lunedì 25 febbraio 2019

Il lavoro culturale



Non credo che nel panorama letterario attuale esista un personaggio paragonabile allo scrittore Luciano Bianciardi, per la sua radicale autonomia intellettuale, per il suo atteggiamento antiaccademico. Nato a Grosseto nel 1922 e morto a Milano a soli 49 anni, di idee anarchico-socialiste, anticonformista, Bianciardi può essere considerato uno dei più appassionati fustigatori dei mali della società dei consumi e della modernità. Tuttavia è un autore poco letto, ingiustamente dimenticato. Da acuto e critico osservatore del suo tempo, a distanza di oltre sessant’anni, racconta quel che siamo oggi. Penso che si avvicini molto al pensiero di Pasolini (suo coetaneo), e che la sua prosa, sferzante ed ironica, somigli a quella di un altro grande scrittore del nostro Novecento: Ennio Flaiano. Di Bianciardi hanno scritto che è stato il primo “arrabbiato” che si incontri nella letteratura italiana del dopoguerra ed anche uno  dei pochi scrittori italiani ad avere intuito in quale voragine stesse precipitando il Paese, frastornato dal cosiddetto boom economico. Nei suoi libri – in primis in quello più conosciuto, “La vita agra” - ritroviamo tutti quei temi che verranno poi ripresi dai giovani contestatori degli anni successivi allo sviluppo economico: l’alienazione dell’individuo nella società moderna, la solitudine delle folle metropolitane, l’inquinamento ambientale, la ripetitività del lavoro d’ufficio, l’omologazione del pensiero. Chissà oggi cosa avrebbe scritto sulla nostra attuale società di massa, prigioniera dei social network e delle sue tante deviazioni! Chissà cosa avrebbe pensato dell’intelligenza artificiale che avanza in sostituzione di quella umana! Oggi ci vorrebbe davvero un intellettuale alla Bianciardi, fedele a se stesso, colto e svincolato dalle consorterie accademiche, che facesse sentire la sua voce arrabbiata e tagliente sui tempi che viviamo. Ma non ne vedo molti in giro. I nostri “intellettuali” sono troppo impegnati a promuovere se stessi nei vari programmi televisivi.

Con “Il lavoro culturale” - il suo primo libro che è una sorta di breve romanzo-saggio, scritto nel 1957 – Bianciardi affronta, in chiave autobiografica e con sottile ironia, l’annosa questione dei rapporti tra la politica e la cultura, quest’ultima da sempre volano di crescita delle giovani generazioni. Le vicende narrate toccano quel particolare periodo storico che va dall’immediato dopoguerra fino agli anni cinquanta/sessanta. Gli anni in cui l’Italia cercava di riprendersi, da un punto di vista economico oltre che culturale, dai danni subiti nel corso del secondo conflitto mondiale.  Protagonista e voce narrante del libro è un giovane antifascista (Luciano, alter ego dello scrittore) che vive in una cittadina della toscana (Grosseto), il quale, insieme al fratello Marcello (che incarna l’intellettuale candido e disincantato), è deciso a rompere con la tradizione e con la “sterile erudizione” del passato ed a rifare tutto daccapo. Una sorta di rivoluzione culturale che sarebbe dovuta partire proprio dalla provincia, “la nostra provincia”, come la chiama il protagonista. Ma la cultura non doveva essere una cosa astratta e lontana, scollegata dal contesto, ma vicina agli uomini, perché “non ha senso se non ci aiuta a capire gli altri, a soccorrere gli altri, ad evitare il male”.  “Uno scrittore – dice il protagonista del libro - dovrebbe vivere in provincia…perché la provincia è un campo di osservazione di prim’ordine. I fenomeni, sociali, umani e di costume, che altrove sono dispersi, lontani, spesso alterati, indecifrabili, qui li hai sottomano, compatti, vicini, esatti, reali”.

Con uno stile ironico e graffiante, Bianciardi disegna uno spaccato di quel miscuglio sociale e culturale in cui si dibatteva la sua cittadina di provincia, metafora di un mondo molto più vasto, agli albori della modernizzazione e del miracolo economico. La sua satira si scaglia contro l’ottusità dei partiti e la limitatezza dei burocrati della Capitale, i quali, interpellati per avere un sostegno alle iniziative culturali intraprese, finivano sempre per soffocarle annullando gli sforzi compiuti. E per il nostro personaggio non restava che la rassegnazione e, quindi, la forzata integrazione in un sistema chiuso e gretto di vita provinciale, che non permetteva alcun miglioramento. Era il fallimento di un ideale, veniva meno quel sogno, da sempre coltivato dai giovani oppositori dello status quo, di cambiare con la cultura un intero paese.  Un libro che, viste le condizioni socio-culturali in cui si dibatte la nostra società, appare ancora quanto mai attuale.

lunedì 18 febbraio 2019

Il fascino del treno: da Roma ad Agropoli



Il treno è una visione laterale della vita; non fai in tempo a vederla ed è già passata.
(Paolo Rumiz)

Mi servo abitualmente del treno per i miei viaggi più lunghi: è il mezzo di trasporto a me più congeniale. Meglio della macchina: stando alla guida, mi snerva e non mi permette di fare altro; meglio del pullman: lo trovo troppo angusto; meglio dell’aereo, su cui non ho mai messo piede: al solo pensiero che un simile mostro, con un carico di diverse centinaia di persone, possa volare a diecimila metri di altezza ad una velocità di ottocento Kmh, mi provoca angoscia e inquietudine.

Allora, cosa c’è di più bello, di più romantico, di più affascinante di un treno, che procede nel paesaggio senza inquinare, mentre noi seduti comodamente in uno scompartimento facciamo vagabondare i nostri pensieri e la nostra immaginazione. E penso che nessun altro mezzo di trasporto, meglio del treno, sia così adeguato a quel dialogo interiore che intraprendiamo con noi stessi, proprio nel momento in cui saliamo a bordo; dialogo che trae sostegno ed impulso anche dal paesaggio che scorre davanti ai nostri occhi, come lo scorrere di una sequenza di diapositive. Il treno, con quel suo sferragliare cadenzato sui binari, ha la straordinaria capacità di elevarci in uno stato di magica suggestione, che ci allontana dai nostri affanni quotidiani e ci indirizza verso riflessioni ed immagini che non potrebbero mai affiorare in circostanze diverse. Soli, con i nostri pensieri, con un libro da leggere e magari con qualche genere di conforto alimentare da utilizzare all’occorrenza, iniziamo il viaggio consapevoli di avere davanti a noi un lungo spazio vuoto da riempire a nostro piacimento, senza che nessuno possa disturbarci. Certo, dobbiamo fare i conti con i nostri compagni di viaggio i quali non sempre sanno condividere ed apprezzare quella dimensione intimistica che sembra ormai sparita dalla nostra vita: il silenzio. Lo ammetto: io sul treno difficilmente amo attaccare bottone con i miei dirimpettai. Anzi, se vedo che lo scompartimento in cui mi trovo è troppo “rumoroso” per i miei gusti - potendolo fare - cambio immediatamente posto. So di infrangere quell’antica convinzione secondo la quale il treno è un mezzo che favorisce la socializzazione tra gli individui. E’ pur vero, però, che non sempre si ha la fortuna di incontrare persone stimolanti con cui poter fare una piacevole conversazione. E allora, meglio il silenzio: per poter pensare osservando il panorama, per poter leggere o dormire, per poter lavorare al computer o guardare un film. Che il treno abbia un fascino particolare è innegabile: quanta letteratura corre sui binari! Quante immagini di treni e di stazioni sono entrate nell’arte! E quanto cinema si è servito del treno per la ripresa dei suoi film.

Facevo queste riflessioni mentre mi trovavo su un treno Intercity di Trenitalia - uno dei pochi ancora in circolazione, non soppresso in favore dell’alta velocità – in partenza dalla stazione di Roma Termini alle ore 9.26. Mi stavo recando nel Cilento, nel mio paese d’origine: l’ennesimo “viaggio non viaggio” che faccio su questa tratta con una cadenza quasi mensile, e che si ripete ormai da tantissimi anni sempre con rinnovato piacere. Sono miei compagni di viaggio, nello scompartimento: una ragazza che non alzerà mai gli occhi dal suo smartphone ultimo modello; poi un signore sulla cinquantina che, dopo aver acceso il suo telefonino - come un accanito fumatore accende la sua sigaretta – esordisce con la sua prima telefonata ad alta voce, facendo sapere che è arrivato in stazione e sta già sul treno; e infine due turisti giapponesi che parlano piano una lingua a me incomprensibile, i quali iniziano immediatamente a “selfarsi”. Partiamo. Il treno inizia la sua corsa parallela alle arcate di un antico acquedotto romano, prima di insinuarsi nella splendida campagna romana tappezzata di vigneti. E’ quì che nasce l’ottimo vino dei castelli romani. La vista è piacevole e rilassante ed invita alla meditazione. Alla lettura. In lontananza si scorge un gregge di pecore: fino a quando vedremo ancora questi docili animali, si potrà ben sperare sulle sorti di questo nostro pianeta, sempre  più oltraggiato.  Devo dire che pur percorrendo questa linea da tanti anni, mi capita ancora di notare – per la prima volta – nuovi scorci panoramici. Come quella villetta isolata sulle pendici di un monte, simile ad un eremo, che mi fa pensare al suo proprietario il quale, probabilmente, non è per niente attratto dalla vicinanza degli uomini. Arriviamo a Latina: dalla stazione è ben visibile,  su uno sperone roccioso, il suggestivo borgo medioevale di Sermoneta, incastonato tra i monti Lepini ammantati di verde, con il suo maestoso castello Caetani. Panorama suggestivo, ma non interessa granché ai miei compagni di viaggio che continuano a smanettare sui loro cellulari. Solo i turisti giapponesi – che ogni tanto mi guardano sorridenti e felici - filmano tutto attraverso il finestrino. Di tanto in tanto interrompo la mia lettura e mi lascio conquistare  dal mondo esterno che mi arriva dal finestrino e che cambia in continuazione. Da questa comoda prospettiva posso divagare e riflettere su brevi spaccati di vita quotidiana che mi scorrono davanti, e spariscono: delle donne che raccolgono verdura in un campo; un contadino che lavora con il suo trattore e al passaggio del treno alza la mano in segno di saluto; il traffico lungo una strada che si snoda affiancata ai binari; un ciclista che percorre un sentiero di campagna; un uomo che zappetta nell’orto; uno spicchio di terreno sottratto ad una boscaglia e coltivato a olivi; e poi case isolate, ponti, piccoli borghi arroccati sui monti, ancora vigneti e uliveti, passaggi a livello dismessi lungo la linea, piccole stazioni… tutto si alterna e sembra sfuggire allo sguardo. Ma il treno si muove con la velocità sufficiente ad evitare la mia irritazione e con la lentezza adeguata per consentirmi di riconoscere e catturare ogni cosa, ogni particolare di vita che lascio alle spalle.
Attraversiamo l’agro Pontino, un tempo regno delle paludi bonificato dal regime fascista, con le stazioni di Priverno, Fondi-Sperlonga e Minturno. L’arrivo nella stazione di Formia l’apprendo dall’immancabile telefonata del signore cinquantenne: mi tiene aggiornato, è come ascoltare “tutto il viaggio minuto per minuto”. Intanto sbircio sullo smartphone della ragazza che mi siede accanto: è impegnata in una sorta di battaglia navale dove delle figure mostruose vengono abbattute a cannonate (almeno così pare). Intanto i turisti giapponesi, sempre sorridenti e felici, continuano a filmare il paesaggio esterno. Si, perché sulla nostra destra si può ora ammirare lo splendido Golfo di Gaeta con l’omonima cittadina adagiata sul mare. Quella vista mi riporta alla vacanza fatta la scorsa estate proprio a Gaeta, sulla bella spiaggia di Serapo. Dopo circa un’ora di viaggio, la sagoma del Vesuvio che si staglia dinanzi ai nostri occhi ci fa capire che stiamo per arrivare a Napoli. La comodità del treno, rispetto agli altri mezzi di trasporto, è che arriva sempre nel centro cittadino. A Napoli c’è tempo per un caffè e una sfogliatella. Intanto la ragazza, sempre china sullo smartphone è scesa, come pure i turisti giapponesi, sempre sorridenti. Ripartiamo. Il signore cinquantenne fa l’ennesima telefonata per avvertire (la moglie?) che il treno è in perfetto orario. Mi tranquillizzo. Arriviamo a Salerno in poco più di mezz’ora, dopo aver percorso la galleria di Santa Lucia, che da Nocera sbuca proprio in stazione dopo oltre dieci chilometri: si intravedono scorci del suo bellissimo lungomare. Riprendiamo la corsa verso Battipaglia percorrendo la piana del fiume Sele - delimitata a nord dalle propaggini dei monti Picentini - costellata di serre sotto le quali si coltivano pomodori, zucchine, peperoni e altri ortaggi. Superiamo il fiume Sele attraverso un ponte di ferro (inaugurato sul finire dell’800), nei pressi di Ponte Barizzo e ci dirigiamo verso Paestum, l’antica e potente città della Magna Grecia, racchiusa tra le sue ciclopiche mura di travertino. Non lontano dalla stazione si intravedono i suoi famosi templi dedicati a Nettuno, Hera e Cerere. Riaffiorano in me lontane reminiscenze scolastiche. Guardando a sinistra della stazione, si può scorgere la sagoma dell’antica basilica della Madonna del Granato che sorge sul promontorio del monte Calpazio, dalla cui vetta si lanciano gli appassionati di parapendio. Bastano soli pochi minuti per arrivare ad Agropoli - una delle perle del Cilento - che si rivela in anticipo alla nostra vista con il suo mare cristallino e le sue ampie spiagge di sabbia fine che si distendono fin sul lungomare di San Marco. E’ la mia stazione di arrivo che mi fa rientrare - dopo circa 3 ore e trenta minuti di incantamento ferroviario e fuga dalla realtà - nei miei consueti abiti mentali. Raggiungo in macchina, in dieci minuti circa, il mio paesello che sta su in collina, “disteso come un vecchio addormentato”. Come recitava una vecchia canzone del passato.

sabato 16 febbraio 2019

Un nuovo museo a Roma: Palazzo Merulana



Quando apre un nuovo museo o spazio espositivo - in una grande città come in un piccolo paese - chi ama l’arte non può che rallegrarsene. E ciò anche se l’evento culturale si verifica in una città come Roma dove l’arte è di casa e i luoghi dedicati allo spirito certamente non mancano.

Palazzo Merulana, questo è il nome del nuovo spazio museale di pittura e scultura del Novecento italiano, inaugurato di recente nella Capitale nella via omonima. Sono andato a visitarlo, incuriosito dal post che avevo letto sul blog di Alfonso Cernelli, e devo dire che sono rimasto molto soddisfatto da questa nuova proposta culturale. Non aggiungo altro: basta cliccare sul link sopra indicato per avere notizie più dettagliate.

martedì 12 febbraio 2019

L'educazione sentimentale: un libro fuori dal tempo



“Ci si rifugia nella mediocrità quando si dispera della bellezza che abbiamo sognato”

Il nome di Gustave Flaubert è legato soprattutto a quel suo celebre romanzo che si intitola “Madame Bovary”, la cui protagonista è destinata a risiedere per sempre nell’immaginario collettivo. E sappiamo che proprio dal quel romanzo è nato il termine “bovarismo”, che sta ad indicare insoddisfazione e voglia di evadere dalla monotonia della vita di provincia. Ma il grande scrittore francese è anche l’autore di un altro importante romanzo, “L’educazione sentimentale”. E se nel primo e più famoso libro aveva evidenziato il destino sentimentale di un personaggio, Madame Bovary, in questo suo secondo romanzo mette in luce le sorti di un’intera società, quella della borghesia francese del suo tempo, sullo sfondo storico che va dai moti rivoluzionari del 1848 - che misero fine alla monarchia di Luigi Filippo - fino all’instaurazione della repubblica.

Ma Flaubert non poteva astenersi dal raccontare anche il sentimento amoroso, seppure visto da una diversa prospettiva. Ed è il racconto di un grande amore che, però, non arriva a nessuna conclusione pratica, una sorta di amore platonico, che si consuma senza che avvenga mai una reale “consumazione” tra i due innamorati: Madame Arnoux (una donna sposata ad un ricco imprenditore) e Fréderic (un giovane studente universitario), che finirà, poi, per sposare un’altra donna. La vicenda narrata – e qui subentra la novità di questo libro di oltre quattrocento pagine – non ha una vera e propria trama, una sua linearità che corre lungo determinati binari: è un romanzo “non romanzato”. Flaubert preferisce raccontare il tran tran quotidiano fatto di piccoli imprevisti, di episodi secondari che a prima vista appaiono senza alcuna importanza, sconnessi gli uni con gli altri, predilige quei passaggi che non danno molti sussulti emozionali. I tanti personaggi che costellano il romanzo appaiono statici, non supportati da una storia personale che si sviluppa nel corso della narrazione. Essi si incontrano, a volte senza motivi apparenti, per perdersi immediatamente e poi magari si ritrovano in altre situazioni, in altri ambiti, in altre faccende affaccendati. Anche la descrizione di questi avvenimenti segue una sua incoerenza spazio/temporale, vale a dire che l’autore dedica magari poche righe ad un fatto che abbraccia un lungo periodo e tantissime pagine, invece, ad un’azione che si svolge realmente in poco tempo e che appare quasi insignificante rispetto ai fatti narrati. Questa tecnica descrittiva mi ricorda un po’ lo stile di Proust – anche se Flaubert non usa i lunghissimi periodi tanto cari al suo connazionale - il quale impiegava una trentina di pagine per descrivere la sua difficoltà di addormentarsi la sera.

Il tema dominante del romanzo, come dicevo prima, resta la grande passione amorosa, così sofferta ed inconcludente, tra Fréderic che “si aggirava nel suo desiderio come un carcerato nella cella” e madame Arnoux. L’amore carnale, tra questi due amanti cerebrali, non ha sbocchi concreti e rimane per sempre irrealizzato: e forse proprio questo lo rende bello e incancellabile. Come a voler dire che il vero grande amore, destinato a durare nel tempo, sia solo quello che non viene vissuto; quello che si nutre di sfrenatezze inconfessabili solo nell’immaginazione, dal momento che la vita inganna i sogni e non può assolutamente competere con loro. Intorno a questa vicenda lo scrittore francese ostenta la sua prosa, colta e raffinata, e ci delizia (o ci annoia, a seconda dei punti di vista) con le sue minuziose descrizioni dei luoghi, dei personaggi e dei costumi della borghesia parigina del suo tempo.

lunedì 4 febbraio 2019

Lo sguardo del cellulare



Siamo intrappolati nei nostri cellulari e non ce ne accorgiamo. O facciamo finta di non accorgercene. Lo smartphone è diventato lo strumento in cui ci rispecchiamo quotidianamente e con cui moltiplichiamo a dismisura il nostro insaziabile “io”, che ci rimanda ad una dimensione surreale, facendoci perdere i contatti con il presente e con la realtà che ci circonda. Assistiamo, oggi, a questo bisogno ossessivo di immortalare “l’attimo fuggente” di celebrità per trasmetterlo, poi, online affinché una moltitudine di persone possa rivederlo, alimentando, così, quell’egocentrismo che ci divora. Siamo diventati malati di visibilità; vogliamo stare nella notizia; vogliamo addirittura essere noi la notizia attraverso una foto, o meglio un video di pochi minuti che ci vede protagonisti. E allora, braccia sollevate a impugnare il nostro giocattolo preferito – lo smartphone - sguardo concentrato sul piccolo schermo e via: un video o una serie di clik…click…click. Tante foto da pubblicare su Instagram (ma guarda che bel gelato sto mangiando…e non vedi che meraviglia ‘sta torta…che bello quel cappellino…sorrisetti….smorfie…baci). E poi tanti selfie da condividere con i nostri “amici virtuali” sui social che ci danno visibilità e tanti “like”, segnali quest’ultimi che ci inebriano di felicità e di soddisfazione. Più like abbiamo e più ci sentiamo potenti. C’è sempre, in queste manifestazioni, un bisogno di rimarcare un principio irrinunciabile: “io c’ero”. Ad un funerale di un personaggio famoso ripreso dalla televisione: e allora un selfie con la bara è imperdibile e molto richiesto. In occasione di una tragedia naturale come un terremoto: non può mancare il solito selfie con le case distrutte alle nostre spalle. Al concerto di una star internazionale: e allora il video è d’obbligo, e chissenefrega se ci perdiamo le emozioni del momento, perché a noi interessa non guardare più dal vivo, con i nostri occhi, ma filmare il concerto e poi guardarlo a casa, dopo averlo mandato in rete. Mi è capitato di vedere un video con delle immagini raccapriccianti in cui delle persone, anziché mettersi in salvo di fronte alle onde gigantesche di uno tsunami (il video sta su internet), facevano di tutto per riprendere la scena, prima di essere definitivamente travolte dall’acqua. La scena, naturalmente, era stata ripresa da qualcuno che stava più in alto e si è salvato, con il suo prezioso filmato.

Ho l’impressione che non sappiamo più vivere la quotidianità con lo sguardo normale e consapevole rivolto verso le cose, verso i fatti che accadono e le persone che ci circondano, e che non sappiamo più guardare se non abbiamo tra le mani un supporto elettronico che faccia da filtro tra noi e la realtà. Mi è capitato di vedere degli adolescenti sulla metropolitana che comunicavano tra di loro con degli SMS: eppure stavano gli uni di fronte agli altri. Tempo fa sul treno un ragazzo, seduto di fronte a me, parlava con un suo amico che si trovava nella stessa carrozza ma in uno scompartimento più avanti.

Con l’avvento dei cellulari con fotocamera, soprattutto i giovani appaiono sempre di più affetti da bulimia fotografica acuta, che li induce a riprendere qualsiasi cosa si trovi nei loro paraggi, che si muova o stia ferma, che sia viva o sia morta. Le fotografie - che un tempo fissavano ricordi e memorie - oggi paradossalmente sembrano sostituire lo sguardo consapevole delle persone e  testimoniare non tanto curiosità e interesse nei confronti della cosa fotografata, quanto la rituale presenza fisica in un determinato luogo di chi impugna uno smartphone. E nel confondere il guardare con il possedere un’immagine attraverso un cellulare, si finisce per prestare sempre minore attenzione alla realtà circostante.