Non possiedo cellulari. Non ne
ho mai avvertito la necessità. Né l’urgenza. Giustamente qualcuno potrebbe
dirmi: ma chissenefrega! Il mondo va avanti lo stesso. Qualcun altro potrebbe
domandarmi: ma come fai a vivere senza? Io potrei rispondere con un’altra
domanda: ma forse si viveva male, solo una ventina di anni fa (mica nel medioevo)
quando il telefonino ancora non esisteva? Comunque si osservino le cose, sono
consapevole di essere (almeno per gli altri) un soggetto strano in via di
estinzione, un po’ come lo sono i boscimani
del Botswana o i masai che vivono
sugli altopiani fra il Kenia e la Tanzania.
Siamo talmente avvinghiati ai
nostri oggetti tecnologici che se oggi, per assurdo, si verificasse una sorta
di black out digitale a livello planetario,
noi periremmo tutti in poco tempo. E quindi anche il sottoscritto che non si è
lasciato fagocitare da quel pozzo dei miracoli che è l’iPhone. Si salverebbero
solo loro, i boscimani e i masai i quali, non conoscendo facebook e non essendo schiavi della tecnologia – ma sapendo invece
accendere il fuoco senza fiammiferi e cacciare con arco e frecce - da popoli in
via di estinzione diventerebbero paradossalmente gli unici superstiti del
pianeta. Noi invece, da popolo super civilizzato, siamo arrivati al punto che senza
cellulare non sappiamo più campare. E’ una
protesi che indossiamo ogni mattina, appena svegli. E’ la droga del terzo
millennio: se ci viene a mancare, ci sentiamo perduti, indifesi, in balia di un
avverso destino.
“Senza telefono io sarei morto…”. Ricordate quel famoso spot
pubblicitario, di una trentina di anni fa, dove un condannato a morte in un
fortino della legione straniera – interpretato da un indimenticabile Massimo
Lopez – tiene in attesa il plotone di esecuzione aggrappandosi all’ultima
lunghissima telefonata? Ecco, se oggi mi guardo in giro mi viene in mente
proprio quell’immagine: sembriamo tanti condannati a morte che rinviano la
propria esecuzione rimanendo sempre connessi con un altrove.
Per
rendersi davvero conto di come siamo ridotti basta entrare, a qualsiasi ora, in
un treno della metropolitana di Roma, o di qualsiasi altra grande città. Lo
spettacolo che si presenta al nostro sguardo è a dir poco inquietante: ci sono
occhi solo per quella scatoletta che tutti impugnano come un salvavita. Non
credo che esista in natura una tale situazione in cui, contemporaneamente, una
moltitudine di persone apparentemente normali effettui la medesima operazione: cioè
guardare un piccolo monitor facendolo roteare su e giù con un solo dito, alla
spasmodica ricerca di un qualche cosa di indefinito. Se all’improvviso, quando
si aprono le porte del convoglio, entrasse qualcuno in costume adamitico oppure
un marziano, credo che nessuno se ne accorgerebbe. E credo che pure il marziano
rimarrebbe stupito nel vedere tutti quei volti chini simultaneamente su un oggetto
illuminato. Tanto da far pensare a chissà quali cose strabilianti. Ma chi
glielo direbbe, al marziano, che quei digitaldipendenti
stanno solo cazzeggiando? E che non
stanno facendo (la stragrande maggioranza) nulla di urgente e di importante?
Scrive Vittorino Andreoli nel
suo libro “La vita digitale” (Rizzoli Editore) “… ho paura che questa società non si domandi più nulla, ma chieda solo e
sempre tecnologia che vuol dire sollevarsi da compiti che prima l’uomo svolgeva
direttamente. Una tecnologia che lo rende sempre più inutile come corpo,
ridotto a semplici dita che digitano. Ho paura che non si domandi più nulla
poiché semplicemente non ha nemmeno la testa per pensare: la tecnologia la
svuota, modifica il suo modo di procedere, fino a sostituirla con una
macchinetta che saprà fare quello che serve per sopravvivere, e bene, ma non
per risolvere il tema del senso della vita e senza questa domanda finirebbe una
civiltà. Intendiamoci: l’uomo continuerà a vivere, ma in una civiltà
differente. L’uomo si ridurrà alla logica dei viventi non umani, regredendo e
passando alla fase dei nostri antenati primitivi. Saremo dei primitivi
tecnologizzati, ma primitivi”.