Ci siamo ritrovati
all’improvviso barricati in casa, spaventati e prigionieri delle nostre inquietudini
generate da un nemico invisibile e sconosciuto: il coronavirus. Non eravamo preparati
ad una segregazione in casa così lunga e forzata. Avevamo lasciato, fuori, il
mondo che più amiamo, forse più della nostra stessa casa: rumoroso, caotico e
inquinato, il mondo globalizzato creato in pochi decenni a nostra immagine e
somiglianza, che sembrava potesse offrirci sicurezza e certezze. Un mondo,
quello, al centro del quale, da un po’ di anni a questa parte, non c’è più
l’uomo, con la sua immensa fragilità; non c’è più la natura incontaminata con
il suo ordine e con il suo equilibrio geologico raggiunto attraverso migliaia e
migliaia di anni; ma c’è il potere economico e finanziario sorretto dal dio
denaro che tutto calpesta: territorio e salute, sentimenti e qualità della vita.
Credevamo di essere inattaccabili e invulnerabili: onnipotenti. Pensavamo di
essere padroni incontrastati del pianeta, un pianeta da manipolare e sfruttare
e stravolgere a nostro piacimento nei suoi aspetti naturali e climatici. Sicuri
del fatto che nulla potesse mettere in discussione il nostro comportamento, assistevamo
giorno dopo giorno al primato dell’eccesso sulla moderazione, della velocità e
del “tutto subito” sulla lentezza e sulla riflessione, della competizione
sfrenata sulla solidarietà, della produzione globale su quella locale, dell’efficienza
produttiva sul piacere per le piccole cose. Avevamo maturato la convinzione che
l’acquisto e il consumo smodato di beni e di merci e lo stordimento attraverso
divertimenti eccessivi ci avrebbero resi felici.
Rincorriamo, da molti anni, la
crescita illimitata del Pil anziché una migliore qualità della vita, pur
sapendo che nella formulazione di questo indicatore – il famigerato Pil - non sono
comprese quelle attività e quelle risorse che - non avendo un indicatore commerciale
– non vengono prese in considerazione: come l’acqua limpida e pura e l’aria
fresca e non inquinata; la genuinità dei cibi che arrivano sulla nostra tavola
e la salute dei nostri figli; la qualità della loro istruzione e la spontaneità
dei loro svaghi; la vivibilità delle nostre città e il valore dell’arte nella
crescita sociale e culturale; e poi l’importanza del verde pubblico e delle foreste,
che purtroppo stiamo distruggendo. E’ bastato un microscopico virus – che
certamente non è uscito dal cappello di un prestigiatore ma è il frutto delle
nostre scellerate condotte di vita – per farci finalmente capire che abbiamo un
corpo che si può ammalare e con esso l’intera impalcatura esistenziale su cui
abbiamo costruito il nostro presente; e ci siamo resi conto, forse per la prima
volta, di quanto siamo fragili e vulnerabili.
La nostra casa, rifugio caldo
e confortevole che ci accoglieva dopo una giornata di lavoro e di svago, improvvisamente
è diventata una sorta di prigione. “State a casa”, ci siamo sentiti dire in
questi giorni dagli uomini delle istituzioni e dai mezzi di informazione di
massa. Ma, per noi, la vita non si svolgeva tra queste quattro mura, ma fuori,
tra quelle piazze e quelle vie, ora vuote e spettrali, ma prima superaffollate
di gente e di macchine, impregnate di rumori e di smog, brulicanti di attività
frenetiche. La vita vera, così come l’avevamo impostata, era fatta di velocità
e di incontri, di affari e di continui spostamenti da un punto all’altro del
pianeta, di sprechi e di bisogni superflui, di ritmi serrati e snervanti; la vita
vera era fatta di tempo libero vissuto in maniera nevrotica nei posti di
villeggiatura presi d’assalto dal turismo di massa.
Abbiamo intrapreso un percorso
esistenziale che, se oggi ha partorito la tragedia che stiamo tutti vivendo,
nei prossimi decenni l’umanità potrebbe trovare sulla propria strada nuove
minacce: un virus diverso o il collasso ecologico. Si, perché a causa del
criminale sfruttamento dell’ambiente,
che provoca danni irreversibili e cambiamenti devastanti alla
composizione della terra, dell’acqua e dell’aria che respiriamo, la natura prima
o poi ci chiederà il conto. Dicono - gli ottimisti - che non tutti i mali
vengono per nuocere e che questa tragedia globale ci renderà migliori. Dicono
che questo nemico invisibile, che ora ci costringe a stare chiusi in casa e a
mantenere le distanze sociali, cambierà i nostri comportamenti futuri, le
nostre consolidate abitudini. Lo confesso: io non credo a questa metamorfosi e nutro
seri dubbi sul nuovo umanesimo che dovrebbe investire i nostri tempi. Ho
l’impressione che la gente già scalpiti per poter ricominciare tutto daccapo. Magari recuperando il tempo perduto in casa, perché il lupo perde il pelo ma
non il vizio. E allora, io credo che – superata la fase 1 e poi la fase 2, con
le sue regole rigide, con le sue mascherine e la distanza sociale – con la fase
3 e la fase 4 tutto tornerà come prima. E chi, già prima, conduceva una vita
equilibrata, semplice e appartata, rispettosa dell’ambiente, lontana dagli affollamenti
e dagli spostamenti frenetici, e si affidava ai ritmi lenti dell’esistenza,
immaginando il luogo in cui vive quale centro insostituibile del mondo –
essenziale per dare un senso alla propria esistenza - sarà invogliato ancor di
più a continuare su questa strada, ed a privilegiare la quiete della propria
casa ad una strada affollata e caotica. Chi, invece – prima del coronavirus -
aveva una diversa filosofia di vita, molto più movimentata e stressante, priva
del senso del limite e della misura, basata sulla velocità piuttosto che sulla
lentezza, la cui unica finalità era quella di produrre e consumare e sprecare e
inquinare e distruggere e sporcare e viaggiare, sempre di più, da un punto
all’altro della terra in poche ore, non vedo come possa rinsavirsi - così da un
giorno all’altro - modificando il proprio stile di vita per uno più morigerato
e corretto. Abbiamo una memoria cortissima, e fra qualche mese, quando il
coronavirus con i suoi morti e con le sue sofferenze sarà un lontano ricordo,
nessuno si ricorderà più dei buoni propositi di cambiamento sociale, oggi da
tutti auspicati.