“ Non ci è permesso, ahimè, tornare nei
luoghi che abbiamo amato,
essi non sono più quelli della prima
volta, non saranno mai più quelli”
Raffaele La Capria - con i suoi 95 anni ben
portati – è certamente uno dei “grandi vecchi” della letteratura italiana. Un fine
intellettuale d’altri tempi, un gentiluomo colto e raffinato dall’eloquio
accattivante; con quella sua leggera e amabile inflessione partenopea non mi
stancherei mai di ascoltarlo. E’ uno di quei rari autori contemporanei che
scrive come parla e si legge con grande piacere.
Il suo ultimo libro, edito da Bompiani,
si intitola “Ultimi viaggi nell’Italia
perduta”. Un testo intriso di leggera
malinconia e di malcelato rimpianto, con cui rievoca quei “sacri siti”
dell’Italia Meridionale, quei luoghi mitici che più ha amato nel corso della
sua lunga vita e che “non sono più quelli della prima volta,
non saranno mai più quelli”, perché
assaliti e divorati da un esercito di turisti “mordi e fuggi”, nonché da selvaggi
interventi urbanistici che hanno snaturato e deturpato la loro identità. Erano
luoghi che sembravano immutabili, ma in questi ultimi anni “sono stati sovvertiti, sconquassati o addirittura cancellati dalla
faccia della terra”. In primis, ricorda la sua amata Capri, dove “gli imperatori Augusto e Tiberio, signori
del mondo, ne fecero il loro rifugio prediletto…dove la Natura e la Bellezza si
incontrano, dove il Mito e la Storia ci parlano ancora”. E poi Positano che
“era una bellezza assoluta e grandiosa,
prometeica, e al di fuori della portata dell’uomo”. Senza dimenticare
Ischia, che purtroppo ha perduto “la
bellezza primigenia delle spiagge…spiagge oggi banalizzate da una balneazione
avvilente”. E poi ancora Procida… la costiera amalfitana con i suoi borghi
a picco sul mare… la sua Napoli ormai scomparsa e le località più prestigiose
della Calabria e della Sicilia. La
Capria ne parla in prima persona con nostalgia e ci tiene a precisare che il
suo stato d’animo “non è più un
sentimento romantico abbellito dal ricordo ma un’arma della memoria contro la rassegnazione e il disincanto, e
serve a non lasciar andare le cose come vanno, cioè verso l’inesorabile
degrado” .
Belle, poi, sono le pagine che lo
scrittore partenopeo dedica alla sua “estate caprese”, che lui trascorreva in
quella piccola casa ai piedi del Monte Solaro, raggiungibile solo attraverso
150 ripidi scalini, dove lui poteva vivere per giorni e giorni come in un eremo
in perfetta solitudine. Dedica parole struggenti e indimenticabili a questi
luoghi dell’anima dove giunsero (Gran
Tour) tutti i grandi scrittori e artisti del secolo scorso i quali, poi - affascinati
dalla bellezza dei posti - scrissero le loro impressioni, creando una vera e
propria letteratura di viaggi. La Capria ricorda Gissing, il quale era convinto
che la modernità avrebbe distrutto l’autenticità dei luoghi, inaugurando l’era
“della somiglianza universale” e prosegue con Norman Douglas, Giovanni Comisso,
uno degli ultimi cantori dell’Italia che fu, Giuseppe Ungaretti, Curzio Malaparte,
Norman Lewis, Cesare Brandi, che considerava il Golfo di Napoli come “la porta
celeste dell’Italia” e che assisteva impotente “all’autodistruzione che
l’Italia va facendo di se stessa”. E poi Moravia, Elsa Morante, Guido Ceronetti,
uno degli ultimi viaggiatori dei tempi moderni.
Solo chi conserva il ricordo del passato
può fare il raffronto tra i luoghi di una volta e quelli di oggi, “nati dal rapporto sbagliato fra tradizione
e modernità, cultura e classe dirigente”. E’ proprio questo intreccio
perverso tra affarismo, politica e incultura misto a indifferenza, la causa
prima degli obbrobri edilizi che stanno sfigurando i luoghi più belli d’Italia,
cancellandone l’anima e l’incanto.Un libro godibile, che si legge tutto d’un fiato.