva un
artista, nonostante volesse fare il capostazione in un piccolo centro isolato.
Ma contro ogni sua volontà si ritrova, in seguito, a fare l’impiegato di banca,
proprio lui che aveva orrore della parola impiego, simbolo di mediocrità e di
sedentarietà. Il ritratto che ne viene fuori è quello di una persona dalle
forti contraddizioni, in contrasto permanente soprattutto con la madre (il
padre appare assente, perché vive in un’altra città per motivi di lavoro), che
aveva adottato “quella che fu poi sempre
la sua divisa: essere l’ultimo”. Ma questa sua aspirazione “non era un’accettazione di inferiorità,
bensì un’affermazione di singolarità”. Voleva essere l’ultimo perché non
poteva essere il primo. Come quel Jakob Von Gunten, il personaggio dell’omonimo
romanzo di Robert Walser, il quale non solo ambiva ad essere l’ultimo ma voleva
addirittura diventare uno zero assoluto. Chissà che non avesse letto il libro
dello scrittore svizzero, subendone l’influenza!
Le parole tra noi leggere, che diede molta notorietà alla Romano
anche a seguito del premio Strega che si aggiudicò nel 1969, evidenzia
soprattutto, con una prosa molto trasparente, il forte dissidio interiore
vissuto dalla scrittrice-madre la quale, se da una parte desidera veder
crescere il figlio indipendente e sicuro di sé, dall’altra appare quasi
tormentata dal suo inconfessato proposito di legarlo a se stessa per tutta la
vita. Lei si adopera con tutti i mezzi per conoscerlo e comprenderlo, si sforza
di seguirlo e sostenerlo, ma nonostante i suoi sforzi, si ha l’impressione che
le sfugga sempre, che non riesca mai a raggiungerlo.