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lunedì 30 maggio 2022

C'è chi non muore mai

 


Qualcuno ha detto che si comincia a morire nascendo. Eppure, ci sono alcuni predestinati che – vincendo la sfida con la morte – si sottraggono al destino dell’oblio vivendo per sempre nelle loro opere. 

Quando ci troviamo di fronte a un dipinto di Raffaello o Leonardo, o quando ascoltiamo una sinfonia di Mozart o leggiamo una poesia di Leopardi, davanti a noi abbiamo quattro artisti, quattro geni universali che non sono morti perché hanno trasferito la loro anima sulla tela… in un componimento musicale… nei versi di una poesia. E ci parlano! E fissando lo sguardo su quei dipinti, o lasciandoci cullare dalle note di quel brano musicale o emozionandoci leggendo quei versi, avvertiamo inesorabilmente la nostra fragilità, la nostra pochezza di esseri umani. E comprendiamo, invece, quanto essi siano ancora vivi dinanzi a noi, così come lo erano quando Raffaello e Leonardo provavano il pennello sulla tela, Mozart componeva una partitura per pianoforte, Leopardi passava la notte sveglio sulle sue “sudate carte”. Essi vivranno per l’eternità, noi, tutt’al più, arriveremo a cent’ anni, sperando di fare meno danni possibili su questa terra. In attesa dell’oblio eterno.


mercoledì 18 maggio 2022

Seduto fuori d'un caffè...

 


in Piazza della Maddalena a Roma – tra il Pantheon e Montecitorio – osservo la gente che passa e mi perdo in un mare di futili pensieri. Ricevo conforto dalla bellezza del posto che, pur trovandosi nel centro del flusso turistico, appare incredibilmente appartato. Devo dire che accanto alle tante piazze maestose e dispersive – come Piazza del Popolo o Piazza Navona - Roma offre anche spazi più piccoli, ma non per questo meno seducenti, dove fermarsi per una pausa è sempre un’occasione piacevole. E questa deliziosa piazzetta che mi accoglie, insinuata fra strette stradine pedonali che vi convergono, ne è la conferma. D'altronde, non c’è luogo nella Capitale - piccolo o grande che sia - in cui non ci si senta a proprio agio protetti nello spirito, dove lo sguardo non abbia bellezze a sufficienza su cui posarsi. 

Sembra una piazzetta di paese nel cuore della Città Eterna, questa in cui mi trovo. E se non è proprio così, cerco di immaginarla tale, come doveva apparire in un tempo passato. Un luogo che emana un fascino particolare, che suggerisce ritmi di vita più lenti, e conserva, nel suo insieme raccolto, quell’atmosfera della Roma del Seicento, grazie anche ai suoi palazzi che la racchiudono e che conservano storie di antiche famiglie. La piazzetta prende il nome dalla chiesa di Santa Maria Maddalena, un gioiello del barocco-rococò: è la chiesa degli Abruzzesi residenti a Roma nel cui interno riposano le spoglie mortali di San Camillo De Lellis, nato in un paesino dell’Abruzzo. Mi soffermo ad ammirare la sua splendida facciata recentemente restaurata – che svetta maestosa proprio di fronte a me, quasi a proteggermi – e mi sembra troppo ridondante per uno spazio così ridotto. Ma questi meravigliosi contrasti sono frequenti a Roma: a volte basta svoltare un angolo e ti si presenta davanti la rappresentazione di un incredibile palcoscenico architettonico, concepito da un geniale artista del passato. Solo Roma riesce a donare questi incanti. Basti pensare allo spettacolo che offre la monumentale Fontana di Trevi, la più grande di Roma, ideata dall’architetto Nicola Salvi sulla facciata di un palazzo del Settecento e inserita in una minuscola piazzetta che la occupa quasi interamente. E’ una visione magica e incantata che non ti aspetti; quella sagoma maestosa ti appare quasi all’improvviso come una sorta di miraggio che ne accresce la bellezza scenografica.

Abbandono questi pensieri mentre osservo alcuni turisti che passeggiano leccando gelati, con un look a dir poco balneare (bermuda, canottiere, infradito, zoccoli…), un look favorito da questo improvviso assaggio di estate con temperature superiori alla media stagionale. Non per fare il moralista, ma mi sembra un vestiario inadatto, soprattutto quando viene utilizzato da signori attempati che esibiscono allegramente e senza alcun pudore corpi su cui gli anni hanno lasciato segni disastrosi. Sono l’espressione di una moda sciatta, di una condotta poco rispettosa del decoro di un luogo, dove il brutto prevale sulla decenza. In certe occasioni sarebbe opportuno coprirsi anziché spogliarsi. Ma oggi ci si spoglia anche per mettere in bella mostra vistosi tatuaggi. Alcuni sostengono che sia una forma d’arte. Insomma, è come portare in giro sul proprio corpo un’intera collezione privata di pittura contemporanea. Come fanno quei due giovanotti che sono appena entrati nel bar: uno dei due sarà certamente un romano perché porta impresso su un bicipite il famoso acronimo S.P.Q.R. con i colori della Roma Calcio; l’altro esibisce sul braccio una sorta di madonna, a meno che non sia la sua fidanzata a cui ha giurato fedeltà eterna con quel sigillo sulla pelle.

Accanto al mio tavolo siede una giovane coppia: da quando i due sono arrivati non hanno mai alzato lo sguardo dai loro rispettivi cellulari. Mi viene da pensare che li posso osservare senza essere visto: se mi mettessi a fare le boccacce, lì di fronte a loro, non se ne accorgerebbero, assenti come sono dalla vita circostante. Più in là, un signore dall’aria manageriale smanetta su un computer portatile: sembra che stia lavorando. E già, perché non c’è luogo, oggi, in cui non si possa lavorare con i moderni strumenti tecnologici: al bar, come al ristorante o mentre si prende il sole al mare, qualsiasi posto può diventare la succursale della propria azienda. D'altra parte, non esiste più la “pausa pranzo”, quel momento liberatorio della giornata in cui uno se ne poteva stare tranquillo senza essere raggiunto dal suo capo ufficio. Si continua a lavorare anche di fronte a un caffè o a un piatto di bucatini all’amatriciana. E intanto sono arrivati due parlamentari, volti noti dei talk show televisivi: qui la politica è di casa perché le stanze del potere sono a un tiro di schioppo dalla piazzetta. Si siedono a un tavolo discutendo animatamente; carpisco parole che in questo momento stanno sulla bocca di tutti: Ucraina…Putin…Nato…Dalla televisione al bar continua lo spettacolo della guerra con il solito bla bla. E intanto di là si continua a morire.

Il mio sguardo si sofferma, di nuovo, sulle statue dei santi che ornano la facciata della chiesa di Santa Maria Maddalena; sembrano assistere a questi brandelli di vita quotidiana che si susseguono nella piazza. Chi passa le osserva distrattamente, tutt’al più una foto con il telefonino. Bisogna consumare in fretta, i sentimenti come la bellezza: è l’imperativo della modernità. Chissà quante storie, quante vicende si sono succedute ai piedi di queste sculture nel corso degli anni! Sono trascorsi circa tre secoli, da quando l’architetto Giuseppe Sardi, nel 1735, le inserì nelle apposite nicchie al di sopra del portale d’ingresso della chiesa. Stanno lì a ricordarci quanto sia fugace la nostra esistenza. Ma ecco l’ennesima comitiva di turisti accaldati e stanchi, che fa la sua comparsa nella piazzetta. Ma nemmeno si ferma. Ha una meta molto più importante: il Pantheon. Si perpetua il rito infinito del turismo di massa. Devo dire che, in tanti anni, non avevo mai visto tanta gente a Roma nel mese di maggio. E tanto traffico! E tanto caos! Ma la pandemia non doveva migliorarci? Non doveva cambiare in meglio le nostre abitudini?


lunedì 9 maggio 2022

Sul viaggiare in treno

 


“Sono un pessimo viaggiatore, lo confesso. Mi è tanto difficile staccarmi da un luogo quanto assuefarmici. E sono inoltre un viaggiatore impaziente, incapace di acconciarmi ai fastidi, alle noie del viaggio. Ammiro coloro che sanno trasferirsi da un capo all’altro del globo senza nostalgie di sorta, con pochi oggetti di biancheria nella valigia. Per conto mio, simile a un emigrante, a uno zingaro, potrei dire, una volta in viaggio, “ominia mea mecum porto”, ma in un senso affatto opposto a quello che si ricava dal celebre motto di non so quale filosofo greco. E’ un bagaglio pesantissimo, è tutta la mia esistenza che io mi trascino dietro viaggiando.

Di notte, lungo la linea maremmana, guardo il mio vuoto scompartimento in una prigione che i vetri del finestrino rispecchiano da una parte e dall’altra, prolungandola all’infinito. Viaggio in un lentissimo e rumorosissimo bolide, in un enorme proiettile che non arriva, non scoppia mai. Poter dormire! Ma il mio sonno è un’operazione troppo macchinosa perché possa compiersi in ferrovia. Non mi rimane che vegliare e riflettere: starei per dire pregare. Eccitato dal fragore del treno, in preda a una lucida e tormentosa insonnia, cavo di tasca il mio taccuino, destinato ad annotazioni assai più innocenti, e scrivo: <<Per tutta la vita la fortuna m’è corsa appresso senza riuscire ad acciuffarmi>>. Oppure: <<Ho vissuto come un morto: nella memoria, nella fantasia degli altri>>. Scrivo ancora: <<Disordine, stanchezza, insufficienza, in tutte le occasioni, in ogni cimento della mia vita: perpetuo deficit o, per esprimermi con una parola meno frusta e meglio appropriata, perpetuo ammanco>>. Ecco in che modo una semplice notte in ferrovia può trasformarsi per me in una congiuntura molto seria.

Temo il viaggio, perché temo di venire, come al gioco, in troppo immediato contatto con me stesso. Ma quel che mi fa orrore soprattutto è il viaggiare di notte, ad occhi bendati, per così dire, senza potermi concedere l’unico diversivo e piacere che mi si offra in una situazione così tediosa: la vista della campagna, delle città colte a volo dall’alto d’un cavalcavia o rasentando col treno in moto le finestre delle case, e perfino, vorrei aggiungere, di quelle povere stazioni vuote, spesso importanti e provviste di decorosa tettoia, che i rapidi sorvolano rallentando, come per render loro l’onore delle armi.

Viaggiare è sognare, scrive Pascal. Sognare la felicità fuori di noi. E mentre il treno corre non mai abbastanza veloce per il mio desiderio, in quel trapasso, in quella sospensione di vita e di rapporti, fate che io possa starmene al finestrino, in assidua contemplazione di ciò che Rimbaud chiama “il fascino dei luoghi fuggenti”. Sarà ben difficile ch’io rinunci a questa mia vecchia consuetudine, in viaggio. Consuetudine che, d’altra parte, aggiunge allo strapazzo fisico una fatica psicologica assai più sottile ed estenuante e mi conduce ad abbrutirmi del tutto.

Sono, come vedete, un provinciale, un viaggiatore di terza classe, uno che, avendo talvolta affrontato viaggi piuttosto lunghi con lo stesso ingenuo trasporto con cui si fa una gita di piacere, è sempre giunto a destinazione come un “ecce homo”, con la barba cresciuta e impresentabilissimo. Ragione per cui devo riconoscere che il vero viaggiatore è quello che si raccoglie nello scompartimento come in casa propria e viaggia con le tendine abbassate. Costui arriva fresco fresco, senz’avere nessun sospetto dei luoghi che attraversò. Ha viaggiato come un baule, sissignori. Ma questa è la sola maniera di viaggiare. Così viaggiano tutti, salvo una piccola categoria d’inesperti e amanti del paesaggio, a cui ho la disgrazia d’appartenere…”

tratto dal romanzo “Villa Tarantola”
di Vincenzo Cardarelli

lunedì 2 maggio 2022

Vincenzo Cardarelli, la solitudine di un poeta

 


Amo il poeta Vincenzo Cardarelli; i suoi versi malinconici legati a ricordi indelebili del tempo passato; amo la sua arte poetica avvinta come edera a quel sofferto e discordante sentimento di amore per il suo paese d’origine - Tarquinia - che lasciò da giovane e a cui rimase legato per tutta la vita. E di cui sentiva la mancanza soprattutto quando se ne allontanava. Paradossalmente, immaginava il suo paese come un luogo perduto e lontano, per desiderarlo. Oppure doveva scorgerlo attraverso il finestrino di un treno in corsa, per sentirlo veramente suo: “Giace lassù la mia infanzia/ Lassù in quella collina/ ch’io riveggo di notte/ passando in ferrovia...”, così leggiamo nella sua poesia “Passaggio notturno”.  E, ancor di più, questa sua contrastante propensione amorosa nei confronti del paese natio si percepisce nell’incipit del suo unico romanzo “Villa Tarantola”: "Fin da ragazzo – scrive Cardarelli - ho amato le distanze e la solitudine. Uscire dalle porte del mio paese e guardarlo dal di fuori, come qualche cosa di perduto, era uno dei miei più abituali diletti”.  Tarquinia è per Cardarelli quello che Recanati era per Leopardi: il natio borgo selvaggio, tanto amato quanto osteggiato. Un paese che diventa, attraverso la sua poesia, luogo universale, un microcosmo con caratteristiche socio-culturali-ambientali simili a tutti i paesi. E – lo confesso – quando il poeta ricorda con i suoi versi Tarquinia, io percepisco il mio paese, nel Cilento. Provo i suoi stessi sentimenti.

Dicevo di questo suo romanzo “Villa Tarantola” con cui Cardarelli vinse il Premio Strega nel 1948, un libro introvabile e fuori catalogo che cercavo da tanto tempo. Ebbene, giorni fa, l’ho finalmente trovato su un banchetto di un mercatino dell’usato, che si trova dalle parti di San Giovanni a Roma. E’ stata una gioia immensa. E’ proprio vero che la felicità - come diceva Trilussa - è una piccola cosa, come, appunto, trovare un libro che cercavi. Che poi è anche un libro di rara bellezza, per il suo stile raffinato, ricco di notizie storiche, artistiche e poetiche. E’ un’edizione del Club degli Editori nel 1968, che ripropone la copertina originale del 1948 (Edizioni Meridiana). L’ho letto immediatamente, scavalcando tanti altri libri che attendono da tempo.

“Villa Tarantola” è una raccolta di scritti autobiografici con cui Cardarelli racconta i suoi burrascosi rapporti con il padre, il quale non voleva che studiasse e pretendeva che diventasse un buon commerciante, lui che invece aveva “il bacillo della cultura e della letteratura nel sangue”; e poi racconta il suo enorme bisogno di affetto, i suoi platonici amori giovanili fatti di sguardi, di pedinamenti, di piaceri solo cerebrali per delle donne che, a volte, non aveva nemmeno il coraggio di conoscere “camminando sulla loro traccia fuggitiva come Apollo dietro Dafne, come Teseo guidato dal filo d’Arianna, ma senza fare un passo di più per raggiungerle”, figure quasi evanescenti che ritroviamo anche nei suoi versi malinconici;  e racconta la sua misantropia di uomo senza famiglia, che viveva in camere d’affitto e passava da una pensione all’altra “come uno straniero, un pellegrino o, se volete, un vagabondo”; la sua scarsa partecipazione alla vita letteraria che lo isolavano sempre di più; il suo intransigente moralismo e il suo eloquio tagliente, feroce e poetico, che tutti ammiravano e molti temevano. Il libro non poteva non raccontare dei fatti e misfatti del suo “etrusco paese” natale “con le sue molte torri e i suoi campanili, come una San Gemignano in Maremma” e poi di altri luoghi in cui aveva soggiornato: come nelle Marche, il cui paesaggio “è quale noi lo conosciamo in Leopardi: bellissimo, dolce, e nondimeno avaro di ogni facile e umana consolazione”. Dedica delle pagine tenere e affettuose a Recanati, il paese del suo amato Leopardi: “è come tornare dopo molti anni al proprio paese natale. Non si può salire questo colle senza sentirsi il cuore stretto da una commozione indicibile. Par proprio di averci vissuto in questo paese…non soltanto è il nostro passato, che risorge da ogni pietra, ma un motivo inesauribile e perenne di meditare sul nostro destino, di ripiegarci su noi stessi”. Ci parla poi dei suoi passaggi per Urbino, “l’infinita melodia delle colline raffaellesche”; Ferrara, Venezia, dove voleva trascorrere solo un paio di giorni e invece ci rimase tre anni; Milano, che rivede dopo undici anni di assenza e non riesce a trovare le sensazioni di un tempo. Ma le pagine più belle e ricche di aneddoti io trovo che siano quelle dedicate a Roma, che lo accolse non ancora ventenne: qui fece i mestieri più diversi prima di diventare il poeta che conosciamo. Prima che cominciasse a provare “il perturbante piacere delle congratulazioni” da parte di chi lo leggeva. E così ci descrive la Roma barocca che “ci rammenta ad ogni passo la nostra fragilità, la nostra miseria, ma, nel tempo stesso, tutto conduce a farci guardare in alto”. Ed ecco allora le grandi strade con le altissime facciate dei suoi palazzi. “E che dire delle madonne che passeggiano sui tetti? Delle miriadi di croci, di ostensori, e altri emblemi issati in cima agli obelischi e sui fastigi delle chiese, che si scoprono, chissà perché, soltanto all’alba? Sono i miracoli, le apparizioni di Roma”.  E poi la Roma del Rinascimento, del Sei e del Settecento “dove non c’è vicolo, non c’è piazzetta, in cui non ci si senta difesi nello spirito e nel corpo e i nostri occhi non abbiano materia di diletto…”; la Roma dei caffè letterari che lui frequentava dove si consumavano discussioni e battibecchi, come il Caffè Aragno “il quale non era un caffè, ma un foro, una basilica, un porto di mare”; quella Roma, insomma, che lo aveva ripagato di tutto, facendogli sembrare dolce perfino la povertà, senza farlo sentire mai solo.

Chi lo ha conosciuto – come lo scrittore Libero Bigiaretti che ha scritto una bella e struggente prefazione al suo libro – lo ricorda, soprattutto negli ultimi anni della sua vita, ormai lontano dalla sua vena creativa, seduto a un tavolo all’aperto del solito bar di Via Veneto a Roma, dove trascorreva lunghe ore della giornata,  indossando cappotto, cappello e sciarpa anche d’estate. E c’era sempre qualcuno che – pur canzonando questa sua bizzarra abitudine - ogni tanto gli si avvicinava tentando di ottenere una di quelle sue sferzanti e colte battute, per cui un tempo era famoso. La foto che ho postato sopra, che lo ritrae di spalle, è una sorta di icona inconfondibile: rimanda alla sua solitudine, alla sua precoce decadenza fisica e intellettuale. Chissà come avrebbe raccontato la Roma di oggi, uno come lui che sapeva guardare il mondo con occhi disincantati, standosene seduto da solo al tavolo di un caffè!