Un classico della letteratura mi suscita sempre un rispettoso timore.
Parlarne, a lettura ultimata, diventa un’impresa ardua perché ne hanno già
parlato e scritto e discusso lettori illustri e autorevoli, del passato e
del presente. Rischio sempre, quando mi avventuro in tali recensioni, di cadere
nell’ovvio, in descrizioni banali e ripetitive che nulla aggiungono a quello
che già è stato detto.
“Gente di Dublino” di James Joyce è uno di questi libri: ognuno ne dà una sua personale interpretazione, proprio perché si presta a
diverse chiavi di lettura. Lo
lessi la prima volta una trentina di anni fa, e devo dire che i quindici
racconti di cui è composto - che apparentemente sembrano incompiuti, senza una
vera trama, in cui pare non succeda mai nulla - mi lasciarono addosso un senso
di disagio e di malinconia. L’ho riletto in questi giorni perché un buon libro,
anche se in qualche maniera ti scombussola, non va mai dimenticato. Un classico
della letteratura non è tenuto a comunicare solo grandi emozioni, ma deve anche
coinvolgere e far pensare a certe cose, anche poco gradevoli, e farne rivivere
altre. Bisogna ritornare, prima o poi, tra sue pagine. Con la sua simbologia,
il grande libro deve inquietare. Deve ispirare riflessioni. E può anche far male.
Non è come ammirare un bel panorama o una madonna di Raffaello.
Joyce, con i suoi 15 racconti brevi, getta uno sguardo, a volte spietato, sulle
tre stagioni della vita dell’uomo: l’infanzia, l’adolescenza e la maturità. E
lo fa attraverso la minuziosa descrizione di certe piccole meschinità
esistenziali, di certi egoismi umani, di certi aspetti propri della società
piccolo borghese della Dublino dei primi anni del ‘900, una società fatta di
solitari, di “esclusi dal banchetto della vita”, di alienati, di inetti,
di frustrati, di mezze figure che appaiono sprovviste di qualsiasi barlume di
spiritualità. “Gente di Dublino” è una sorta di feroce radiografia di
una città noiosa, triste, opprimente - così come appariva la capitale
dell’Irlanda agli occhi di Joyce - con le sue brutture, con i suoi protagonisti
che sembrano come bloccati nelle loro aspirazioni e delusi nelle loro ambizioni.
Lampi esistenziali di un mondo, i cui personaggi conducono una vita monotona e
vuota, sempre in bilico tra il tragico e il comico, tra la vita e la morte, senza
speranza e senza futuro. L’immagine della morte ritorna spesso in “Gente di
Dublino”, un libro velato di pessimismo e malinconia dove i rancori, i
sensi di colpa, i rimpianti dei suoi protagonisti sembrano avere il
sopravvento.
Il racconto che più mi ha colpito, per la sua struggente malinconia, si
intitola “Un caso pietoso”. E’ la storia del signor James Duffy,
cassiere di una banca: “la sua faccia – scrive Joyce – aveva lo
stesso colore bruno scuro delle strade di Dublino”. Questo oscuro impiegato
- che un po' ricorda lo stereotipo
creato da Italo Svevo, quel personaggio inetto che si sentiva inadatto a vivere
e relazionarsi con gli altri (d’altronde lo scrittore triestino era grande
amico di Joyce) – era un uomo solitario, non aveva né compagni né amici, non
professava nessun credo e conduceva la sua vita senza avere alcun rapporto con
il prossimo. Arrivava tutte le mattine in banca con il tram, a mezzogiorno
faceva uno spuntino nel solito bar e cenava tutte le sere in una trattoria
vicino casa, dove “si sentiva al riparo dalla compagnia dei giovanotti del
bel mondo di Dublino”. Passava le sue serate al pianoforte, o a leggere un
libro o passeggiando da solo nella periferia della città e, qualche volta, la
sua passione per Mozart lo portava all’opera o al concerto. La sua vita
scorreva via senza particolari scosse “come un racconto senza avventure”.
Ma un bel giorno il nostro eroe incontra una signora, sposata, e dopo un po' la
sua compagnia diventa per lui “quello che un clima caldo è per una pianta
esotica”: si incontrano, passeggiano, lui intreccia i propri pensieri con
quelli di lei, le presta dei libri, la arricchisce di idee, divide con lei
la propria vita intellettuale. Insomma, gode della sua compagnia. Ma lei finisce
per innamorarsi di lui, rovinando tutto. E lui che fa? La lascia definitivamente,
per riprendere la sua solita vita sempre uguale. “L’amore tra un uomo e un
altro uomo – aveva scritto su un foglio dopo il suo ultimo incontro con la
signora – è impossibile perché non deve esserci rapporto sessuale, e l’amicizia
tra un uomo e una donna è impossibile perché deve esserci rapporto sessuale”.
Erano
passati quattro anni, quando una sera, mentre sta cenando da solo nella
solita trattoria, legge su un giornale la notizia di una signora investita e uccisa alla stazione mentre tentava di attraversare i binari. Era
lei: il solo essere umano che “gli aveva mostrato un po' d’amore e lui le
aveva negato vita e felicità…”. Esce fuori dal locale e inizia a vagare nel malinconico paesaggio della sera, “con
il ritmo della locomotiva che gli rimbombava nelle orecchie”, mentre i suoi
ricordi incominciano a fluire disordinatamente. Forse per la prima volta comprende di essere solo. E lo sarebbe stato “fino a quando sarebbe morto, avrebbe
smesso di esistere, sarebbe diventato un ricordo, ammesso che ci fosse qualcuno
a ricordarsi di lui”.