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lunedì 22 giugno 2020

Il sacro



Il sacro si può scorgere
in un’antica chiesetta di campagna
che eleva l’animo
più di una sfarzosa cattedrale;
e  si può scorgere al cospetto di
un muretto a secco levigato dal tempo
che rende più morbido un pendio
e più lieve una collina;
il sacro si può scorgere osservando
la maestosità di una quercia,
il tronco contorto di in un ulivo secolare,
un lungo filare di altissimi cipressi;
e si può scorgere sulla cima di una montagna,
su una spiaggia solitaria e incontaminata,
in una piazzetta silenziosa di paese,
tra i vicoli quieti di un antico borgo
arroccato su una rupe
che non sa di questo tempo
che non sa di questo mondo;
il sacro si può scorgere stando in contemplazione
su una panchina appartata
di fronte al mare;
si può scorgere osservando il tramonto,
il cielo stellato,
il cadere lento della pioggia
su un campo di grano,
il volto sereno di un vecchio senza tempo;
il sacro si può scorgere 
dinanzi a un solitario contadino
destinato a sparire
che affonda l’erpice tirato da un bue
nel suo piccolo campo;
e si può scorgere in una madonna di Raffaello,
in una scultura di Michelangelo
che educa al bello
e in una sinfonia di Mozart
che nutre lo spirito.

martedì 9 giugno 2020

Centocelle



Abito in un quartiere di Roma che si chiama “Centocelle”, limitrofo all’omonimo Parco Archeologico dove sorgeva - circa duemila anni fa - la villa imperiale ad duas lauros dell’imperatrice Elena (madre di Costantino), circondata dalla grande piscina termale e dagli alloggiamenti per i suoi cavalieri. Per la sua grande estensione, la dimora imperiale venne chiamata Centum Cellae, da cui deriva l’attuale toponimo. Grazie alla presenza di questi importanti resti archeologici l’area del parco, di oltre 120 ettari – di cui solo una trentina aperti al pubblico – è sottoposta a vincolo paesaggistico e da tempo attende quegli interventi di riqualificazione che potrebbero rilanciare, dal punto di vista socio-ambientale-culturale, tutto il territorio che gravita a sud est della Capitale. Va detto che proprio in questa area fu realizzato, nell’aprile del 1909, il primo aeroporto italiano, la cui pista lunga circa 400 metri ancora si conserva, come da foto. E qui doveva sorgere, negli anni settanta, il famoso Sistema Direzionale Orientale (SDO) che avrebbe dovuto liberare il centro storico di Roma da tutti i Ministeri e da tutti gli altri uffici del potere politico-economico. Il progetto, per fortuna, non venne realizzato ed oggi il Parco attende tempi migliori per decollare.

Il luogo non è molto frequentato: tranne pochi amanti del footing, la maggior parte delle persone del quartiere preferisce il vicino parco Villa De Sanctis (di cui ho parlato in un mio post precedente), che tra l’altro custodisce il Mausoleo funerario della succitata imperatrice Elena, che da queste parti era di casa. Devo dire che anch’io, per “oliare” le mie articolazioni sempre più arrugginite, vado spesso a passeggiare su quella vecchia pista abbandonata e lungo quei vialetti circostanti delimitati da radi cipressi, dove la mentuccia e il finocchietto selvatico crescono spontanei e dove svolazzano liberi corvi e pappagalli. Lo confesso: non è il massimo delle aspirazioni umane. Ma, purtroppo, solo questo offre il convento. E allora, per circa un’ora al giorno mi allontano dai rumori, dall’aria inquinata e dal traffico cittadino e vado lì a respirare il silenzio, a corteggiare i miei pensieri, a stemperare le mie malinconie. E ogni volta mi vengono in mente quelle meravigliose parole - in cui mi identifico - con le quali il filosofo francese Denis Diderot iniziava un suo famoso dialogo filosofico, verso la metà del ‘700:

“Che faccia bello o cattivo tempo è mia abitudine andare a passeggiare ogni pomeriggio verso le 5 nei giardini del Palais-Royal. Intrattengo me stesso con la politica, l’amore, il gusto, la filosofia e abbandono la mente al suo libertinaggio lasciandola padrona di seguire ogni pensiero che le si presenti, saggio o folle che sia. E la mente si comporta come quei giovani dissoluti che corrono dietro alle ragazze con l’aria sventata, il volto sorridente, l’occhio vivace e il nasino all’insù, corteggiandole tutte senza attaccarsi a nessuna di loro. Ecco: i miei pensieri sono le mie puttane”.

venerdì 5 giugno 2020

L'uomo senza qualità



Ci sono dei libri monumentali che da sempre mi perseguitano. Provo una certa difficoltà nell’affrontarli, avverto nei loro confronti una sorta di timore reverenziale che scaturisce non tanto dalla mole dei volumi quanto dalla loro indiscussa complessità letteraria. Penso ai 7 volumi della “Recherche” di Proust (ne ho letti, con una certa fatica, appena tre); penso a “Ulisse” di Joyce che non ho ancora letto. E penso, poi, a “L’uomo senza qualità” di Musil che da lungo tempo sembra sfidarmi dall’alto di un ripiano della mia libreria. Il testo in mio possesso è quello pubblicato da Newton nel 2013 (i Mammut) di 1137 pagine. Devo dire che - dopo molti rinvii e titubanze - ho iniziato finalmente a leggerlo in questi giorni. E tra lentezze, interruzioni e riprese, tra noia ed elogi, saltando anche delle pagine per me indigeste, ma soffermandomi con vero piacere su altre davvero illuminanti, credo che alla fine riuscirò  a portarlo a termine.

Ora - sia ben chiaro - non ho la sfacciataggine di “recensire” questo sterminato romanzo/saggio (tra l’altro incompiuto) su cui sono stati versati i classici fiumi d’inchiostro. Non potrei aggiungere nient’altro rispetto a ciò che è stato già scritto da studiosi e lettori appassionati, molto più autorevoli di me. Mi limito a dire che forse una delle possibili chiavi di lettura del libro si nasconde nelle parole che Musil mette in bocca al suo eroe protagonista, Ulrich: “un uomo che vuole la verità diventa scienziato; un uomo che vuole sfogare la propria soggettività diventa forse scrittore; ma che cosa deve fare un uomo che vuole qualcosa di intermedio?” Lungo tale tracciato si colloca il percorso esistenziale di questo trentaduenne matematico e ingegnere - uomo dell’utopia e per questo uomo “senza qualità” – anche se di qualità ne ha tante ed anche eccezionali, che però mal si adattano ai tempi, già massificati, in cui vive. Ulrich è un uomo segnato da sconfinate letture in tutti i campi del sapere, “innamorato della scienza in un mondo più umano che scientifico”; è sostenitore di un mondo “retto da un Senato di uomini sapienti e progrediti” e non sapendo cosa fare della propria esistenza, decide “di prendersi un anno di vacanza dalla vita per cercare un uso appropriato delle sue capacità” abbracciando la causa nazionalistica del comitato che dovrà organizzare le celebrazioni per il settantesimo anniversario dell’ascesa al trono dell’imperatore austro-ungarico Francesco Giuseppe. Ci troviamo nel 1918, epoca di collasso della plurisecolare e grandiosa dinastia asburgica, travolta dall’avanzata della tecnica e stretta dalla sua variegata e inarrestabile crisi spirituale. E’ un libro che, dall’interno di questa vicenda storica, intende rappresentare le contraddizioni della modernità - e per questo appare molto attuale - lasciando spazio a riflessioni, digressioni, paradossi, ironie e introspezioni di vario genere, come questa riservata a quegli improbabili “cacciatori di spirito” che mi piace riportare di seguito:

“Si poteva ben dire che lui stesso volesse diventare qualcosa di simile a un principe o a un signore dello spirito. Del resto, chi non lo vorrebbe? E’ così evidente che lo spirito venga considerato l’elemento supremo e dominante su qualsiasi altro. Lo impariamo a scuola. Chi può si adorna di spirito, se ne abbellisce. Legato ad alcunché, lo spirito è l’elemento più diffuso al mondo. Lo spirito della fedeltà, lo spirito dell’amore, uno spirito virile, uno spirito colto, il più importante spirito del nostro tempo, teniamo alto lo spirito di questa o di quell’altra impresa, agiamo secondo lo spirito del nostro movimento: come suonano rassicuranti e inoffensive queste espressioni fino ai gradi più bassi. Tutto il resto, i crimini che si compiono ogni giorno o la mai paga avidità di guadagno, sembra in confronto come l’inconfessabile, come la sporcizia che Dio si toglie dalle unghie dei piedi. Ma quando lo spirito se ne sta lì da solo, un sostantivo nudo, spoglio come un fantasma al quale si vorrebbe prestare un lenzuolo, che cosa accade allora? Si possono leggere poeti, studiare filosofi, comprare quadri e trascorrere intere nottate a discutere: ma è spirito quello che si ottiene così? Mettiamo pure che lo si ottenga, ma poi lo si possiede? Questo spirito è così fortemente legato alla forma contingente nella quale si presenta! Passa attraverso l’individuo che vorrebbe accoglierlo, e si lascia dietro solo una piccola vibrazione. Che cosa ce ne facciamo di tutto questo spirito? Lo si continua a produrre su montagne di carta, di pietra, di tela in quantità addirittura astronomiche; altrettanto di continuo lo si gusta e lo si assimila con un impegno smisurato di energia nervosa: ma che ne è poi dello spirito? Scompare come un’allucinazione? Si scompone in particelle? Si sottrae alla legge fisica della conservazione? Non c’è proporzione tra tutto quello spreco e i granelli di polvere che scendono dentro di noi e lentamente si posano. Dove va, dov’è, che cos’è? Forse se ne sapessimo di più calerebbe sul termine “spirito” un silenzio opprimente”.