La mia forma mentis ha una configurazione
prevalentemente umanistica, ma per il mondo di oggi è antiquata perché fatica a
stare dietro al cambiamento tecnologico globalizzato e prevaricatore. Non
riesce ad adeguarsi - la mia mente - alla velocizzazione del tempo con cui il
mondo procede in questa sua corsa inarrestabile e folle verso non si sa dove. Lo
stesso modello umanistico-esistenziale della società, che ha resistito fino ad
oggi a tutti i cambiamenti della storia, sembra sia venuto meno: l’uomo non è
più al centro dell’universo, è diventato quasi superfluo, per quanto ciò possa
apparire assurdo. Altri soggetti hanno preso, o stanno per prendere il suo
posto: i robot, gli algoritmi, i social, la rete, l’intelligenza artificiale. E
se questo è il mondo che sta fuori di me e confligge con quello dentro di me, devo
dire che - pur appartenendo fisicamente a questo mondo - ne sono fuori mentalmente. Per formazione culturale,
per convinzione, per filosofia di vita.
La tecnica, da utile strumento
nelle mani dell’uomo, è diventata un soggetto autonomo che sfugge al suo
controllo e lo domina. E rimuovendo quelle dimensioni irrazionali che sono alla
base stessa dell’esistenza, quali l’immaginazione, il sogno, la riflessione, i
sentimenti, la sacralità delle cose, rende indispensabili solo la velocità, l’efficienza,
la produttività. E mira esclusivamente al suo auto potenziamento infinito. Ha
preso il sopravvento - la tecnica - su tutte le altre attività nel determinare
le aspettative dell’umanità; ha stravolto radicalmente pensieri e abitudini - a
livello planetario - come nessuno aveva saputo fare prima attraverso due
strumenti straordinari che, gestiti male, possono fare danni gravissimi: i
cellulari e la rete. Strumenti che hanno mutato – in tempi brevissimi - tutte
le regole della convivenza civile, della moralità, del linguaggio, dei
comportamenti, della comunicazione. E noi, da utilizzatori della tecnica quali
eravamo fino a poco tempo fa, siamo ora concretamente utilizzati dalla
stessa. Ci illudiamo di gestirla ma, in realtà, ne siamo fortemente gestiti e guidati.
Mi sento disarmato, lo confesso,
di fronte alla pervasiva sopraffazione del presente e agli imperativi imposti
dalla tecnica. A volte mi viene da pensare – come estrema via di salvezza – a
un luogo monastico, e invocare un Dio sconosciuto che possa favorire uno
sviluppo sostenibile ad una crescita senza fine, il silenzio al rumore
assordante delle macchine e delle parole, la lentezza alla velocità, la riflessione
al vocalizzo mediatico privo di senso; che possa finalmente far tacere quei
persuasori occulti che creano bisogni e vogliono insegnarti a vivere secondo i
loro canoni devianti, secondo le loro mode di stagione. A volte sarebbe meglio
non vedere, non sentire, non parlare, essere come gli animali che, forse, sono
molto più felici di noi perché vedono solo ciò che detta loro l’istinto. Nell’era
dei media elettronici e digitali, non esiste più un luogo sulla terra per sottrarsi
alla condizione di essere sempre informati. O meglio, disinformati. E inseguiti
dalla pubblicità che martella il cervello ovunque ti trovi.
Il progresso non ha migliorato l’uomo nella sua essenza più nobile: il pensiero. Ne ha solo modificato fortemente i comportamenti e il modo di comunicare. E’ triste pensare che io possa desiderare un contatto immediato con uno sconosciuto che sta in un paese dell’Oceania e ignorare, invece, il vicino seduto di fronte a me nello scompartimento di un treno. La tecnica inaridisce l’uomo, lo allontana dalla realtà e dal presente, non gli permette di chiedersi più nulla, modifica il suo modo di pensare (in attesa dell’intelligenza artificiale che penserà per lui), gli porge i suoi strumenti sempre più potenti che in qualche maniera gli facilitano la vita materiale, ma non lo aiutano a trovare il senso vero dell’esistenza. Ebbene, se questo è il migliore dei mondi possibili, bisogna allora chiedersi se non sia arrivato il momento di “coltivare il proprio giardino”, come sostiene quel famoso personaggio di Voltaire, Candido, che dà il titolo al suo omonimo romanzo filosofico.