“Quella
che vedo e vado percorrendo è un’Italia ormai completamente stravolta,
sfigurata e priva di senso”
“La gamba ancora inferma, e
troppi libri nella valigia. Il bagaglio mi pesa, qualcuno dovrebbe portarmelo,
apparendo e sparendo al momento giusto. Prenderò treni, corriere, taxi; andrò a
piedi”. Questo l’incipit di “Un viaggio
in Italia”, intrapreso da Guido
Ceronetti oltre 30 anni fa (tra il 1981 e il 1983), su richiesta dell’Editore
Giulio Einaudi - che di recente ha ristampato il libro – il quale conosceva
molto bene lo stile pungente del suo conterraneo. Quello di Ceronetti, è un
vagabondaggio senza una meta precisa in lungo e in largo per l’Italia degli
anni ‘80, attraverso grandi città e piccoli paesi di provincia, alla scoperta
di piazze, monumenti, chiese, musei, con un’attenzione particolare a quei
luoghi marginali come i cimiteri e gli ospedali, le case di cura e le carceri, le
stazioni ferroviarie e i manicomi, i locali pubblici e le zone industriali. E’ soprattutto
il racconto di quell’Italia non riportata nelle guide turistiche, che non
appare nelle cartoline illustrate; quel Paese invisibile, poco conosciuto, che esiste
ma che a volte viene nascosto oppure visto diversamente da come si presenta. Questo
suo reportage è una sorta di diario sui generis affollato di pensieri,
riflessioni corrosive sui costumi degli italiani, epitaffi funerari intravisti
nei cimiteri, scritte rilevate sui muri dei luoghi visitati, sui manifesti
pubblicitari, nelle sale d’aspetto delle stazioni. E’ una lunga e graffiante
denuncia di brutture urbanistiche, di degrado e devastazioni ambientali
susseguenti al boom economico, ma è anche un elenco di volgarità
comportamentali che feriscono e indignano l’autore.
Ceronetti inizia questo suo originale viaggio da Trieste
“che non ha voglia di riprodursi, abortisce molto…e che di notte è un po’
Calcutta, sommersa dalla carta sporca” per colpa soprattutto degli Slavi. Vede,
poi, una Genova “tristemente sfigurata…e quella che stanno progettando sarà
bruttezza infinita”. Fino a Voltri “tutto è incubo industriale”. A Pavia trova
una città deserta e resta sbigottito nel conoscere il motivo che la svuota:
sono tutti davanti al televisore a guardare una partita di calcio della
nazionale. A Milano “niente è bello, eccetto il castello. Questo simbolo della
pura forza è l’unica immagine di gentilezza che la città conservi. Antenati
bruti, ma spirituali”. Assiste a comportamenti di “bestialità pura” in Piazza
della Scala dove una banda di giovinastri “tra gli sghignazzamenti” prende a
calci un povero piccione che non riesce a volare. Nota che a Firenze “il rumore
di motori è sempre più intollerabile, la sua escandescenza più persecutrice”. Ma
Firenze è anche “un luogo arcano, un’arcana conca spirituale”. Trova delizioso
il vecchio albergo Universo di Lucca, dove lui si può abbandonare “al piacere
di essere triste”. E, sempre a Lucca, visita il vecchio ospedale in abbandono
dove gli sarebbe piaciuto fare il medico “tra i busti e le crepe, avviluppato
nel grande lenzuolo della sofferenza umana, prescrivendo pochissimo, tisane e
qualche cardiotonico, aiutando a morire bene, con poco dolore, gli incurabili,
chiudendo finestroni, rincalzando coperte, leggendo poesie ai più
intelligenti”. Palladio, a Vicenza, non gli piace perché “privo di anima” e poi
“gli raggela il cuore”. Esplora poco il Mezzogiorno perché – scrive – “non mi
adattavo al suo vivere, lo scempio era già troppo avanti”. Però trova tempo,
modo e parole per farsi sentire e, forse…per farsi odiare. Scrive, infatti, che
Napoli “è uno dei peggiori luoghi d’Italia”. Ma, tanto per capirsi, lui non ce
l’ha solo col meridione d’Italia perché “tutta intera questa nazione non è più
che uno sbubbonare di tante Napoli, che se anche non sanguinano come Napoli, ne
riproducono sintomi, crolli, abbrutimento”. Visita Salerno, la cui bruttezza “è
deprimente”. Invece la bruttezza di Messina è “diffusa bene, come un cancro”. E
mentre a Catania “la gente usa le strade con inciviltà spaventosa, dove non c’è
di bello che quel che è in sfacelo”, i paese etnei “sono orribili aggressioni
di geometri deliranti, incrostazioni di rogna sulle pendici sublimi”. Annota,
nel suo peregrinare per la Sicilia, che il paesaggio dell’isola “velato dalla
pioggia è di un’irraggiungibile bellezza; perde con il sole”. Si consola con la
bellezza di Noto che è “accecante”. Aci Trezza, invece, è “un lebbrosario
edilizio, un luogo sciagurato”. E scappa a precipizio da Taormina, soffocata
dal turismo di massa “che non è la presenza di qualcosa, ma la privazione a
pagamento di tutto”. Nei pressi di Augusta resta affascinato da una visione
bucolica: “un solitario aratore affondava l’erpice tirato da due magnifici
cavalli bruni in un piccolo campo. Era certamente conscio – scrive Ceronetti –
di essere, col suo campetto e i suoi cavalli da Iliade, condannato a sparire,
eppure arava, con pazienza, con disprezzo,
con umiltà, con sapienza. Un Dio in incognito, un Dalai Lama in esilio, un
simbolo, o semplicemente un uomo forte e tranquillo. Non sapeva che quel suo
erpice è una spada, che il luogo dove arava ha il segreto nome di Termopili”. Visitando
Reggio Calabria, non riesce a sopportare la bruttezza delle sue strade “la via
centrale, interminabile, americana, non arriva in nessun posto”. E non poteva
mancare la visita ai Bronzi di Riace “che sono divorati da una folla
insaziabile” che non si stanca mai di ammirare quei glutei “sublimi” capaci di
ridestare “anche le nostre vecchie chiappe malaticce…Un’industria prospera su
di loro, se ne vendono le immagini a migliaia di migliaia”. E che dire, poi,
dei calabresi: a suo dire hanno tutti una faccia concentrata e “sembrano, anche
non pensando, una nazione di filosofi”.
Ha parole durissime nei
confronti del suo prossimo e delle persone che incontra durante il suo girovagare.
“Vorrei non avere più niente in comune con l’uomo – afferma - essere un puro
pensiero che ne ignora la miseria e la figura. Vendicarsi di lui col silenzio,
col rifiutargli la parola”. E ancora: “Sto su un bel tappeto di muschio, tra le
cicale, di qua e di là ho soltanto montagne. La felicità è di non vedere esseri
umani, una tregua al bisogno di servirsene e di servirli”. Sostiene che il
popolo italiano “dopo tanta storia, è più che mai rincretinito…non c’è un vero cittadino in queste città, come non c’è
un vero spirituale in questo paese
cristiano”. Se la prende anche con la cucina italiana “fatta di scarti, senza
più idee, misurata sul gusto indecente del turista-di-massa”. Pensate: lo dice
uno che è vegetariano. Per la cena di San Silvestro, si trova a Siena, mangia
nella camera d’albergo: “miglio e zucca, finocchio crudo, ricotta con
confetture di castagne, cavallucci di Siena, olive, poi tisana di eucalipto,
mentre fuori tutti addosso ai ravioli e alle povere bestie massacrate per
festeggiare, tra nuvolaglie di fumo e stappamenti di micidiali bottiglie”.
“Mio Dio – scrive Ceronetti,
evidentemente in un momento di sconforto - quant’è brutta l’Italia! Di bellezza
restano poche, assurde tracce: beato chi le ritrova e le segue, fuori di questo
mondo”.
Un libro cinico e appassionato
con cui riflettere, con pagine memorabili di sferzante ironia, scritto con
intelligenza da un grande intellettuale dei nostri tempi, che probabilmente fa
storcere il naso a tante persone. E’ una sorta di excursus nel variegato pensiero
dello scrittore piemontese, che ho imparato a conoscere attraverso la lettura di
qualche suo precedente libro; è, per finire, il solito controverso Ceronetti -
oggi novantenne - senza peli sulla lingua, sempre disorientante e catastrofico,
colto e divertente, pungente e arguto, che usa la penna come fosse una frusta.
Tanto da apparire irriverente, razzista, irritante, provocatorio, antipatico.