“Sono un pessimo viaggiatore, lo
confesso. Mi è tanto difficile staccarmi da un luogo quanto assuefarmici. E
sono inoltre un viaggiatore impaziente, incapace di acconciarmi ai fastidi,
alle noie del viaggio. Ammiro coloro che sanno trasferirsi da un capo all’altro
del globo senza nostalgie di sorta, con pochi oggetti di biancheria nella
valigia. Per conto mio, simile a un emigrante, a uno zingaro, potrei dire, una
volta in viaggio, “ominia mea mecum porto”, ma in un senso affatto opposto a
quello che si ricava dal celebre motto di non so quale filosofo greco. E’ un
bagaglio pesantissimo, è tutta la mia esistenza che io mi trascino dietro
viaggiando.
Di notte, lungo la linea
maremmana, guardo il mio vuoto scompartimento in una prigione che i vetri del
finestrino rispecchiano da una parte e dall’altra, prolungandola all’infinito.
Viaggio in un lentissimo e rumorosissimo bolide, in un enorme proiettile che
non arriva, non scoppia mai. Poter dormire! Ma il mio sonno è un’operazione troppo
macchinosa perché possa compiersi in ferrovia. Non mi rimane che vegliare e
riflettere: starei per dire pregare. Eccitato dal fragore del treno, in preda a
una lucida e tormentosa insonnia, cavo di tasca il mio taccuino, destinato ad
annotazioni assai più innocenti, e scrivo: <<Per tutta la vita la fortuna
m’è corsa appresso senza riuscire ad acciuffarmi>>. Oppure: <<Ho
vissuto come un morto: nella memoria, nella fantasia degli altri>>.
Scrivo ancora: <<Disordine, stanchezza, insufficienza, in tutte le
occasioni, in ogni cimento della mia vita: perpetuo deficit o, per
esprimermi con una parola meno frusta e meglio appropriata, perpetuo
ammanco>>. Ecco in che modo una semplice notte in ferrovia può
trasformarsi per me in una congiuntura molto seria.
Temo il viaggio, perché temo di
venire, come al gioco, in troppo immediato contatto con me stesso. Ma quel che
mi fa orrore soprattutto è il viaggiare di notte, ad occhi bendati, per così
dire, senza potermi concedere l’unico diversivo e piacere che mi si offra in
una situazione così tediosa: la vista della campagna, delle città colte a volo
dall’alto d’un cavalcavia o rasentando col treno in moto le finestre delle
case, e perfino, vorrei aggiungere, di quelle povere stazioni vuote, spesso
importanti e provviste di decorosa tettoia, che i rapidi sorvolano rallentando,
come per render loro l’onore delle armi.
Viaggiare è sognare, scrive
Pascal. Sognare la felicità fuori di noi. E mentre il treno corre non mai
abbastanza veloce per il mio desiderio, in quel trapasso, in quella sospensione
di vita e di rapporti, fate che io possa starmene al finestrino, in assidua
contemplazione di ciò che Rimbaud chiama “il fascino dei luoghi fuggenti”. Sarà
ben difficile ch’io rinunci a questa mia vecchia consuetudine, in viaggio.
Consuetudine che, d’altra parte, aggiunge allo strapazzo fisico una fatica
psicologica assai più sottile ed estenuante e mi conduce ad abbrutirmi del
tutto.
Sono, come vedete, un
provinciale, un viaggiatore di terza classe, uno che, avendo talvolta affrontato
viaggi piuttosto lunghi con lo stesso ingenuo trasporto con cui si fa una gita
di piacere, è sempre giunto a destinazione come un “ecce homo”, con la barba
cresciuta e impresentabilissimo. Ragione per cui devo riconoscere che il vero
viaggiatore è quello che si raccoglie nello scompartimento come in casa propria
e viaggia con le tendine abbassate. Costui arriva fresco fresco, senz’avere
nessun sospetto dei luoghi che attraversò. Ha viaggiato come un baule,
sissignori. Ma questa è la sola maniera di viaggiare. Così viaggiano tutti,
salvo una piccola categoria d’inesperti e amanti del paesaggio, a cui ho la
disgrazia d’appartenere…”
tratto
dal romanzo “Villa Tarantola”
di
Vincenzo Cardarelli