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domenica 23 giugno 2024

Tecnica e Umanesimo

 


La mia forma mentis ha una configurazione prevalentemente umanistica, ma per il mondo di oggi è antiquata perché fatica a stare dietro al cambiamento tecnologico globalizzato e prevaricatore. Non riesce ad adeguarsi - la mia mente - alla velocizzazione del tempo con cui il mondo procede in questa sua corsa inarrestabile e folle verso non si sa dove. Lo stesso modello umanistico-esistenziale della società, che ha resistito fino ad oggi a tutti i cambiamenti della storia, sembra sia venuto meno: l’uomo non è più al centro dell’universo, è diventato quasi superfluo, per quanto ciò possa apparire assurdo. Altri soggetti hanno preso, o stanno per prendere il suo posto: i robot, gli algoritmi, i social, la rete, l’intelligenza artificiale. E se questo è il mondo che sta fuori di me e confligge con quello dentro di me, devo dire che - pur appartenendo fisicamente a questo mondo -  ne sono fuori mentalmente. Per formazione culturale, per convinzione, per filosofia di vita.

La tecnica, da utile strumento nelle mani dell’uomo, è diventata un soggetto autonomo che sfugge al suo controllo e lo domina. E rimuovendo quelle dimensioni irrazionali che sono alla base stessa dell’esistenza, quali l’immaginazione, il sogno, la riflessione, i sentimenti, la sacralità delle cose, rende indispensabili solo la velocità, l’efficienza, la produttività. E mira esclusivamente al suo auto potenziamento infinito. Ha preso il sopravvento - la tecnica - su tutte le altre attività nel determinare le aspettative dell’umanità; ha stravolto radicalmente pensieri e abitudini - a livello planetario - come nessuno aveva saputo fare prima attraverso due strumenti straordinari che, gestiti male, possono fare danni gravissimi: i cellulari e la rete. Strumenti che hanno mutato – in tempi brevissimi - tutte le regole della convivenza civile, della moralità, del linguaggio, dei comportamenti, della comunicazione. E noi, da utilizzatori della tecnica quali eravamo fino a poco tempo fa, siamo ora concretamente utilizzati dalla stessa. Ci illudiamo di gestirla ma, in realtà, ne siamo fortemente gestiti e guidati.

Mi sento disarmato, lo confesso, di fronte alla pervasiva sopraffazione del presente e agli imperativi imposti dalla tecnica. A volte mi viene da pensare – come estrema via di salvezza – a un luogo monastico, e invocare un Dio sconosciuto che possa favorire uno sviluppo sostenibile ad una crescita senza fine, il silenzio al rumore assordante delle macchine e delle parole, la lentezza alla velocità, la riflessione al vocalizzo mediatico privo di senso; che possa finalmente far tacere quei persuasori occulti che creano bisogni e vogliono insegnarti a vivere secondo i loro canoni devianti, secondo le loro mode di stagione. A volte sarebbe meglio non vedere, non sentire, non parlare, essere come gli animali che, forse, sono molto più felici di noi perché vedono solo ciò che detta loro l’istinto. Nell’era dei media elettronici e digitali, non esiste più un luogo sulla terra per sottrarsi alla condizione di essere sempre informati. O meglio, disinformati. E inseguiti dalla pubblicità che martella il cervello ovunque ti trovi.

Il progresso non ha migliorato l’uomo nella sua essenza più nobile: il pensiero. Ne ha solo modificato fortemente i comportamenti e il modo di comunicare. E’ triste pensare che io possa desiderare un contatto immediato con uno sconosciuto che sta in un paese dell’Oceania e ignorare, invece, il vicino seduto di fronte a me nello scompartimento di un treno. La tecnica inaridisce l’uomo, lo allontana dalla realtà e dal presente, non gli permette di chiedersi più nulla, modifica il suo modo di pensare (in attesa dell’intelligenza artificiale che penserà per lui), gli porge i suoi strumenti sempre più potenti che in qualche maniera gli facilitano la vita materiale, ma non lo aiutano a trovare il senso vero dell’esistenza. Ebbene, se questo è il migliore dei mondi possibili, bisogna allora chiedersi se non sia arrivato il momento di “coltivare il proprio giardino”, come sostiene quel famoso personaggio di Voltaire, Candido, che dà il titolo al suo omonimo romanzo filosofico.


sabato 8 giugno 2024

La giornata d'uno scrutatore

 


Una giornata da scrutatore, in una sezione elettorale all’interno di un luogo di sventura come il Cottolengo di Torino, può insegnare qualcosa a un cittadino? E quel cittadino può arrivare alla fine della sua giornata, in qualche maniera, diverso da com’era al mattino? Non sto parlando delle elezioni europee che si stanno svolgendo in queste ore nei vari paesi dell'unione (…hanno poco da insegnare), ma di un romanzo di Italo Calvino che si intitola, appunto, “La giornata d’uno scrutatore”. Ebbene, solo un grande scrittore come Calvino poteva porsi simili domande e raccontarle in una storia (in meno di cento pagine) dove, praticamente, non succede quasi nulla. Solo le riflessioni del protagonista - Amerigo Ormea - un intellettuale comunista (alter ego dello scrittore), che si trova a osservare un mondo fatto di ricoverati infelici senza capacità di intendere, di parlare e di muoversi, ai quali viene imposta questa “finzione di libertà”: esercitare il diritto di voto (siamo nel 1953) accompagnati dai loro assistenti, un prete o una monaca.

Il mondo della bellezza, della sicurezza e della normalità sembra svanire all’orizzonte, di fronte a quel mondo di cittadini sfortunati. E’ un’Italia nascosta che non conta niente, quella che sfila davanti agli occhi del protagonista del libro, che viene però sfruttata per un voto. E’ il rovescio di quell’Italia che si mostra al sole, che cammina per le strade e che pretende e che produce e che consuma…è il Piemonte miserabile che sempre stringe dappresso il Piemonte efficiente e severo. Ma “se il solo mondo al mondo fosse il “Cottolengo”, pensava Amerigo, senza un mondo di fuori che, per esercitare la sua carità, lo sovrasta e schiaccia e umilia, forse anche questo mondo potrebbe diventare una società, iniziare una sua storia…e più la possibilità che il “Cottolengo” fosse l’unico mondo possibile lo sommergeva, più Amerigo si dibatteva per non esserne inghiottito”.

Mi è piaciuto molto questo libro: fa molto riflettere, così diverso dalle tematiche avventuroso-fantastiche dei romanzi più noti di Italo Calvino, il quale ebbe a dire che per scrivere un libro così breve come “La giornata d’uno scrutatore” ci mise ben dieci anni, più di quanto avesse impiegato per ogni altro suo lavoro.