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sabato 16 settembre 2023

Compagni di scuola

 


Ritrovarsi con dei vecchi compagni di scuola che non vedi da oltre mezzo secolo – lo confesso – fa uno strano effetto, tanto disorientante quanto emozionante. E’ un po' come ritrovare la strada perduta, o meglio, ritrovare finalmente se stessi attraverso gli altri.

Quante volte avevo guardato quella vecchia e ingiallita foto di gruppo, in bianco e nero, scattata sul piazzale antistante la scuola dove quell’anno (credo fosse il 1967) frequentavo la quarta ginnasio! Quanti ricordi mi trasmetteva quella fotografia a cui ero molto affezionato, ogni qualvolta mi capitava di osservarla! In prima fila, il Preside, una persona molto severa che suscitava, ai professori prima ancora che a noi studenti, un certo timore reverenziale per la sua grande cultura; e poi il timido e pacato professore di Lettere che addirittura arrossiva in certe particolari occasioni; e come non ricordare il mitico professore di educazione fisica che ci chiamava “bifolchi” quando lo facevamo arrabbiare. Scrutando quei volti, a volte mi domandavo: chissà cosa farà, oggi, il mio ex compagno di banco, Germano: invidiavo (io che ero un timido inguaribile) i suoi interventi sempre appropriati su qualsiasi argomento scolastico. E poi Giuseppe B., il più bravo della classe:  uno studioso instancabile! E poi ancora Antonio P. con quella sua aria da filosofo incompreso che si illudeva di sapere tutto! E Michele, con quella sua faccia un po' così, da Adone malinconico, il più corteggiato dalle donne! E già: le nostre donne, le nostre care compagne di classe che erano in minoranza rispetto a noi maschietti: la dolce Gina, la silenziosa Filomena, l’ironica e sempre pungente Piera, e poi Rosa, Irene….e le altre due compagne di cui non ricordavo più il nome e a cui oggi chiedo scusa. Ma il tempo, ahimè, fa di questi scherzi!

Poi un bel giorno di fine estate – dicevo - mi arriva una chiamata sul telefono di casa (non so come abbiano fatto a rintracciarmi, visto che non ho cellulari e non sto sui social e cerco di sfuggire a tutti i radar). “Sono Rosario” – mi dice una voce dall’altra parte – “ti ricordi di me? 4^ C, secondo banco, fila centrale. Ti aspettiamo…non puoi mancare…vengo a prenderti alla stazione” (gli avevo detto che abitavo a Roma). Andare o non andare? Di fronte ad una rimpatriata scolastica, a distanza di tanti anni, si affaccia sempre una sorta di timore generato dal confronto tra il passato e il presente. Mi viene in mente quella famosa battuta di Nanni Moretti nel film “Ecce bombo”, quando il protagonista dice al telefono: “mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?” Nonostante la mia titubanza, la mia indole solitaria, sciolgo il dilemma: prendo il treno e parto. Ero curioso di vedere come “eravamo ridotti” dopo 53 anni di lontananza. Volevo vedere la mia vecchiaia stampata sul volto di quei miei ex compagni di scuola. Ero curioso di scoprire  i successi e i fallimenti, le gioie e i dolori che la vita aveva imposto a ciascuno di noi. E mentre il treno mi portava nel luogo stabilito, mi veniva da pensare che a volte si trascorre una vita intera preparandosi a un avvenimento: e quell'avvenimento sembrava essere, ora, la nostra rimpatriata partorita dalla mente di qualcuno che forse, più di tutti, avvertiva questa nostalgia. Nel corso degli anni tutto sembra conservarsi, però si scolorisce come quella fotografia che avevo sotto gli occhi di un passato ormai lontano, che ci ritrae ragazzi inconsapevoli del proprio futuro. E così sbiadiscono, ma non muoiono mai, anche i ricordi. E ora che sono “vecchio” penso spesso alla mia gioventù. Dicono che sia una cosa naturale: quando l’inverno si approssima, il ricordo delle belle giornate estive si fa più forte.

E così ci siamo finalmente ritrovati - con esistenze e caratteri diversi, ma soprattutto con un aspetto fisico che ha messo a dura prova la nostra memoria visiva - in un ristorante affacciato sul meraviglioso mare del Cilento dove aleggia il mito di Palinuro, il nocchiero di Enea, annegato proprio da quelle parti. Un vero salto nel passato con gli stessi attori, solo un po' invecchiati. Baci, abbracci, emozioni, amnesie, risate, sguardi meravigliati… “ma tu chi sei? Oddio non ti riconosco”…”ma che piacere rivederti”…”ma non sei per niente cambiato, forse eri già vecchio prima”…”ma adesso che sei in pensione come passi il tempo?.… Giuseppe…Gaetano…Enzo…Irene…Antonio e tutti gli altri, compresi quelli che, purtroppo, non ci sono più…Dante…Mario…Fernando, a cui va il nostro pensiero.

Una rimpatriata di classe a volte può ricompattare un gruppo che, forse, in tempi scolastici non era affatto unito. Non esistono più invidie, rivalità, rancori, paure, sentimenti propri di una certa età. Si è più liberi e disincantati, non si ha più nulla da perdere, si è in pace con se stessi, con il mondo...e con la scuola. Si è più disponibili all’amicizia e ai ricordi. Devo dire che per qualche ora siamo ritornati ad essere i ragazzi spensierati di un tempo, dimenticando le nostre rispettive responsabilità, i nostri attuali ruoli sociali e familiari. Sono riaffiorati i ricordi, i momenti condivisi fatti di complicità tra i banchi di scuola, gli sfottò, tra risate e felicitazioni. L’occasione ci ha permesso di conoscerci meglio e di raccontare le nostre vicende personali, le nostre storie, i nostri rimpianti e di riannodare i fili di un’amicizia rimasta, per tanti anni, accesa come la brace sotto la cenere. E ora che ci siamo ritrovati, ci siamo ripromessi di rivederci al più presto, perché davanti a noi non c’è più una prateria ma solo un piccolo orticello che va coltivato con passione, giorno dopo giorno.


lunedì 11 settembre 2023

Vagabondare in autunno

 




Mi viene da pensare: ma dove eravamo rimasti? Poi mi rendo conto che una simile domanda non è più sostenibile, appare quanto mai anacronistica, fuori dal tempo. Io però mi ostino ad andare controcorrente. Con i moderni mezzi di comunicazione, oggi non esiste più sospensione tra il prima e il dopo. Non ci si lascia mai. Si è sempre connessi con il mondo intero senza soluzione di continuità. E non esiste più l’attesa. Abbiamo rinunciato alla “vigilia”, un tempo prolungato di felicità e di piacere, saltando direttamente alla festa che è, invece, un tempo breve che vola via in un attimo. Intanto il tempo inesorabilmente scorre, come sempre, rosicchiando i nostri giorni. Le nostre stagioni. E in questo precipitare verso la fine viviamo velocemente. Senza pause. Senza fermarci mai.

Comunque sia, ci eravamo lasciati in piena estate, o meglio, avevo chiuso questo spazio durante quelle interminabili roventi giornate di luglio. Ad oggi, i giorni si susseguono quasi identici, il caldo ancora imperversa e non sembra finire, anche se stiamo scivolando lentamente verso l’autunno, almeno dal punto di vista meteorologico. Ma non esistono più neanche le stagioni di una volta… e non è solo un modo di dire: ce la stiamo mettendo davvero tutta per stravolgere anche quelle. Ormai si passa direttamente dal caldo al freddo e viceversa. Ma cosa rappresentano per noi le stagioni? Ho cercato di scoprirlo leggendo il libro - poetico e malinconico – del filosofo Duccio Demetrio “Foliage - vagabondare in autunno”. Ed è proprio l’autunno il filo conduttore di questo saggio, arricchito dal pensiero filosofico, da poesie, da cenni letterari e diaristici, da immagini pittoriche, in particolare di quelle scuole che più l’hanno dipinto come gli impressionisti e i macchiaioli.

Ognuno di noi si immedesima in una stagione e durante lo scorrere delle altre non fa che aspettare che torni la propria, si legge nel libro. La mia sta arrivando e – diciamo pure – che ci sto già dentro: è l’autunno. E’ quella che mi è più congeniale. Prima ancora che una stagione dell’anno, l’autunno per me è uno stato mentale, un tempo interiore, una disposizione d’animo, un modo di vivere. Le quattro stagioni sono la metafora della condizione umana. Che la primavera rappresenti la giovinezza, l’estate il pieno fulgore (la bella estate di Pavese) e l’autunno la vecchiaia ai suoi inizi, ad un passo dall’inverno che ci verrà a trovare, prima o poi, con i suoi silenzi, le sue solitudini e i suoi acciacchi – scrive Duccio Demetrio – è un’immagine fin troppo risaputa. D’altra parte ogni stagione, in quanto esperienza prima di tutto sensoriale, incide su di noi e indirizza il nostro modo di essere e di agire. In particolare l’autunno, con le foglie che cadono dagli alberi – “dal mio nome ogni giorno cade una lettera”, dice Franco Arminio - con i suoi ritmi lenti, con lo scemare progressivo della luce, con i suoi paesaggi nebbiosi, con il suo declinare verso il freddo dell’inverno, si rivela molto vicino a certi miei stati d’animo velati di malinconia. “Veder cadere le foglie mi lacera dentro/soprattutto le foglie dei viali/soprattutto se sono ippocastani”, recitano i versi di una struggente poesia del poeta turco Nazim Hikmet. L’autunno è da sempre fonte di ispirazione poetica, tanto triste per i suoi detrattori quanto dolce per chi lo ama e in esso si immedesima.

Vagabondare con la mente, se non si riesce con le gambe, deve condurci a riscoprire questa stagione in tutta la sua essenza, in tutta la sua bellezza. L’autunno ci invita a scrivere, a non smarrire i ricordi di questi mesi, a viverlo sia come esperienza interiore che come impegno esteriore rivolto a tutti quei piccoli accadimenti, alle suggestioni e alle atmosfere che più ci colpiscono. L’autunno che è in noi va cercato e scoperto, bisogna prendersene cura come un modo di esistere, come stile di vita in controtendenza. E’ infatti in questi giorni settembrini che si fanno largo (tra passeggiate nei boschi a cercare funghi o castagne, allegre vendemmie o solitarie meditazioni) “i bilanci esistenziali necessari a dar senso morale alla propria vita”.

“Amo l’autunno – scriveva Flaubert - questa triste stagione si addice ai ricordi. Quando gli alberi non hanno più foglie, quando il cielo conserva ancora al crepuscolo la rossa tinta che indora l’erba appassita, è dolce guardare spegnersi tutto ciò che poco fa bruciava ancora in noi”.