Ci
sono dei libri monumentali che da sempre mi perseguitano. Provo una certa
difficoltà nell’affrontarli, avverto nei loro confronti una sorta di timore reverenziale
che scaturisce non tanto dalla mole dei volumi quanto dalla loro indiscussa complessità
letteraria. Penso ai 7 volumi della “Recherche”
di Proust (ne ho letti, con una certa fatica, appena tre); penso a “Ulisse” di Joyce che non ho ancora
letto. E penso, poi, a “L’uomo senza
qualità” di Musil che da lungo tempo sembra sfidarmi dall’alto di un
ripiano della mia libreria. Il testo in mio possesso è quello pubblicato da
Newton nel 2013 (i Mammut) di 1137 pagine. Devo dire che - dopo molti rinvii e
titubanze - ho iniziato finalmente a leggerlo in questi giorni. E tra lentezze,
interruzioni e riprese, tra noia ed elogi, saltando anche delle pagine per me
indigeste, ma soffermandomi con vero piacere su altre davvero illuminanti,
credo che alla fine riuscirò a portarlo
a termine.
Ora
- sia ben chiaro - non ho la sfacciataggine di “recensire” questo sterminato romanzo/saggio
(tra l’altro incompiuto) su cui sono stati versati i classici fiumi
d’inchiostro. Non potrei aggiungere nient’altro rispetto a ciò che è stato già
scritto da studiosi e lettori appassionati, molto più autorevoli di me. Mi
limito a dire che forse una delle possibili chiavi di lettura del libro si
nasconde nelle parole che Musil mette in bocca al suo eroe protagonista, Ulrich:
“un uomo che vuole la verità diventa scienziato; un uomo che vuole
sfogare la propria soggettività diventa forse scrittore; ma che cosa deve fare
un uomo che vuole qualcosa di intermedio?” Lungo tale tracciato si colloca
il percorso esistenziale di questo trentaduenne matematico e ingegnere - uomo
dell’utopia e per questo uomo “senza qualità” – anche se di qualità ne ha tante
ed anche eccezionali, che però mal si adattano ai tempi, già massificati, in
cui vive. Ulrich è un uomo segnato da sconfinate letture in tutti i campi del
sapere, “innamorato della scienza in un
mondo più umano che scientifico”; è sostenitore di un mondo “retto da un Senato di uomini sapienti e
progrediti” e non sapendo cosa fare della propria esistenza, decide “di prendersi un anno di vacanza dalla vita
per cercare un uso appropriato delle sue capacità” abbracciando la causa
nazionalistica del comitato che dovrà organizzare le celebrazioni per il
settantesimo anniversario dell’ascesa al trono dell’imperatore austro-ungarico Francesco
Giuseppe. Ci troviamo nel 1918, epoca di collasso della plurisecolare e
grandiosa dinastia asburgica, travolta dall’avanzata della tecnica e stretta dalla
sua variegata e inarrestabile crisi spirituale. E’ un libro che, dall’interno
di questa vicenda storica, intende rappresentare le contraddizioni della
modernità - e per questo appare molto attuale - lasciando spazio a riflessioni,
digressioni, paradossi, ironie e introspezioni di vario genere, come questa
riservata a quegli improbabili “cacciatori di spirito” che mi piace riportare
di seguito:
“Si poteva ben dire che lui stesso volesse
diventare qualcosa di simile a un principe o a un signore dello spirito. Del
resto, chi non lo vorrebbe? E’ così evidente che lo spirito venga considerato
l’elemento supremo e dominante su qualsiasi altro. Lo impariamo a scuola. Chi
può si adorna di spirito, se ne abbellisce. Legato ad alcunché, lo spirito è
l’elemento più diffuso al mondo. Lo spirito della fedeltà, lo spirito
dell’amore, uno spirito virile, uno spirito colto, il più importante spirito
del nostro tempo, teniamo alto lo spirito di questa o di quell’altra impresa,
agiamo secondo lo spirito del nostro movimento: come suonano rassicuranti e
inoffensive queste espressioni fino ai gradi più bassi. Tutto il resto, i
crimini che si compiono ogni giorno o la mai paga avidità di guadagno, sembra
in confronto come l’inconfessabile, come la sporcizia che Dio si toglie dalle
unghie dei piedi. Ma quando lo spirito se ne sta lì da solo, un sostantivo
nudo, spoglio come un fantasma al quale si vorrebbe prestare un lenzuolo, che
cosa accade allora? Si possono leggere poeti, studiare filosofi, comprare
quadri e trascorrere intere nottate a discutere: ma è spirito quello che si
ottiene così? Mettiamo pure che lo si ottenga, ma poi lo si possiede? Questo
spirito è così fortemente legato alla forma contingente nella quale si
presenta! Passa attraverso l’individuo che vorrebbe accoglierlo, e si lascia
dietro solo una piccola vibrazione. Che cosa ce ne facciamo di tutto questo
spirito? Lo si continua a produrre su montagne di carta, di pietra, di tela in
quantità addirittura astronomiche; altrettanto di continuo lo si gusta e lo si
assimila con un impegno smisurato di energia nervosa: ma che ne è poi dello
spirito? Scompare come un’allucinazione? Si scompone in particelle? Si sottrae
alla legge fisica della conservazione? Non c’è proporzione tra tutto quello
spreco e i granelli di polvere che scendono dentro di noi e lentamente si
posano. Dove va, dov’è, che cos’è? Forse se ne sapessimo di più calerebbe sul termine
“spirito” un silenzio opprimente”.