lunedì 4 ottobre 2021

L'arte di tacere

 


Di questi tempi, più che di tempo pieno abbiamo bisogno di tempo vuoto. La nostra mente ama le piccole cose dell’esistenza quotidiana, si lascia ispirare da un paesaggio, da una bella parola, dal sorriso di una persona, da un albero che ci regala ombra in una torrida giornata estiva. Ha bisogno di tempo - la nostra mente - per elaborare tutto ciò che vede, che ascolta, che legge. Non può essere travolta dagli eventi. Eppure, ogni giorno i mezzi di informazione, come la televisione e la radio, i giornali e la pubblicità, la rete e i social e chi più ne ha più ne metta, inondano le nostre esistenze di notizie, di avvenimenti, di parole, di immagini, di rumori. Quando troppi fatti ci aggrediscono contemporaneamente - siano essi importanti o marginali - e reclamano di essere compresi e ascoltati tutti nella stessa maniera, la nostra mente viene oppressa. Viene ferita. Se pensiamo, poi, alla quantità di carta, sotto forma di giornali e riviste, che riempie le edicole e alle migliaia e migliaia di libri pubblicati ogni anno che nessuno legge; se pensiamo alla disinvoltura con cui gli “ospiti” dei talk show televisivi urlano tutto e il contrario di tutto, non per cercare una verità condivisa ma per mostrare di saperla più lunga degli altri; se pensiamo alla spudoratezza di certi attori, giornalisti, cantanti, politici, calciatori che si ostinano a scrivere i loro inutili libri e libercoli che - ahimè! - si trovano pure in testa alle classifiche; se pensiamo a quante parole e a quante scemenze girano attraverso i social in una sola giornata; ebbene, se pensiamo a tutto ciò, ci assale inevitabilmente l’angoscia e avvertiamo un forte bisogno di silenzio.

“Si deve smettere di tacere solo quando si ha qualche cosa da dire che valga più del silenzio”. Lo scriveva nel 1700 l’abate Joseph Antoine Dinouart in un suo libriccino intitolato “L’arte di tacere seguita dall’arte dello scriver poco” (Castelvecchi editore). Con questo delizioso libretto l’insigne ecclesiastico del XVIII secolo si scaglia contro la sovrabbondanza di parole dette e scritte, contro l’abituale smania narcisistica di dire qualcosa e di mettersi in evidenza in ogni occasione. Il silenzio sarebbe indispensabile a tutti quegli autori – e sono la maggioranza - che scrivono male e scrivono troppo, “mentre sarebbe un bene di grande utilità se quegli scrittori validi e giudiziosi che troppo amano tacere, offrissero più spesso al pubblico insegnamenti saggi e importanti”.

“L’arte di tacere” sembra proprio parlare dell’oggi e ci invoglia a guardare con attenzione alle storture dovute all’eccesso di comunicazioni, informazioni e scrittura in generale. E’ un piccolo grande libro che dovrebbero leggere tutti coloro che parlano e scrivono troppo, anche quando dovrebbero tacere. La domanda sorge spontanea: ma noi che scriviamo sui nostri blog siamo per caso esenti da questa moratoria? Qualcuno dirà che ci sono differenze di merito e di valore e quindi vanno fatti dei distinguo, però un po' di silenzio – diciamolo - ogni tanto non farebbe male a nessuno. Non guasterebbe. “Quale che sia la disposizione d’animo che abbiamo verso il silenzio – diceva l’abate Dinouart – dobbiamo sempre diffidare di noi stessi: la smania di dire qualcosa sarebbe già un motivo sufficiente per tacerla”.


sabato 2 ottobre 2021

I 99 anni di Raffaele La Capria

 


E’ il mio terzo post, di fila, che dedico a Raffaele La Capria e ai suoi libri: domani il grande scrittore e intellettuale napoletano compie la bellezza di 99 anni. Auguri vivissimi, maestro!

Avevo l’abitudine, tempo fa – quando tutti i giorni compravo un giornale (ora non più) - di ritagliare e conservare quegli articoli che più mi interessavano. Li raccoglievo in una bella cartella e, di tanto in tanto, mi capitava di aprirla per rileggere qualcosa. E così ho fatto l’altro giorno, quando mi sono imbattuto in un elzeviro scritto una quindicina di anni fa proprio da Raffaele La Capria su “La Repubblica” intitolato “Il gioco dello sparire”, con cui lo scrittore faceva una riflessione sulla morte. “Noi tutti viviamo – scriveva La Capria – come se non sapessimo di dover morire, è stato detto ed è vero. Meno male. Se prendessimo la cosa sul serio (come meriterebbe), chi muoverebbe un dito? Chi si darebbe da fare per ottenere questo o quello? E dove finirebbe il desiderio di amore, di potere, di fama e di gloria? Dunque, vivere come se si fosse immortali è una prerogativa della giovinezza”. Ma la giovinezza non dura per sempre  e allora arriva un momento, prima o poi, in cui si finisce inevitabilmente per pensare alla morte. Anche se la morte ci fa paura solo a nominarla. Per La Capria questo pensiero arrivava proprio nei momenti più belli, magari quando stava seduto sul terrazzo della casa di Capri ad ammirare il magnifico panorama che gli si presentava davanti, ed allora “il pensiero della morte, non come cosa temuta ma come presenza che dava valore al momento che stava trascorrendo, arrivava di soppiatto”. Lui dice che chiudeva gli occhi e immaginava il dopo, l’Eterno. Allora sparivano i rumori, la bellezza che stava ammirando, le fusa della sua gattina, la barca che filava lontano sul mare e subentrava un silenzio immenso dove pian piano anche lui spariva, anzi si annullava. Poi di colpo riapriva gli occhi e tutto ritornava come prima. E questa sensazione, scriveva La Capria in quel suo articolo, era bellissima. Era come se la bellezza e la fugacità delle cose e della vita giocassero a nascondino. E questo gioco “dell’apparire e scomparire” era uno di quelli che più lo divertivano quand’era bambino, con un senso di meraviglia e di timore.

Superati gli ottant’anni, La Capria lasciò la casa di Capri e questo diede inizio a un nuovo rapporto tra lui e il pensiero della morte. “Perchè mentre prima era soltanto un’acquisizione della coscienza…dopo è diventato rassegnazione. Non più sapere che moriremo, ma rassegnarsi a poco a poco a una fine vicina”. Ma il problema della vicinanza è un altro mistero della vita, dice lo scrittore “e può essere rivelato nei momenti più banali”. Lui aveva 85 anni quando andò da un dottore per una visita di routine e in quella circostanza scoprì che il suo corpo era “abitato dall’Estraneo”. Ma il medico gli disse di stare tranquillo perché “l’Estraneo” non ce l’avrebbe fatta ad estendersi perché la morte lo avrebbe fregato arrivando certamente prima di lui. Scriveva La Capria: “Bella soddisfazione! Ecco, così mi è stato rivelato il senso della vicinanza, così è nata la persuasione. Una persuasione che non è solo sapere che tutti dovremo morire – sentimento da tutti in modo diverso condiviso – ma significa rassegnarsi alla propria morte, vicina, anzi prossima ventura, preparandosi adeguatamente, col distacco e con la distrazione vigilante, alla sua inevitabilità.” Ancora tantissimi auguri e lunga vita al nostro caro scrittore.

Ora mi viene da pensare che il prossimo anno dovrà essere eletto il nuovo Presidente della Repubblica. Ebbene, se Raffaele La Capria avesse avuto qualche anno di meno, sarebbe stato – almeno per me - il candidato ideale, una scelta di rottura rispetto al passato: uomo colto e raffinato, simpatico e affabile, conoscitore delle cose del mondo e soprattutto non legato ai giochetti della politica e della finanza. Con tutto il rispetto per gli attuali papabili, tra cui Draghi (patrimonio dell’umanità…), Berlusconi (ancora lui?...Signore abbi pietà di noi!), e poi Franceschini, Cartabia, Casini (Casini?...Signore pietà!!), Alberti Casellati… Così tanto per fare alcuni nomi che vanno per la maggiore.