giovedì 24 febbraio 2022

La guerra

 



“Io non sono pacifista. Io sono contro la guerra. Se uno di noi, uno qualsiasi di noi esseri umani, sta in questo momento soffrendo come un cane, è malato o ha fame, è cosa che ci riguarda tutti. Ci deve riguardare tutti, perché ignorare la sofferenza di un uomo è sempre un atto di violenza, e tra i più vigliacchi”

 “La più aberrante in assoluto, diffusa e costante violazione dei diritti umani è la guerra, in tutte le sue forme. Cancellando il diritto di vivere, la guerra nega tutti i diritti umani.”

 “La guerra è un atto di terrorismo e il terrorismo è un atto di guerra: il denominatore è comune, l’uso della violenza.”

“Un mondo senza guerra è un’altra utopia che non possiamo attendere oltre a vedere trasformata in realtà. Dobbiamo convincere milioni di persone del fatto che abolire la guerra è una necessità urgente e un obiettivo realizzabile. Questo concetto deve penetrare in profondità nelle nostre coscienze, fino a che l’idea della guerra divenga un tabù e sia eliminata dalla storia dell’umanità.”

“Il ripudio della guerra è un valore sacro e uno dei pilastri portanti della nostra Repubblica. Ripudiare la guerra significa eliminarla dalle nostre coscienze, ma anche rifiutarsi di entrare in vecchi e nuovi conflitti, liberare il nostro Paese dalle servitù militari, uscire da ogni alleanza militare, ridurre drasticamente la produzione e l’esportazione di armi, ridurre i costi delle forze armate riconvertendoli in uso civile e sociale”.

 Gino Strada


giovedì 17 febbraio 2022

Quando la bellezza ti sconvolge

 


Riprendo un mio vecchio post

Oggi viviamo in un’epoca in cui la “bellezza”, intesa nel suo significato oggettivo, appare fortemente in crisi. Non riusciamo più a produrre cose belle, come succedeva nel passato. Si racconta che lo scrittore francese Stendhal, trovandosi nella Basilica di Santa Croce a Firenze, durante il suo grand tour effettuato in Italia nel 1817, fu colto da un malessere che lo costrinse ad uscire dalla chiesa: la straordinaria bellezza del luogo aveva scatenato nel suo animo una forte e inesprimibile emozione. Lo stesso Stendhal ebbe poi modo di scrivere:  Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere”. Da lì è nata la “sindrome di Stendhal”, secondo cui l’espressione del bello può provocare turbamenti profondi, veri e propri disturbi psico-fisici negli animi più sensibili.

 Esistono dei luoghi in cui la bellezza ti sovrasta. Ti fa sentire piccolo, inadeguato, ma felice di appartenere al genere umano che l’ha creata. Prendiamo ad esempio la Basilica di San Pietro: una delle opere architettoniche più grandiose “dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati”, come avrebbe detto Stendhal. Ebbene, ogni volta che metto piede in quel luogo sacro, resto sbalordito dalla sua magnificenza; un luogo grandioso e straordinario che mi eleva e mi opprime, nello stesso tempo. E’ come se la bellezza incontenibile lì racchiusa avesse la capacità di sconvolgermi e suscitare quasi un senso di disagio.

 Sempre mi domando, ogni qual volta mi trovo all’interno della Basilica di San Pietro, come sia possibile pregare in uno spazio così immenso e così ricco. Al cospetto di siffatta opera architettonica – realizzata dai tanti artisti che vi lavorarono a partire dal 1500 (da Bramante a Raffaello, da Sangallo a Michelangelo da Vasari a Della Porta, da Maderno a Bernini) - io penso che sia davvero difficile concentrarsi nella preghiera. La solennità dell’arte, la bellezza delle statue e delle colonne, la impareggiabile ricchezza delle decorazioni distolgono l’animo dal raccoglimento e dalla meditazione. Più che il frutto dell'ingegno umano, tanta bellezza appare come opera di un Dio. Forse di quello stesso Dio a cui si rivolge il credente, sebbene soggiogato dalla solennità del Baldacchino del Bernini o dalla grandiosità della cupola di Michelangelo. Un luogo che si presta molto bene alle tante manifestazioni del culto cattolico, come la proclamazione dei nuovi papi o le esequie di quelli defunti o come l’apertura e la chiusura dei giubilei. Un luogo spettacolare per eventi spettacolari. Ma se io devo pensare ad un povero cristiano che desidera avere un incontro profondo con Dio, non posso che immaginarlo in uno spazio più appartato, più silenzioso, meno appariscente. Un luogo che evochi la povertà piuttosto che la ricchezza, la contemplazione piuttosto che la meraviglia. La bellezza non deve sovrastare il pensiero di chi prega. La ricchezza del luogo non può interferire nel dialogo con Dio. Nel momento stesso in cui la bellezza ti domina, la preghiera svanisce.


lunedì 14 febbraio 2022

Gente di Dublino

 


Un classico della letteratura mi suscita sempre un rispettoso timore. Parlarne, a lettura ultimata, diventa un’impresa ardua perché ne hanno già parlato e scritto e discusso lettori illustri e autorevoli, del passato e del presente. Rischio sempre, quando mi avventuro in tali recensioni, di cadere nell’ovvio, in descrizioni banali e ripetitive che nulla aggiungono a quello che già è stato detto.

“Gente di Dublino” di James Joyce è uno di questi libri: ognuno ne dà una sua personale interpretazione, proprio perché si presta a diverse chiavi di lettura. Lo lessi la prima volta una trentina di anni fa, e devo dire che i quindici racconti di cui è composto - che apparentemente sembrano incompiuti, senza una vera trama, in cui pare non succeda mai nulla - mi lasciarono addosso un senso di disagio e di malinconia. L’ho riletto in questi giorni perché un buon libro, anche se in qualche maniera ti scombussola, non va mai dimenticato. Un classico della letteratura non è tenuto a comunicare solo grandi emozioni, ma deve anche coinvolgere e far pensare a certe cose, anche poco gradevoli, e farne rivivere altre. Bisogna ritornare, prima o poi, tra sue pagine. Con la sua simbologia, il grande libro deve inquietare. Deve ispirare riflessioni. E può anche far male. Non è come ammirare un bel panorama o una madonna di Raffaello.

Joyce, con i suoi 15 racconti brevi, getta uno sguardo, a volte spietato, sulle tre stagioni della vita dell’uomo: l’infanzia, l’adolescenza e la maturità. E lo fa attraverso la minuziosa descrizione di certe piccole meschinità esistenziali, di certi egoismi umani, di certi aspetti propri della società piccolo borghese della Dublino dei primi anni del ‘900, una società fatta di solitari, di “esclusi dal banchetto della vita”, di alienati, di inetti, di frustrati, di mezze figure che appaiono sprovviste di qualsiasi barlume di spiritualità. “Gente di Dublino” è una sorta di feroce radiografia di una città noiosa, triste, opprimente - così come appariva la capitale dell’Irlanda agli occhi di Joyce - con le sue brutture, con i suoi protagonisti che sembrano come bloccati nelle loro aspirazioni e delusi nelle loro ambizioni. Lampi esistenziali di un mondo, i cui personaggi conducono una vita monotona e vuota, sempre in bilico tra il tragico e il comico, tra la vita e la morte, senza speranza e senza futuro. L’immagine della morte ritorna spesso in “Gente di Dublino”, un libro velato di pessimismo e malinconia dove i rancori, i sensi di colpa, i rimpianti dei suoi protagonisti sembrano avere il sopravvento.

Il racconto che più mi ha colpito, per la sua struggente malinconia, si intitola “Un caso pietoso”. E’ la storia del signor James Duffy, cassiere di una banca: “la sua faccia – scrive Joyce – aveva lo stesso colore bruno scuro delle strade di Dublino”. Questo oscuro impiegato - che un po' ricorda lo stereotipo creato da Italo Svevo, quel personaggio inetto che si sentiva inadatto a vivere e relazionarsi con gli altri (d’altronde lo scrittore triestino era grande amico di Joyce) – era un uomo solitario, non aveva né compagni né amici, non professava nessun credo e conduceva la sua vita senza avere alcun rapporto con il prossimo. Arrivava tutte le mattine in banca con il tram, a mezzogiorno faceva uno spuntino nel solito bar e cenava tutte le sere in una trattoria vicino casa, dove “si sentiva al riparo dalla compagnia dei giovanotti del bel mondo di Dublino”. Passava le sue serate al pianoforte, o a leggere un libro o passeggiando da solo nella periferia della città e, qualche volta, la sua passione per Mozart lo portava all’opera o al concerto. La sua vita scorreva via senza particolari scosse “come un racconto senza avventure”. Ma un bel giorno il nostro eroe incontra una signora, sposata, e dopo un po' la sua compagnia diventa per lui “quello che un clima caldo è per una pianta esotica”: si incontrano, passeggiano, lui intreccia i propri pensieri con quelli di lei, le presta dei libri, la arricchisce di idee, divide con lei la propria vita intellettuale. Insomma, gode della sua compagnia. Ma lei finisce per innamorarsi di lui, rovinando tutto. E lui che fa? La lascia definitivamente, per riprendere la sua solita vita sempre uguale. “L’amore tra un uomo e un altro uomo – aveva scritto su un foglio dopo il suo ultimo incontro con la signora – è impossibile perché non deve esserci rapporto sessuale, e l’amicizia tra un uomo e una donna è impossibile perché deve esserci rapporto sessuale”.

Erano passati quattro anni, quando una sera, mentre sta cenando da solo nella solita trattoria, legge su un giornale la notizia di una signora investita e uccisa alla stazione mentre tentava di attraversare i binari. Era lei: il solo essere umano che “gli aveva mostrato un po' d’amore e lui le aveva negato vita e felicità…”.  Esce fuori dal locale e inizia a vagare nel malinconico paesaggio della sera, “con il ritmo della locomotiva che gli rimbombava nelle orecchie”, mentre i suoi ricordi incominciano a fluire disordinatamente. Forse per la prima volta comprende di essere solo. E lo sarebbe stato “fino a quando sarebbe morto, avrebbe smesso di esistere, sarebbe diventato un ricordo, ammesso che ci fosse qualcuno a ricordarsi di lui”.



martedì 8 febbraio 2022

Chi sono?

 




Son forse un poeta?
No, certo.
Non scrive che una parola, ben strana,
la penna dell’anima mia:
« follìa ».
Son dunque un pittore?
Neanche.
Non ha che un colore
la tavolozza dell’anima mia:
« malinconìa ».
Un musico, allora?
Nemmeno.
Non c’è che una nota
nella tastiera dell’anima mia:
« nostalgìa ».
Son dunque… che cosa?
Io metto una lente
davanti al mio cuore
per farlo vedere alla gente.
Chi sono?
Il saltimbanco dell’anima mia.

Aldo Palazzeschi

venerdì 4 febbraio 2022

Nostalgia di chi parte e di chi resta

 


La nostalgia è un sentimento che mi appartiene; è quasi un mio tratto distintivo reso ancora più evidente dall’insopportabile pesantezza del presente. Mi rifugio nella nostalgia per non soccombere alle pericolose fantasticherie tecnologiche dei nostri tempi. Sia ben chiaro: non ho nessun desiderio di ritornare al passato, che certamente non è stato l’Eden sognato. Tuttavia - come scrive l’antropologo Vito Teti in un suo interessantissimo saggio che sto leggendo, dal titolo “Nostalgia” (con sottotitolo) “Antropologia di un sentimento del presente” – ogni nuova narrazione diventa più convincente e più sostenibile se non trascura e non svilisce quelle di epoche precedenti.

Con questo bel libro – che si colloca tra il saggio antropologico e il diario intimistico - Vito Teti prova a raccontare un’altra nostalgia, “altra” rispetto a quel confuso stato d’animo che lacera e imprigiona l’individuo, frenando e ostacolando ogni suo cambiamento. E lo fa attraverso riferimenti letterari, filosofici e psicoanalitici che identificano la nostalgia quale sentimento creativo e irrinunciabile dell’uomo. “Nata all’inizio come patologia delle persone che restano indietro – scrive Teti – la nostalgia mostra che forse la salvezza sarà possibile proprio guardandoci indietro, ascoltando quelli che sembravano essere rimasti indietro e che invece erano più avanti di altri per una possibile salvezza del pianeta. “Il peggio è indietro”, si dice nel mio mondo di origine, e ho sempre pensato che si intendesse nel passato; invece, quell’indietro significava avanti, e forse il peggio non sta dietro di noi, ma di fronte, in quel futuro che non sappiamo riconoscere e immaginare e che magari vorremmo evitare che accadesse”.

Si, sono un nostalgico, lo confesso: ma non tanto del tempo che fu o del luogo dell’infanzia perduto, quanto di un altro tempo che poteva essere e non è stato, o di un’altra età, di un’altra giovinezza, di un’altra vita forse mai vissute. Il mio modo di pensare e di guardare è nostalgico: mi rapporto sempre con un altrove indefinito o con il passato (la sacralità di certi valori…la spiritualità di un’esistenza a misura d’uomo), e vivo la modernità con una coscienza quasi sempre conflittuale; una modernità, questa, che suscita spaesamento e in cui non mi riconosco - almeno per come è diventata in alcuni contesti - che parla un altro linguaggio, che mi appare distante, dove le cose sembrano avere un ordine di importanza rivoltato. Insomma, la nostalgia come critica del presente. Anche se, passato e presente, modernità e tradizione dovrebbero essere legate da una stretta relazione “che non implica il desiderio di restaurare il passato – scrive Teti - ma che vale, invece, ad affermare un nuovo umanesimo, a impedire che l’uomo smarrisca la dimensione religiosa, la sacralità della vita, i legami inscindibili tra natura, terra, vita”.

Sono nostalgico, forse perché “ho perduto la vista familiare del campanile” del mio borgo natio – come ebbe a scrivere Ernesto De Martino – punto di riferimento che accomunava quelli della mia generazione, testimoni di un mondo che non c’è più, soppiantato da una realtà senza luoghi, senza memoria, uniforme e globalizzata. E mi riconosco nella nostalgia dell’antropologo Vito Teti: si, perché anche lui è un nostalgico. E vive questo suo sentimento con particolare orgoglio, prova anzi un certo piacere nell’essere percepito come tale. La nostalgia – egli dice – non è il sentimento degli anziani ma comincia da bambino, appartiene al suo vissuto fin da piccolo. Lui aveva nostalgia del padre emigrato in Canada, aveva nostalgia della casa dei nonni, dei suoi amici, degli odori, dei suoni, delle atmosfere del suo paese in Calabria, che si abituava a riconoscere fin dall’infanzia. E avrebbe voluto “prolungare all’infinito quello stato di benessere che giungeva da una confusa, misteriosa lontananza”. Era nostalgico di ciò che era stato e di ciò che doveva ancora venire, verso cui si distendeva con l’immaginazione. Esiste un modo diverso di guardare al passato: non per ricostituirlo ma per cercare di coglierne i saperi, le memorie e gli aspetti più autentici che potrebbero contribuire a generare nuove consapevolezze.

La nostalgia non è soltanto il sentimento di chi parte, ma anche di chi resta e assiste al crepuscolo del luogo in cui è nato ed alle sue inderogabili trasformazioni. “Beato te che sei andato via da qui”, mi diceva tempo fa un amico incontrato al paese. Lui, invece, era rimasto, non si era mai allontanato da quel posto, come quel personaggio di Pavese che incontriamo ne “La luna e i falò”. Però aveva nostalgia di un altrove mai visto – quel vecchio amico d’infanzia che invidiava la mia partenza dal paese – aveva nostalgia pur non essendo mai partito, pur non avendo mai perduto “la vista familiare del campanile”. L’ho ritrovato tra le righe di questo libro: “Egli è il melanconico abitatore di un mondo da cui non si è mosso, e il nostalgico sognatore di un mondo che non conosce”…Non si ceda alla retorica o all’enfasi, ma restare è la forma estrema del viaggiare…Restare è una diversa pratica dei luoghi e una diversa esperienza del tempo, una riconsiderazione dei ritmi e delle stagioni della vita…Restare significa mantenere il sentimento dei luoghi e camminare per costruire qui e ora un mondo nuovo anche a partire dalle rovine del vecchio… Restare significa vedere quanto è ancora vivo quello che abbiamo creduto morto e quanto sia essenziale quello che è stato scartato dalla modernità”.