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venerdì 20 gennaio 2023

Quando la bellezza nasce dalla sofferenza

 


Se escludiamo la sofferenza dalla poesia e dalla pittura, dalla musica e dalla letteratura – insomma dall’arte in generale - non facciamo altro che privare la “bellezza” di un suo contenuto fondamentale. Potremmo mai immaginare la poetica di Leopardi senza i suoi tormenti dell’anima? Se la Dickinson fosse stata una donna felice, probabilmente non avrebbe potuto deliziarci con i suoi componimenti malinconici. E pensiamo ad Alda Merini: i suoi versi d’amore nascono dal profondo del suo disagio sociale. E che dire di Eugenio Montale: senza le sue sofferenze interiori difficilmente avremmo letto questa struggente poesia:

Spesso il male di vivere ho incontrato
era il rivo strozzato che gorgoglia
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

I poeti sono capaci di sublimare nell’arte le proprie angosce. Le faticose condizioni esistenziali molto spesso sono le loro fonti di ispirazione che rappresentano – per noi lettori - basi di emozioni straordinarie. Mi viene da pensare che la poesia trasmette felicità anche quando scaturisce da un dolore e sembra quasi che il poeta sia destinato a soffrire per regalare gioia a chi legge i suoi versi. “Il poeta è un fingitore – scrive Fernando Pessoa – Finge così completamente che arriva a fingere che è dolore il dolore che davvero sente”. Leggendo certe poesie, ma anche certi libri – mi viene in mente “Se questo è un uomo” di Levi, il “Diario” di Anna Frank, ma anche “La cognizione del dolore” di Gadda o “Il male oscuro” di Berto, etc. - si scopre a quali altezze la mente umana è capace di arrivare anche attraverso la sofferenza, sopportandola e superandola per un imprescindibile bisogno di vita.

Anche la pittura spesso nasce da un disagio, da una profonda afflizione dell’anima: penso a Van Gogh e ai suoi dipinti carichi di tormento; penso a Edvard Munch, il pittore norvegese che dipinse la “Malinconia” e ci ha lasciato il suo famoso “Urlo” di terrore e angoscia lacerante;



penso a Picasso con la sua “Guernica”, uno degli esempi più alti di sofferenza; penso a Ligabue che ha racchiuso nelle tele i suoi gravi disagi psico-fisici.

L’arte ha un elevato potere terapeutico: è il luogo nel quale è possibile incontrare e sentire il dolore senza rimanerne contagiati. Anzi, succede proprio il contrario tant’è che la bellezza di una poesia o di un dipinto o di una scultura o di un componimento musicale ci esaltano e ci inebriano, sempre, indipendentemente dal loro contenuto di tristezza. E’ come se l’artista, trovandosi in una condizione di malessere, si sentisse più vicino alla sua anima e intravedesse la sua profonda spiritualità. E' come dire che nessuno meglio di chi è stato infelice ed ha sofferto può darci insegnamenti di quotidiana felicità.


domenica 8 gennaio 2023

L'uomo che guarda

 


Se dovessi descrivere - con una sola parola - l’attività che più di tutte appassiona l’uomo della nostra epoca, non avrei dubbi: direi semplicemente che “guarda”. Ovunque si trovi, in casa o per strada, al mare o in montagna, in macchina, dal barbiere o dal droghiere, allo stadio o a un concerto, sui mezzi pubblici, al bar, al ristorante o in un centro commerciale: lui guarda…

Ma non guarda il mare, o le montagne, o la pioggia che cade, e nemmeno un libro o un giornale;

non guarda i platani che perdono le foglie lungo un viale;

non guarda quel bambino che piange, o quel cane che abbaia o quel vecchietto stanco seduto su una panchina;

e neanche guarda il traffico della città in cui vive, i marciapiedi sporchi su cui cammina, i muri orribilmente tappezzati di pubblicità e graffiti;

e non guarda il panorama dal finestrino di un treno in corsa e nemmeno il suo compagno di viaggio seduto di fronte;

non guarda quell’antico palazzo, quella chiesa barocca, quella statua che orna la fontana al centro della piazza;

non guarda i gerani che abbelliscono un balcone, quei piccioni che beccano briciole, quel gatto che dorme sul davanzale di una finestra;

e nemmeno guarda chi si dispera e chi gioisce, chi parla e chi sta zitto, chi ride, chi piange e chi impreca;

non guarda dove mette i piedi, se sale o se scende le scale;

non guarda se piove o c’è il sole o tira vento;

non guarda l’amico che gli siede vicino o il cantante in concerto o il mendicante che gli chiede un aiuto;

e, naturalmente, non guarda chi – accanto a lui - non guarda.

Ma se non guarda, cosa guarda l’uomo che guarda? Guarda sempre un’anonima scatoletta rettangolare di plastica di14x7centimetri circa (agli inizi sempre più piccola, oggi sempre più grande) che contiene tutto il suo guardare, l’universo intero, il presente e il futuro. L’amore e gli affetti. Tutto il suo mondo. E se non gli piace – quel mondo - lo cancella e ne cerca un altro. Non ha bisogno di percorrere lunghe distanze per scoprirlo. E’ racchiuso all’interno di quell’oggetto portatile che consulta in maniera febbrile per guardare: il mare, le montagne, la pioggia, gli alberi che perdono le foglie, i libri e i giornali, il bambino che piange, il cane che abbaia, la città in cui vive, il panorama che si vede dal treno in corsa, il vecchietto seduto sulla panchina, i suoi amici mai incontrati e mai conosciuti, il palazzo e la chiesa e la piazza e la finestra con i gerani, i piccioni che raccolgono briciole e il gatto che dorme….e guarda l’ennesimo video che diventa, immediatamente, “virale”.


mercoledì 4 gennaio 2023

La cripta dei cappuccini

 


“Io non sono un figlio del mio tempo, anzi, mi riesce difficile non definirmi addirittura suo nemico”

 

Tutte le grandi civiltà che ci hanno preceduto, rappresentate da monarchie e imperi con estensioni territoriali a volte immense, sono implose nel corso dei secoli. E la fine di una civiltà fa sempre nascere, in chi l’ha vissuta e in qualche modo attraversata, sentimenti contrastanti che vanno dallo smarrimento alla nostalgia e sfociano, spesso, nell’incapacità di sapersi adattare al nuovo che arriva e avanza. Certo, il passaggio da un’epoca all’altra non è sempre così netto e immediato, visto che i cambiamenti avvengono in modo molto lento nel tempo, non facilmente avvertibili. Tuttavia, chi oggi ha una certa età e si guarda indietro, non può non constatare la evidente trasformazione socio-culturale della società avvenuta in questi ultimi cinquant’anni.

In una recente intervista Giovanni Lindo Ferretti – noto per essere stato paroliere e cantore dei CCCP – ha detto di avere fatto in tempo a percepire la grandezza del suo antico mondo che moriva, ma anche ad essere affascinato da quello che stava nascendo. Avendo più o meno la sua stessa età, devo dire che anch’io ho avuto il privilegio di assistere alla fine di una civiltà - quella contadina, ancorata alla sua filosofia di vita semplice e naturale - e di affacciarmi a questo nuovo mondo sempre più legato alla tecnologia, al denaro, ai consumi e allo sfruttamento scriteriato della natura; un mondo di cui non si conoscono ancora bene i contorni e gli sviluppi futuri. Ma non credo proprio di poter assistere, questa volta, al suo inevitabile declino, come sempre avviene quando un’epoca raggiunge il suo massimo sviluppo.

Facevo questa riflessione dopo aver letto il romanzo di Joseph Roth “La cripta dei cappuccini” con cui lo scrittore austriaco descrive il tramonto di un’epoca aurea incarnata dal grande impero multietnico austro-ungarico e della sua illustre capitale, Vienna. E lo fa attraverso lo sguardo disincantato e decadente del protagonista/narratore - un giovane e frivolo rampollo dell’aristocrazia viennese, devoto all’imperatore Francesco Giuseppe - che avrebbe preferito morire in guerra piuttosto che osservare il tracollo del suo mondo, rappresentato da quell’Austria felix di cui Roth si sentiva figlio legittimo. “La cripta dei cappuccini” è un inno malinconico all’inesorabile e cinico scorrere del tempo che spazza via senza alcun ritegno uomini e imperi, seppure possano sembrare incrollabili ed eterni.


lunedì 2 gennaio 2023

Il più bello dei mari

 


Il più bello dei mari
è quello che non navigammo.

Il più bello dei nostri figli
non è ancora cresciuto.

I più belli dei nostri giorni
non li abbiamo ancora vissuti.

E quello
che vorrei dirti di più bello
non te l'ho ancora detto.

Nazim Hikmet