venerdì 31 dicembre 2021

Cenone e veglione

 


Ci sono alcune parole che non riesco proprio a digerirle, mi provocano una sorta di reazione allergica ogni volta che le sento pronunciare. Sono tutte quelle parole che hanno la desinenza “one” e determinano un ambiguo accrescitivo. Due di queste, in particolare, si presentano immancabilmente alla fine di ogni anno solare, e non esiste pandemia in grado di liberarcene: cenone e veglione. Le due parole vivono in stretta correlazione, direi quasi in simbiosi, e l’una non può esistere senza l’altra. Con chi fai il cenone? Ti senti chiedere il 31 dicembre di ogni anno. E il veglione? Se gli rispondi che l’ultimo giorno dell’anno hai l’abitudine di fare una cena normale, morigerata come sempre, senza abbuffarti perché non ne vedi la ragione; se gli fai capire – pacatamente - che durante le feste di fine anno vorresti fuggire su una montagna e nasconderti in un eremo, lontano dalle cataste di panettoni, dai regali e dal profluvio di luminarie intermittenti, ti guardano male. Il disprezzo nei tuoi confronti, poi, è palese sui loro volti se vengono a sapere che non aspetti nemmeno la mezzanotte, per il brindisi finale davanti al televisore, e te ne vai a dormire alla tua solita ora, incurante dei botti e della festa che incalza. Si, perché il cenone e il veglione casalingo procedono di pari passo con il cenone e il veglione televisivo. Assistiamo, in quest’ultimo caso, ad un tripudio di urla, balli sfrenati, risate sgangherate e contentezza prorompente da parte di un cast composto da tutte le mezze figure del video nazionale, condotto dal solito presentatore di turno, che invita contemporaneamente, spettatori a casa e attori e pubblico televisivi, a tenere d’occhio il grande orologio che campeggia in sala. Mancano ancora 3 ore…mancano ancora 2 ore – urla eccitato il grande cerimoniere - e così di seguito fino al fatidico conto finale, meno tre…meno due… quando cresce l’esaltazione collettiva e scoppia la felicità. Baci, abbracci, spari, gioia incontenibile: è arrivato il nuovo anno. Un clima, questo, che evoca il crollo dell’impero romano prima dell’arrivo dei barbari a porre fine, pietosamente, alla lancinante agonia di una civiltà. 

Speriamo che l'anno che verrà sia migliore!


martedì 14 dicembre 2021

Il blogger, questo sconosciuto

 


Scrivo su questo blog da quando sono andato in pensione, e devo dire che tutto è nato per gioco: volevo vedere l’effetto che fa. Ancora prima, avevo l’abitudine di scrivere al computer le “recensioni” dei libri che leggevo, salvandole in un semplice file word: mi piaceva, ogni tanto, rileggerle per rinfrescarmi la memoria su questo o quel libro. Diciamo che ho trasformato quel mio iniziale esercizio di scrittura in un blog, con l’aggiunta di post attinenti altre tematiche. E sono qui da oltre otto anni, senza infamia e senza lode. Ma non sono molto prolifico: pubblico 3/4 post al mese, al di sotto della frequenza media di pubblicazione che – secondo certi “esperti” del settore - dovrebbe essere di 2/3 a settimana. Ciò, al fine di instaurare una quotidiana connessione con chi ti legge, e convincere Google ad inserire il tuo blog tra le prime pagine di ricerca. Ma io non ho di queste velleità e poi non ho seguaci, i “famigerati” follower, che aspettano ansiosi il mio ultimo post.

Scrivere è una cosa seria e impegnativa: ma non è il mio mestiere. A volte mi sento addirittura inadeguato in questo ruolo, perché non sono nato con la penna in mano (come si suol dire), né ho l’impertinenza di affermare che non potrei vivere se non scrivessi, come mi capita di leggere in giro. Certo, la scrittura rappresenta un ottimo esercizio per l’anima e per la mente, sostiene la memoria e ti fa stare bene. Può essere un valido strumento di analisi e di ascolto che ti aiuta a riflettere. E se non mi esercitassi in questa maniera, credo che oggi sarei ridotto a scrivere solo la lista della spesa e i bollettini postali. Perciò, con fatica, resisto e vado avanti. Non dobbiamo però dimenticare – noi tutti che curiamo un blog - che verba volant, scripta manent, come dicevano gli antichi. Quindi bisogna stare attenti a quello che viene disseminato nella blogosfera, un mondo dominato dalle parole che sempre più spesso perdono di significato e di valore. Una volta scritte, diventano parole pubbliche che acquistano un peso, una vera responsabilità. E restano lì, a disposizione, per chissà quanto tempo. Un mondo - questo della rete - dove tutti trafficano con la scrittura, dove si può scrivere qualsiasi sciocchezza, qualsiasi affermazione senza bisogno di verificarla, anzi sapendo che è infondata, spacciando un vocabolario spesso ingannevole senza che ciò porti discredito alla dignità di chi scrive. E anche chi scrive su un blog è responsabile delle sue parole, e perciò deve rispettare i lettori oltre che salvaguardare la sua integrità di persona attraverso il linguaggio scritto che divulga in rete, usando quello più appropriato, più corretto.

Cesare Pavese diceva che “è bello scrivere perché riunisce le due gioie: parlare da solo e parlare ad una folla”. E forse è questa la molla che spinge ad aprire un blog: scrivere, prima ancora che per un piacere personale, per l’inconfessabile desiderio di vedere qualcuno che ti legge. A dir la verità, quando scrivo un post non ambisco a tanto, o meglio non mi illudo di parlare ad una folla. Immagino, sempre, di parlare da solo, anche se, da qualche parte, ci sono quelle due/tre persone che si ostinano a leggermi (ringrazio di cuore) e a lasciare qualche commento pur non avendo il sottoscritto meriti particolari.

Ho letto che nel mondo, secondo le statistiche, esistono oltre 400 milioni di blog (22 milioni solo in Italia) e ogni giorno vengono pubblicati su WordPress circa 70 milioni di post. Numeri pazzeschi che fanno capire quanto spietata sia la concorrenza. D’altra parte le visualizzazioni di un blog sono legate spesso a un principio: “do ut des”. E io dò davvero poco alla blogosfera perché non sono presente sui social, non ho cellulari, seguo saltuariamente solo due/tre blog, non resisto in Internet più di mezz’ora. E non sempre lascio commenti al blog visitato. Ma anche il commento deve avere una sua dignità, al pari del post. Certo, ognuno è libero di scrivere quello che vuole. Ma ha un senso fare un post scrivendo che oggi sono andato a farmi il vaccino anti covid, e ricevere il commento di uno che afferma di averlo fatto ieri? E poi ancora un altro che andrà a farlo domani? Devo constatare che spesso i post e i commenti sono di questo tono. Forse è un modo per allungare il numero dei post pubblicati e fare adepti e aumentare le visualizzazioni, ma di certo, questo, non arricchisce uno strumento nato con l’intento di pubblicare contenuti meno banali.

Durante i primi tempi - forse infervorato dalla novità ed esaltato dall’idea che ci potesse essere qualcuno interessato ai miei scritti, che non aspettasse altro che un mio post giornaliero - davo più spazio al mio narcisismo (sentimento questo che gioca un ruolo fondamentale nella blogosfera), e mi impegnavo molto di più: e i post crescevano e si susseguivano uno dietro l’altro, in tempi brevi. Pensavo – come forse pensano un po' tutti - che il successo di un blog dipendesse esclusivamente dall’ultimo post pubblicato, e non già dai precedenti che, secondo una consolidata credenza, pare non contino più nulla, non siano più leggibili, come se non esistessero. E’ raro, infatti, che un visitatore lasci un commento su un vecchio post, come avviene, invece, per l’ultimo nato. Io credo che un post scritto bene e con impegno negli anni passati - se non riguarda la stretta attualità - è sempre attuale per chi non l’ha letto. Per quanto mi riguarda (con tutto il rispetto per gli altri blogger che fanno altre scelte), è difficile che io scriva un articolo sulle scemenze che dice l’On. Caio o sulle frottole che racconta l’On. Sempronio, o su questo o quel delitto familiare di cui parlano largamente i media. I fatti di cronaca nera, gialla e rosa e il teatrino della politica trovano poco spazio sul mio blog. Per queste tematiche ci sono in giro giornalisti e persone molto più autorevoli e informate di me anche in rete, e non vedo quindi perché uno dovrebbe leggere la mia opinione per farsi un’idea su un determinato argomento, spesso inflazionato. Il blog, per quanto mi riguarda, non è un giornale che deve riportare le ultime notizie – che poi in certi periodi di vacche magre sono le stesse del giorno prima e del giorno prima ancora – ma una sorta di diario condiviso in cui specchiarsi, un raccoglitore di idee, di sentimenti, di sensazioni, di esperienze, di letture, di spunti di riflessioni che non hanno una scadenza e non sono legati al fatto del giorno. E allora, quando proprio non sappiamo che scrivere, meglio riproporre qualche vecchio post, che magari ha già avuto un discreto successo di lettori, di visualizzazioni e di commenti. E’ come riascoltare un vecchio disco, è come rileggere una poesia o una pagina di un bel libro. Senza ingolfare la rete di testi inutili e noiosi.


sabato 11 dicembre 2021

La felicità è adesso

 


Arriva all’improvviso,
dura quanto i cerchi nell’acqua dopo il sasso,
interrompe i pensieri, la malinconia,
non si fa prenotare, nessun appuntamento,
la misteriosa briciola della felicità.
Chi la riconosce troppo tardi
le manda un saluto alla memoria
di quando c’era e non la conosceva.
Prova a soffiarci sopra ma non serve,
non parte la scintilla della brace.
Allora ci sto attento,
nervo pronto alla scossa
elettrica, materna, pirotecnica
della felicità, eccola, è adesso.

Erri De Luca


mercoledì 1 dicembre 2021

Un'isola per cambiare vita

 


“che credibilità ha, chi non critica costruttivamente e fattivamente la sua vita, di criticare la società e il mondo?”

Simone Perotti, per chi non lo conosce, è un giornalista e scrittore nonché marinaio, di 56 anni. Un bel giorno del 2020 lui prende armi e bagagli e si trasferisce – insieme alla sua compagna - su un’isola greca dove ricostruisce un rudere, di fronte al mare, e ne fa la sua dimora prediletta, una casa a impatto zero, autonoma sotto tutti gli aspetti. Dalla città se ne era già scappato nel gennaio 2008, quando aveva lasciato Milano, licenziandosi dall’azienda in cui lavorava come manager, per rifugiarsi in una casetta di pietra in una vallata ligure, ristrutturata con le sue mani. Aveva deciso di vivere con il poco che riusciva ad ottenere vendendo i suoi libri, però coltivando l’orto, facendo il pane e riciclando qualsiasi cosa. “Sentivo che dovevo vivere altre vite e non proseguire con la stessa per i prossimi trenta”, scrive nel suo libro “L’altra via” con sottotitolo “costruirsi da soli una casa, progettare per tutti una nuova vita” (Solferino). Ma la vallata ligure non gli bastava. Aveva navigato per anni tra le isole mediterranee e ora aveva la sensazione che “bisognasse mettersi in salvo, e che andasse escogitata una strategia di sopravvivenza per tentare di rimanere esseri umani”. Ecco, quindi, l’isola greca di Citera, distesa tra lo Ionio e l’Egeo, l’ultima tappa di questo suo percorso esistenziale. La sua ancora di salvezza.

Ora ci si domanda: ma che cosa può spingere, oggi, un uomo a lasciare le sicurezze e le comodità di una vita per un’isola remota? La risposta la possiamo trovare leggendo il suo libro, che Perotti ha scritto anche “per suscitare una riflessione allargata” : non gli andava, egli dice, “di saltare dal treno in fiamme da solo”. Mi limito a riportare, di seguito, alcune sue riflessioni in cui mi ritrovo (e per questo lo ringrazio) anche se - lo ammetto – io forse non sarei mai capace di fare una scelta di vita così radicale. Però mi piace sognarla.

“Io e F. cercavamo un po' di cose per vivere decentemente, ed eravamo pronti a pagare tutti i prezzi necessari, soprattutto in termini di scelte. L’isolamento, per esempio. Siamo gente a cui piace stare con gli altri, ma abbiamo bisogno di solitudine per una quota maggioritaria del tempo. Solitudine dal mondo, e anche l’uno dall’altra…Io vivo come una specie di eremita da ben prima di conoscerla. Se esco di casa è perché sto partendo, altrimenti non mi si vede mai in giro. Poi, all’improvviso, mi viene un gran desiderio di stare con le persone che amo, e allora scateno baccanali, organizzo una festa, ma fino a quel momento posso stare da solo per mesi, in compagnia delle mie moltitudini. Ho lasciato lavoro, carriera, stipendio per studiare e scrivere, due cose che si fanno da soli…Non ci piace il rumore della città, né qualunque affollamento. Se c’è da fare una fila, cambiamo programma…

Io dalla città sono venuto via perché non potevo più vivere senza avere intorno alberi, senza gli animali del bosco, a pochi metri da me, senza la terra sotto le piante dei miei piedi…Ho regalato tutti i vestiti nell’armadio, decine di cravatte, una marea di oggetti inutili, simboli di un camuffamento innaturale. Vivo un’estate intera con una maglia, sempre con lo stesso paio di braghette sdrucite. Se si strappano le cucio. Sto scalzo sette o otto mesi l’anno…Siamo entrambi del tutto disinteressati ai vestiti firmati, ai negozi, ai centri commerciali, al consumo…Non ci interessano le automobili, altro che per la funzione che svolgono.

Sono anche convinto che nelle città, tra mutamenti del clima e minacce di vario genere, le cose andranno sempre peggio. Non sopporto il traffico, l’affollamento, l’idea stessa che bisogna comprare tutto, che non si possa fare niente per proprio conto…Entrambi amiamo il Sud, il profumo di limone, fico, finocchio selvatico. Più che amarlo, ne abbiamo bisogno…

Diciamo anche le cose come stanno: non ci riconosciamo più nella società degli uomini, almeno per come è diventata nella maggioranza dei casi. Lo so che suona male, e mi vergogno anche un po' a scriverlo, ma non ci posso fare niente…E tuttavia, quasi tutto quello che sento oggi, che leggo sui social network, sui giornali, che vedo accadere, mi appare distante, sembra l’eco di una voce che parla in una lingua che non possiedo. Il telegiornale riferisce fatti e opinioni di una cultura che non è la mia, dove le cose hanno un ordine di importanza capovolto, e dove tutto pare destinato a peggiorare, insistere nella direzione sbagliata. In questo ultimo periodo, poi, se ascolto un notiziario o un programma di approfondimento, non condivido nulla, non i contenuti, non le espressioni, e neppure il tono dato alle parole. …Per me è come se ci fosse un’occupazione in corso, come se un esercito alieno stesse dilagando, e bisognasse andare in montagna per rimanere liberi, facendo i partigiani…Noi ci autofinanziamo con l’autonomia, l’autoproduzione e la sobrietà…non andiamo quasi mai al ristorante, perché pagare di più ciò che potremmo prepararci con maggiore soddisfazione e un decimo del costo non è sensato…non compriamo niente che non sia necessario. Siamo ambientalisti, senza alcun radicalismo o fisse inutili, ma in modo determinato e sistematico, ogni giorno, il più possibile, scegliendo le pratiche migliori…Se andiamo su una spiaggia, torniamo sempre con una busta di plastica piena di immondizia raccolta lì. Ho stimato che per un’isola come l’Elba basterebbe che circolassero trenta persone motivate e sarebbe il luogo più pulito del mondo…

Gli italiani sono cambiati, sono tesi, ansiosi, angosciati, arrabbiati, e avere sempre intorno gente col fiato corto fa male…sono diventati troppo spesso arroganti, annoiati e ignoranti come delle zappe vecchie, e in più con un pessimo carattere. Ci sono in giro un mucchio di razzisti, intolleranti, gente che quando parla mi fa rabbrividire…viviamo tutti con un insufficiente spazio per lo spirito, e poco anche pe la vita solitaria e le relazioni autentiche…

Quando non si buttava niente, ogni cosa veniva rispettata per il valore che aveva, cioè per la fatica che era costata produrla. Nella mia Repubblica ideale, l’atto di gettare via è un reato…a me il buon contadino di un tempo affascina per alcune cose, ma non aspiro affatto a tornare ai suoi tempi. Voglio progredire, non recedere…Abitare non è un fatto occasionale, temporaneo, dettato dall’esigenza strumentale di stare lì perché l’ufficio è vicino, o perchè c’è la fermata del metrò. Questo accade nelle città, è normale nel nostro alienato sistema di vita, dove abitare non è più una funzione del vivere. Si vive dove si abita, mentre dovrebbe essere il contrario…

Il denaro, uno strumento, è diventato l’obiettivo assoluto: un fine. E pensare che il denaro era nato per semplificare il negotium: un portafogli in tasca era più pratico che andare in giro con tre galline da barattare con una zappa. Il mezzo che diventa obiettivo finale è il tipico campanello d’allarme della nevrosi…Ci assicuriamo per tutta la vita contro danni che mai o quasi mai subiamo…correre dietro alle sicurezze assolute si vive sempre più insicuri, assediati dalla paura, e per di più incapaci di difenderci a dovere…L’uomo antico, che pativa ogni genere di rischio (invasioni, malattie, soprusi, fame, carestie, violenza…) senza medicine, diritti, risarcimenti e aiuti statali, pare vivesse più sereno di noi…”