Non credo che nel panorama
letterario attuale esista un personaggio paragonabile allo scrittore Luciano
Bianciardi, per la sua radicale autonomia intellettuale, per il suo
atteggiamento antiaccademico. Nato a Grosseto nel 1922 e morto a Milano a soli
49 anni, di idee anarchico-socialiste, anticonformista, Bianciardi può essere
considerato uno dei più appassionati fustigatori dei mali della società dei
consumi e della modernità. Tuttavia è un autore poco letto, ingiustamente dimenticato.
Da acuto e critico osservatore del suo tempo, a distanza di oltre sessant’anni,
racconta quel che siamo oggi. Penso che si avvicini molto al pensiero di Pasolini
(suo coetaneo), e che la sua prosa, sferzante ed ironica, somigli a quella di
un altro grande scrittore del nostro Novecento: Ennio Flaiano. Di Bianciardi
hanno scritto che è stato il primo “arrabbiato” che si incontri nella
letteratura italiana del dopoguerra ed anche uno dei pochi scrittori italiani ad avere intuito
in quale voragine stesse precipitando il Paese, frastornato dal cosiddetto boom
economico. Nei suoi libri – in primis in quello più conosciuto, “La vita agra” - ritroviamo tutti quei
temi che verranno poi ripresi dai giovani contestatori degli anni successivi allo
sviluppo economico: l’alienazione dell’individuo nella società moderna, la
solitudine delle folle metropolitane, l’inquinamento ambientale, la
ripetitività del lavoro d’ufficio, l’omologazione del pensiero. Chissà oggi cosa
avrebbe scritto sulla nostra attuale società di massa, prigioniera dei social
network e delle sue tante deviazioni! Chissà cosa avrebbe pensato
dell’intelligenza artificiale che avanza in sostituzione di quella umana! Oggi
ci vorrebbe davvero un intellettuale alla Bianciardi, fedele a se stesso, colto
e svincolato dalle consorterie accademiche, che facesse sentire la sua voce
arrabbiata e tagliente sui tempi che viviamo. Ma non ne vedo molti in giro. I
nostri “intellettuali” sono troppo impegnati a promuovere se stessi nei vari
programmi televisivi.
Con “Il lavoro culturale” - il suo primo libro che è una sorta di breve
romanzo-saggio, scritto nel 1957 – Bianciardi affronta, in chiave autobiografica
e con sottile ironia, l’annosa questione dei rapporti tra la politica e la cultura,
quest’ultima da sempre volano di crescita delle giovani generazioni. Le vicende
narrate toccano quel particolare periodo storico che va dall’immediato
dopoguerra fino agli anni cinquanta/sessanta. Gli anni in cui l’Italia cercava di
riprendersi, da un punto di vista economico oltre che culturale, dai danni
subiti nel corso del secondo conflitto mondiale. Protagonista e voce narrante del libro è un
giovane antifascista (Luciano, alter ego dello scrittore) che vive in una
cittadina della toscana (Grosseto), il quale, insieme al fratello Marcello (che
incarna l’intellettuale candido e disincantato), è deciso a rompere con la
tradizione e con la “sterile erudizione” del passato ed a rifare tutto daccapo.
Una sorta di rivoluzione culturale che sarebbe dovuta partire proprio dalla
provincia, “la nostra provincia”, come la chiama il protagonista. Ma la cultura
non doveva essere una cosa astratta e lontana, scollegata dal contesto, ma
vicina agli uomini, perché “non ha senso
se non ci aiuta a capire gli altri, a soccorrere gli altri, ad evitare il male”.
“Uno
scrittore – dice il protagonista del libro - dovrebbe vivere in provincia…perché la provincia è un campo di
osservazione di prim’ordine. I fenomeni, sociali, umani e di costume, che
altrove sono dispersi, lontani, spesso alterati, indecifrabili, qui li hai
sottomano, compatti, vicini, esatti, reali”.
Con uno stile ironico e
graffiante, Bianciardi disegna uno spaccato di quel miscuglio sociale e
culturale in cui si dibatteva la sua cittadina di provincia, metafora di un
mondo molto più vasto, agli albori della modernizzazione e del miracolo
economico. La sua satira si scaglia contro l’ottusità dei partiti e la
limitatezza dei burocrati della Capitale, i quali, interpellati per avere un
sostegno alle iniziative culturali intraprese, finivano sempre per soffocarle
annullando gli sforzi compiuti. E per il nostro personaggio non restava che la
rassegnazione e, quindi, la forzata integrazione in un sistema chiuso e gretto
di vita provinciale, che non permetteva alcun miglioramento. Era il fallimento
di un ideale, veniva meno quel sogno, da sempre coltivato dai giovani
oppositori dello status quo, di
cambiare con la cultura un intero paese.
Un libro che, viste le condizioni socio-culturali in cui si dibatte la
nostra società, appare ancora quanto mai attuale.