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mercoledì 23 dicembre 2020

Scrivere sul blog

 


Le relazioni mediate dalla tecnologia sono ormai diventate dominanti nella vita di ognuno di noi. Possiamo trascorrere giorni e giorni senza mai intrattenere alcun rapporto interpersonale de visu, senza mai guardare in faccia il nostro interlocutore, pur comunicando con qualcuno. In certi contesti il corpo – che ha un proprio linguaggio e riesce a trasmettere i sentimenti che viviamo in quel determinato momento - sembra scomparso, sostituito dalla sola parola, che ha preso sempre più spazio da quando esistono i telefonini. Basta guardarsi in giro: tutti parlano da soli, anche ad alta voce, collegati con un altrove indefinito, incuranti degli altri che stanno accanto. Ma il corpo scompare anche in altre circostanze, ovvero quando lascia spazio alla scrittura (posta elettronica, facebook, whatsApp, blog e chi più ne ha più ne metta) il cui contenuto, di sicuro, non è paragonabile alla ricchezza di quei carteggi e di quella corrispondenza che hanno fatto letteratura a partire dal Settecento.

Da alcuni anni - scrivendo su questo blog – anch’io intrattengo indirettamente e virtualmente “relazioni” con chi ha la bontà di leggere i miei post, e questo avviene non solo con chi vi lascia un commento, ma anche con coloro che passano da queste parti fugacemente e poi spariscono, per non farvi mai più ritorno. Devo dire che le poche persone che mi leggono assiduamente (si contano sulle dita di una mano…ma mi bastano) e con cui scambio parole e riflessioni, hanno ormai assunto caratteristiche di familiarità e di amicizia, fanno parte del mio quotidiano. E quando loro non vengono da me, ricambio la visita: vado io a cercarle nei loro blog pur non sapendo nulla della loro vita, tranne quelle poche cose personali che si riescono a cogliere durante “l’incontro”. Lo confesso: mi rattristerei se un giorno non dovessi più vedere sul mio post quell’account…quel nome…quell’Anonimo, con cui i diretti interessati lasciano tracce del loro passaggio, il cui bisogno di comunicare e di essere letti credo sia pari al mio, checché ne dicano quelli che scrivono solo per se stessi. Sentirei la mancanza di quelle persone che, senza averle mai viste realmente, “conosco” da tanto tempo. Ogni tanto qualcuno mi abbandona, non mi legge più, così apparentemente senza motivo: chissà, forse ho deluso le sue attese, si è stancato di me, oppure quell’affinità nata casualmente tra di noi si è semplicemente spenta. La relazione allora svanisce, come una bolla di sapone. A volte ho come l’impressione che dall’altra parte non ci sia nessuno, che la persona con cui sono in contatto non abbia un corpo, tant’è che mi viene da pensare che la mia relazione con lui/lei - più che virtuale, come solitamente si dice - sia puramente spirituale. Di lui o di lei esiste esclusivamente la parola scritta, non il linguaggio del corpo, anche se qualcuno dissemina la scrittura di “faccine” per simulare un sorriso, un sentimento, un saluto. Ci diamo del tu fin dal primo momento, come vecchi amici, a volte ci prendiamo la libertà di qualche confidenza, esprimiamo liberamente le nostre opinioni. Addirittura, entriamo con delicatezza finanche nelle nostre vite private. E poi ci rallegriamo quando le idee che comunichiamo collimano. Non mi è mai capitato di “litigare” con qualcuno, non metto filtri di nessun genere, non ho mai cancellato commenti, anche perché noi siamo quel che scriviamo e ognuno è responsabile delle proprie parole. Le parole ci identificano. Sono il riflesso della nostra anima.

E già, scriviamo! In un mondo in cui le parole davvero si sprecano e nonostante sia già stato scritto tutto ciò che c’era da scrivere, ci proviamo ancora a lasciare un segno sulla carta e, ora, anche nell’immensità della rete. Scriviamo, forse, per avere consapevolezza di essere intelligenti in un mondo di mediocri; e scriviamo per alleviare il dolore o per confessarci. E perché no: scriviamo per non morire, per rallentare il tempo, per viaggiare senza partire. Scriviamo per tornare indietro nel tempo, ed io con i miei post lo faccio frequentemente. E poi scriviamo per fuggire in un mondo migliore, che a volte è quello dell’immaginazione, ma scriviamo anche per liberarci dalla malinconia sperando che quel messaggio, quel pensiero, quella richiesta di consenso, quel commento, insomma quella riflessione venga – anche solo momentaneamente – raccolta da qualcuno e poi lasciata. E devo dire che in una situazione difficile come questa che stiamo vivendo, in cui è sconsigliata la fisicità e la vicinanza dei corpi, la parola e la scrittura diventano fondamentali per accorciare quel distanziamento sociale che ci viene imposto e per alleviare la solitudine e la tristezza del momento.

Auguro un sereno Natale agli abituali frequentatori del mio blog (sono sicuro che si faranno vivi anche in questa occasione) e a tutti coloro che, almeno per una volta, si ritrovano per caso a passare da queste parti.

giovedì 17 dicembre 2020

Ogni tanto

 




Ogni tanto
volgo lo sguardo alla fonte
e vo alla ricerca dei sogni
che sono scomparsi nel nulla.
Li cerco negli angoli bui,
nei vicoli,
che il sole più non carezza,
nelle lunghe notti d’estate,
tra lucciole e sonni sudati.
Invano
m’aggiro tra vecchie dimore
ormai abbandonate,
invano
scruto i balconi serrati
ed i vasi di fresie tutte seccate.
Invano
cerco un viso amato
affacciato a un verone,
che chiama
e mi chiede qualcosa.
Invano!
Mi resta questa mia disperata ricerca
di spazi dispersi nel nulla,
di corse per campi e sentieri
che sanno ancora di vecchi profumi
aggrappati alle siepi di gialla ginestra,
ridente su poggi e colline,
di glicini abbracciati ai cancelli
e di bimbe ridenti e chiassose
coi capelli arruffati,
spazzati dal vento.
Poi vedo, d’un tratto,
dei visi curiosi affacciati
alla casa che amai,
alla casa che serra ancora le voci
più care al mio cuore
ed un senso d’angoscia m’opprime,
mi strazia i pensieri
e m’offusca la mente.

Salvatore Armando Santoro


mercoledì 25 novembre 2020

Passeggiare per una Roma insolita e segreta

 


Passeggiare lentamente per le strade del centro storico di Roma, da soli o in compagnia, è un modo gradevole di godere il proprio tempo. Il passeggiare riunisce, almeno per me, due piaceri: quello di pensare e quello di guardare, occupazioni che oggi non sembrano riscuotere grande interesse. Roma, pur essendo una città piuttosto rumorosa e caotica – come tutte le metropoli – custodisce posti abbastanza tranquilli dove ritrovare silenzio e solitudine. Vivo nella città eterna da oltre quarant’anni, eppure devo dire che non ho ancora finito di scoprire tutti i suoi innumerevoli angoli, quelli più nascosti e suggestivi, le sue bellezze artistiche, la magnificenza dei suoi antichi palazzi. Roma, da questo punto di vista, è fonte inesauribile di esplorazioni, di incontri inattesi e di scoperte improvvise. Forse come nessun’altra città al mondo.

Facevo queste considerazioni l’altro giorno, mentre parcheggiavo la mia macchina nel piazzale Numa Pompilio, antistante le Terme di Caracalla. Avevo deciso di fare due passi a piedi con mio figlio (ormai grande), alla ricerca di quella “medicina dell’anima” che serve a stemperare quei momenti di dolce malinconia. E di questi tempi devo dire che non mancano. Mi trovavo nell’area dove circa duemila anni fa sorgeva il complesso architettonico delle terme della Roma imperiale (i resti maestosi stanno ancora lì a testimoniarne lo splendore), una sorta di moderno centro polifunzionale del benessere psico-fisico, con volte affrescate e con statue grandiose, che comprendeva palestre, bagni, campi sportivi, sale per massaggi e saune, ristoranti, biblioteche, ecc. Insomma tutto ciò che rendeva la vita bella e godibile agli antichi romani. Mi veniva da pensare, osservando in lontananza quei resti monumentali, che siamo passati dalla bellezza di una simile opera architettonica, quale luogo di socializzazione e di ritrovo per attività ricreative, alla bruttezza di quel “luogo non luogo” che è il centro commerciale, dove vengono forgiati non cittadini, ma consumatori. Poveri noi!

Prima di imboccare Via di Porta San Sebastiano – che  corre parallela a via di Porta Latina sulla sinistra, formando un angolo davvero delizioso di una Roma poco frequentata (per la gioia di chi, invece, la frequenta) – ci siamo soffermati ad ammirare quella inconfondibile villa color ocra, circondata da un bellissimo parco, situata in cima ad una piccola collina, che domina tutta la zona circostante, in cui è vissuto uno dei figli più grandi della Roma moderna: Alberto Sordi. L’indimenticabile Albertone nazionale, uno degli interpreti più amati del cinema italiano, non poteva scegliere un posto migliore in cui vivere, forse quello a lui più congeniale. Oggi la casa, dopo la sua morte, è diventata un museo che raccoglie i suoi oggetti più cari. Il mausoleo di un grande dei nostri tempi tra le grandiose rovine del passato.



Dicevo di Via di Porta San Sebastiano, che praticamente costituisce il tratto iniziale di Via Appia Antica, considerata dai Romani la Regina Viarum, una delle più grandi arterie del mondo antico, che collegava Roma a Brindisi e dal cui porto partivano le navi commerciali per l’Oriente. Se non fosse stata lastricata con i famosi sampietrini (per chi non lo sapesse, sono quei cubetti di selce estratti dalle cave poste ai piedi dei Colli Albani, con cui vengono pavimentate le vie del centro storico di Roma) la strada - fiancheggiata da alte mura che racchiudono deliziosi giardini con piante secolari, oltre ad antiche dimore e resti archeologici – avrebbe avuto l’aspetto di un grosso sentiero di campagna. Peraltro proprio la campagna, con le sue pecore che vi pascolavano al posto delle macchine che oggi vi parcheggiano, dominava certamente quest’area rinchiusa entro la cerchia delle Mura Aureliane, almeno fino ai primi del ‘900.

A quell’ora, erano circa le due del pomeriggio di una bella domenica di sole, la strada appariva pressoché deserta. Per girare senza troppi affanni per Roma devi andare controcorrente: uscire quando gli altri sono ancora a tavola e rientrare quando gli stessi escono. Solo l’incontro di qualche persona solitaria munita di mascherina – ci hanno detto che dobbiamo stare da soli se vogliamo sconfiggere questo maledetto virus che tarda a lasciarci – mi riportava alla difficile normalità del momento. Devo dire che nel percorrere questa strada totalmente immersa nella quiete, si percepisce una piacevole sensazione di pace: poter ascoltare i propri passi che risuonano sul selciato, sempre soffocati da ben altri quotidiani frastuoni, è una cosa rara a cui – noi abitanti delle città - non siamo più abituati. Ma ecco che mi si presenta, sulla destra della strada, la chiesa di San Cesareo, dalla severa facciata tardo-rinascimentale attribuita a Giacomo della Porta. 



Non c’è strada, a Roma, che non abbia la sua bella chiesetta, il suo edificio religioso, la sua edicola votiva, a testimonianza di duemila anni di cristianesimo e la presenza di 266 papi ascesi al soglio pontificio. Un po’ più avanti, sulla sinistra, una finestrella con una grata su un muro di cinta permette di vedere un bel giardino, all’interno del quale si scorge una deliziosa casetta con le sue finestre a crociera e la loggia affrescata. Leggiamo che era la “casina del cardinale Bessarione”, un illustre umanista greco che morì in Italia nella seconda metà del ‘400. L’insieme, casetta e giardino, riproduce un modello esemplare di dimora gentilizia, e offre al visitatore un’idea di come doveva essere piacevole e semplice la vita per il letterato che vi dimorava nella Roma del primo Rinascimento. Lo confesso: se mi venisse offerta la possibilità di vivere in quell’esilio di pace, tra alberi secolari, stanze affrescate e qualche libro, accetterei senza indugio. Ho pretese modeste. Sorrido!



Proseguendo per via di Porta S. Sebastiano si può svoltare, sulla sinistra, in un bel Parco con cipressi e pini secolari che prende il nome da una delle più illustri famiglie della Roma repubblicana: gli Scipioni, il cui sepolcro risalente al III secolo a.c. venne qui rinvenuto nei primi anni del 1600. Le mie nebulose reminiscenze scolastiche mi riportano a Scipione l’Africano, il famoso condottiero che sconfisse il generale cartaginese Annibale. Attraversando il Parco ci si imbatte in un delizioso tempietto rinascimentale dalla forma ottagonale, che sorge a pochi passi da Porta Latina, una delle più imponenti e meglio conservate delle Mura Aureliane, conosciuto con lo strano nome di S. Giovanni in Oleo. E’ un monumento molto grazioso che non ti aspetteresti mai di trovare: sembra quasi che qualcuno di notte l’abbia posto lì per farti una sorpresa, o che sia piovuto dal cielo, dono di un dio sconosciuto. Leggiamo, invece, che secondo un’antica tradizione, sorge sul luogo ove San Giovanni Evangelista fu sottoposto al supplizio dell’olio bollente dal quale uscì illeso. Progettato dal Bramante, fu restaurato dal Borromini nel Seicento che rifece l’elegante coronamento della cupola decorato con festoni di rose e palme. A quell’ora era chiuso, però dallo spioncino dell’ingresso si intravedeva un piccolo altare con delle sedie e le pareti decorate con stucchi che invitavano alla preghiera e alla meditazione. Purtroppo anche questo piccolo gioiello dell’arte, che pochi conoscono, non è stato risparmiato dal vandalismo dei soliti idioti che di notte vanno in giro per Roma ad imbrattare la città con i loro graffiti. E pensare che c’è pure qualche politico nostrano – che magari dovrebbe contrastarli – il quale si ostina a riconoscere come artisti questi soggetti, che per me sono i nuovi barbari. Evidentemente quel politico non ha la minima idea di cosa sia l’arte. E non riesco, poi, ad immaginare cosa possa aver pensato quell’artista mentre sporcava, con la sua bomboletta spray, un monumento che sta lì da oltre 500 anni e che vivrà nei secoli futuri. Chissà, forse pensava di poter essere ricordato anche lui per l’eternità!



Per ritornare sui miei passi, ho percorso via di Porta Latina dove si trova, in una quieta e raccolta piazzetta, una delle più pittoresche basiliche della vecchia Roma, con il suo magnifico campanile, che conserva la semplicità delle sue antiche origini: San Giovanni a Porta Latina. Proprio antistante la chiesa sorge un caratteristico pozzo  Sono entrato.



 Non c’era nessuno. Solo un vecchietto – che sembrava uscito da un quadro del ‘600 - stava in raccoglimento in fondo alla navata il quale, osservando gli affreschi del XII secolo che ornano le pareti, più che pregare sembrava stesse meditando sulla caducità delle umane vicende. Mi sono soffermato ad assaporare la sacralità e il silenzio di quel luogo e poi sono uscito più sereno. La strada prosegue tra alte mura e cancelli in ferro battuto a protezione di meravigliose dimore circondate da bellissimi giardini: sono le ambasciate di Canada e Norvegia e la residenza dell’ambasciatore del Giappone.

Mentre tornavo a casa – dopo aver trascorso un paio d'ore di piacevole ozio in una Roma lontana dai flussi turistici e in compagnia di mio figlio  - la lunga fila di macchine che scorreva nella direzione opposta mi rammentava che l’altra Roma, quella più festaiola, si apprestava allo shopping serale, al rito dell’apericena e della movida.

 


lunedì 16 novembre 2020

Una crescita infinita? No grazie!

 


Dicono gli scienziati che il pianeta che abitiamo non ci basta più e per continuare a mantenere lo stesso tenore di vita - fatto di consumi e sprechi eccessivi, almeno per noi occidentali - ne servirebbe un altro con le stesse caratteristiche. Ciò significa che una crescita economica infinita e globalizzata, come quella che stiamo perseguendo, è incompatibile con un pianeta finito. E’ innegabile, però, che lo sviluppo economico, soprattutto durante quest’ultimo secolo, ha generato ricchezza e benessere – anche se per una minoranza dell’umanità -  tuttavia questo non vuol dire che si potrà continuare con uno sviluppo esponenziale, proprio in virtù del fatto che le risorse naturali sono destinate ad esaurirsi nei prossimi anni. Solo gli economisti – beati loro! - credono alla crescita materiale illimitata.

La pandemia che stiamo vivendo in questi mesi è una spia rilevante di un disagio socio-economico-sanitario che dovrebbe farci riflettere e indurci a cambiare non solo il nostro stile di vita, ma anche il nostro attuale modo di produrre ricchezza, che è diventato sempre più aggressivo e pericoloso nei confronti della natura e dei popoli, perché mercifica risorse naturali e umane. Il nostro pianeta, è bene non dimenticarlo, è governato da leggi naturali, sempre le stesse da milioni e milioni di anni: non possiamo, quindi, pensare di poterle cambiare e stravolgere a nostro piacimento, anche nei suoi aspetti climatici, senza arrecare danni irreversibili all’intero ecosistema. Per dirla con le parole di Tito Livio, se vogliamo salvarci e riconquistare quell’equilibrio perduto “non possiamo più tollerare né i nostri vizi né i loro rimedi”.

Lo confesso: io sono un sostenitore di quel nuovo modello di sviluppo che si chiama “decrescita felice”, modello che non è nemico del progresso e della prosperità fin qui raggiunta, ma fautore di un rinnovamento industriale ed economico in chiave ecologica volto a correggere le storture della “crescita per la crescita”, secondo quella sconsiderata credenza che il “più” sia migliore del “meno” e l’aumentare sia più opportuno del diminuire. L’attuale sviluppo economico – misurato con quel perverso strumento che si chiama PIL - va quindi totalmente ripensato, mettendo anche in discussione la movimentazione sproporzionata di persone e merci da un punto all’altro del pianeta, che genera un impatto disastroso sull’ambiente. Per sconfiggere la globalizzazione del mercato – che io considero nefasta – è necessario rivitalizzare l’artigianato locale e riscoprire e preferire i prodotti del nostro territorio: non è più accettabile, per esempio, che sulla nostra tavola ci siano arance provenienti dalla Spagna, mentre quelle siciliane - una delle nostre eccellenze - debbano andare all’estero, secondo logiche di mercato insane e incomprensibili. Va rivista l’organizzazione sociale del lavoro: bisogna lavorare meno, ma lavorare tutti. E bisogna rinunciare alla folle corsa verso i consumi. Siamo strapieni di cose superflue che accentuano il nostro vuoto esistenziale e il nostro smarrimento. Consumare e poi ancora consumare, sembra essere l’imperativo economico dei nostri tempi. E poi va ripensato il rapporto tra persone e strumenti digitali e tecnologici. Questi ultimi sono una grande conquista, non c’è che dire, ma è illusorio pensare che possano risolvere tutti i problemi che ci affliggono, o – come auspica qualcuno – sostituirsi addirittura all’uomo. Ho l’impressione che l’uso di questi mezzi tecnologici, di cui oramai siamo succubi, ci stia sfuggendo di mano: crediamo di controllarli, ma sono loro che controllano noi; non li possediamo, ma ne siamo posseduti.


domenica 1 novembre 2020

A che cosa serve la poesia

 


Vi faccio un esempio.

Prendete una coppia che va abbastanza bene:

due o tre lustri di convivenza

casa figli interessi comuni.

I coniugi però, non essendo né sordi né orbi

né privi di altri sensi

naturalmente non immuni

dal notare che il mondo è pieno di persone attraenti

dell'altro sesso

di cui alcune, per circostanze favorevoli,

sarebbero passibili di un  incontro a letto.

 

Sorge allora un problema che propone tre soluzioni.

 

La prima è la tradizionale repressione

non concupire eccetera non appropriarti dell'altrui proprietà

per cui il coniuge viene equiparato a un comò

Luigi XVI o a un televisore a colori

o a un qualsiasi oggetto di un certo valore

che non sarebbe corretto rubare.

 

La seconda soluzione è l'adulterio

altrettanto tradizionale

che crea una quantità di complicazioni

la lealtà (glielo dico o non glielo dico?)

lo squallore di motel occasionali

la necessità di costruire marchingegni di copertura

che non eliminano la paura

di fastidiose spiegazioni.

 

La terza soluzione è senza dubbio la più pratica

Si prendono i turbamenti e i sentimenti

le emozioni e le tentazioni

si mescolano bene si amalgama l'immagine

con un brodo di fantasia

e ci si fa su una poesia

che si mastica e si sublima

fino a corretta stesura sulla macchina da scrivere

e infine si manda giù

si digerisce con un pò di amaro

d'erbe naturali

e poi non ci si pensa più.

 

Joyce Lussu

lunedì 26 ottobre 2020

Se ti comparisse davanti Cesare Pavese...

 


“Siamo sinceri. Se ti comparisse davanti Cesare Pavese e parlasse e cercasse di fare amicizia, sei sicuro che non ti sarebbe odioso? Ti fideresti di lui? Vorresti uscire con lui la sera a chiacchierare?” Lo scriveva, il 6 maggio del 1938, lo stesso Cesare Pavese in quel suo diario che si intitola “Il mestiere di vivere”, nel quale lo scrittore piemontese registra avvenimenti, riflessioni, le sue più intime sensazioni. Una sorta di confessione esistenziale, spietata e compiaciuta. Ebbene, se avessi potuto rispondere a quella sua provocatoria domanda, non avrei avuto dubbi: mi sarei fidato di lui e sarebbe stato un vero piacere trascorrere una serata in sua compagnia per poter ascoltare le sue parole, così come oggi leggo e rileggo i suoi libri. Ho estrapolato da quel diario – riletto in questi giorni - alcuni suoi pensieri, rivelatori del suo modo di essere uomo e scrittore alle prese con quella multiforme occupazione che è “il mestiere di vivere”.

La vita senza fumo è come il fumo senza l’arrosto.

Ho sempre seguito impulsi sentimentali, edonistici. Su questo non c’è dubbio. Persino il mio misoginismo (1930 – 1934) era un principio voluttuario: non volevo seccature e mi compiacevo della posa.

Non ho mai lavorato davvero e infatti non so nessun mestiere.

Soltanto così si spiega la mia vita attuale da suicida. E so che per sempre sono condannato a pensare al suicidio davanti a ogni imbarazzo o dolore. E’ questo che mi atterrisce: il mio principio è il suicidio, mai consumato, che non consumerò mai, ma che mi carezza la sensibilità.

Esprimere in forma d’arte, a scopo catartico, una tragedia interiore, può farlo soltanto l’artista.

Tra i segni che mi avvertono esser finita la giovinezza, massimo è l’accorgermi che la letteratura non mi interessa più veramente. Voglio dire che non apro più libri con quella viva e animosa speranza di cose spirituali che, malgrado tutto, un tempo sentivo. Leggo e vorrei leggere sempre più, ma non ricevo ormai come un tempo le varie esperienze con entusiasmo, non le fondo più in un sereno tumulto pre-poetico. La stessa cosa mi accade passeggiando per Torino; non sento più la città come un pungolo sentimentale e simbolico alla creazione. Già fatto, mi viene da rispondere ogni volta.

In amore conta soltanto aver la donna in letto e in casa: tutto il resto sono balle, luride balle.

Eppure non riesco a pensare una volta alla morte senza tremare a quest’idea: verrà la morte necessariamente, per cause ordinarie, preparata da tutta una vita, infallibile, tant’è vero che sarà avvenuta. Sarà un fatto naturale come il cadere di una pioggia. E a questo non mi rassegno: perché non si cerca la morte volontaria, che sia affermazione di libera scelta, che esprima qualcosa? Invece di lasciarsi morire? Perché? Per questo. Si rimanda sempre la decisione sapendo – sperando – che un altro giorno, un’altra ora di vita potrebbero essere affermazione, espressione di un ulteriore volontà che, scegliendo la morte, escluderemmo. Perché insomma – parlo di me – si pensa che ci sarà sempre tempo. E verrà il giorno della morte naturale. E avremo perso la grande occasione di fare per una ragione l’atto più importante di tutta la vita.

Pensiero d’amore: ti voglio tanto bene che desidero esser nato tuo fratello, o averti messo al mondo io stesso.

C’è qualcosa di più triste che invecchiare, ed è rimanere bambini

Amare un’altra persona è come dire: d’or innanzi quest’altra persona penserà alla mia felicità più che alla sua. C’è qualcosa di più imprudente.

Per disprezzare il denaro bisogna appunto averne, e molto.

La cosa segretamente e più atrocemente temuta, accade sempre. Da bambino pensavo rabbrividendo alla situazione di un innamorato che vede il suo amore sposarne un altro. Mi esercitavo a questo pensiero. E voilà.

La morte è il riposo, ma il pensiero della morte è il disturbatore di ogni riposo.

Sono in ritardo di almeno otto anni sui miei coetanei. Solitamente essi a ventidue sono già convinti di ciò che a trenta non mi convince ancora.

Tutti gli “affetti più sacri” non sono che una pigra abitudine.

Date una compagnia al solitario e parlerà più di chiunque.

Sciocco addolorarsi per la perdita di una compagnia: quella persona potevamo non incontrarla mai, quindi possiamo farne a meno.

Passavo la sera seduto davanti allo specchio per tenermi compagnia.

La letteratura è una difesa contro le offese della vita.

Perché sposarsi segna il trapasso dalla giovinezza alla maturità? Perché con quest’atto si sceglie tra le compagnie una che separa da tutte, che s’identifica con noi, che diventa l’arena circoscritta della nostra socialità onde non avere più bisogno di cercare la compagnia fuori di noi. E’ il suggello dell’egoismo che occorre per vivere moderatamente, un egoismo cui serve di scusa il fatto che si cerca dei doveri.

Leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma. Ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra – che già viviamo – e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi.

Gli anni diventano lunghi nel ricordo se ripensandoci troviamo in essi molti fatti da distendervi la fantasia. Per questo l’infanzia appare lunghissima. Probabilmente ogni epoca della vita si moltiplica nelle successive riflessioni delle altre: la più corta è la vecchiaia perché non sarà più ripensata.

L’arte di vivere è l’arte di atteggiarsi in modo che le cose e le persone non abbiano bisogno d’invitarle, ma vengano a noi. Per ottenere questo non basta disprezzarle ma bisogna anche disprezzarle. Come con le donne non basta essere stupidi ma bisogna anche essere stupidi.

Il matrimonio lo prendono più sul serio gli scapoli che non i coniugati.

Siccome una donna presto o tardi bisogna piantarla, tanto vale piantarla subito.

Passare del tempo in silenzio, ringiovanisce individui e popoli.

Gli artisti sono i monaci dell’età borghese. In essi l’uomo comune vede attuarsi quella vita di contatto con l’eterno, quell’ascesi, che i villani del 200-400 vedevano nel monaco.

Non si ricordano i giorni, si ricordano gli attimi.

La vita pratica si svolge nel presente, la contemplativa nel passato. Azione e memoria.

Nessuna donna fa un matrimonio d’interesse: tutte hanno l’accortezza, prima di sposare un milionario, d’innamorarsene.

Una beffarda legge della vita è la seguente: non chi dà ma chi esige, è amato. Cioè, è amato chi non ama, perché chi ama dà. E si capisce: dare è un piacere più indimenticabile che ricevere; quello a cui abbiamo dato, ci diventa necessario, cioè lo amiamo. Il dare è una passione, quasi un vizio. La persona a cui diamo, ci diventa necessaria.

Nel rovello che ci dà un rumore, un odore, una sensazione sgradevole – rovello improvviso e bestiale, acutissimo – è mista un’ansia gioiosa che la sensazione si ripeta, che l’autore vi torni, quasi per aver noi campo e motivo di odiarlo di più, di scattare.

Vivere in un ambiente è bello quando l’anima è altrove. In città quando si sogna la campagna, in campagna quando si sogna la città. Dappertutto quando si sogna il mare.

Non è bello esser bambini: è bello da anziani pensare a quando eravamo bambini.

Ogni sera, finito l’ufficio, finita l’osteria, andate le compagnie – torna la feroce gioia, il refrigerio di esser solo. E’ l’unico vero bene quotidiano.

E’ bello scrivere perché riunisce le due gioie: parlare da solo e parlare a una folla.

Aspettare è ancora un’occupazione. E’ non aspettare niente che è terribile.

C’è un solo piacere, quello di essere vivi, tutto il resto è miseria.

La mia parte pubblica l’ho fatta – ciò che potevo. Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti.



giovedì 1 ottobre 2020

Leopardi a Roma

 


Sono un estimatore della corrispondenza epistolare tenuta dai grandi scrittori del passato, un genere letterario, questo, che mi ha sempre appassionato. Non potevo, quindi, non leggere la raccolta delle oltre 900 lettere che Giacomo Leopardi scrisse ad amici, familiari e personalità del mondo della cultura tra il 1810 e il 1837: l’Epistolario. E’ il Leopardi intimo, privato, quotidiano quello che affiora dalle pagine di questo straordinario documento, un Leopardi diverso da quello che avevo conosciuto sui banchi di scuola (proprio perché non mi era stata data la possibilità di leggere nessuna di queste lettere). Direi che è un Leopardi più umano e più sensibile, che non manca di ironia: con le sue confidenze, i suoi sofferti sentimenti, la sua solitudine, le sue speranze, i suoi giudizi sulla cultura, il suo bisogno straziante di dare e ricevere amore, le sue illusioni. Leggere Leopardi, oggi – nell’era della felicità che si compra come un qualsiasi prodotto commerciale - può sembrare anacronistico, quasi un modo erudito per farsi del male; eppure io credo che nessuno, meglio di chi ha sofferto nella vita e ha saputo sublimare in arte la sua malinconia, può darci lezioni quotidiane di autentica felicità.

Molte di queste lettere, pur non essendo state scritte per essere divulgate – non penso che Leopardi, allora, avesse mai pensato di pubblicarle - sono di rara e intensa bellezza da cui traspare non solo il grande desiderio del poeta di comunicare con gli altri e, quindi, di evadere da quel “natio borgo selvaggio”, ma anche quel suo estremo bisogno di calore umano, nonostante fosse “naturalmente inclinato alla vita solitaria”. Alcune di queste lettere Leopardi le scrisse durante il suo soggiorno a Roma. E io su queste volevo soffermarmi. Aveva 24 anni quando arrivò la prima volta (nel novembre 1822), ospite dello zio materno nel palazzo Antici Mattei, dove dominavano “orrendo disordine, confusione, nullità, minutezza insopportabile e trascuratezza indicibile” . Leopardi non amava Roma e questi suoi sentimenti negativi non l’aveva mai nascosti. Rimase deluso fin dal primo momento dalla città e dalla vita che vi si conduceva. La sua prima impressione - per lui che veniva da un piccolo borgo come Recanati - fu di totale rigetto, estraneità e spaesamento e non riuscì mai, anche nel corso delle visite successive, a stabilire con la città eterna alcuna forma di partecipazione e accettazione.

Nel leggere i suoi scritti, si percepisce immediatamente il disagio che gli provoca la grande città, dove risulta difficile coltivare amicizie e rapporti di solidarietà. “Tutta la grandezza di Roma – scrive alla sorella Paolina – non serve ad altro che a moltiplicare le distanze, e il numero dei gradini che bisogna salire per trovare chiunque vogliate. Queste fabbriche immense, e queste strade per conseguenza interminabili, sono tanti spazi gittati fra gli uomini, invece d’essere spazi che contengano uomini”. Per il poeta, in un piccolo borgo ci si può anche annoiare, ma alla fine i rapporti tra gli uomini e le cose risultano proporzionati alla natura umana. Cosa che invece non può succedere in una metropoli dove “l’uomo vive senza nessunissimo rapporto a quello che lo circonda”. E arriva alla conclusione che l’unica maniera per vivere in un posto simile senza soccombere “è quella di farsi una piccola sfera di rapporti, rimanendo in piena indifferenza verso tutto il resto della società. Vale a dire fabbricarsi d’intorno come una piccola città, dentro la grande”.

Al fratello Carlo confida che da quando ha messo piede a Roma non è riuscito a godere di nessun momento di piacere; l’unico luogo che gli ha procurato una vera gioia è stato il sepolcro di Torquato Tasso, nella cappella del monastero di sant’Onofrio al Gianicolo. Infatti, in una lettera al “carissimo signor padre” Monaldo scrive: “Venerdì 15 febbraio 1823 fui a visitare il sepolcro del Tasso e ci piansi. Questo è il primo e l’unico piacere che ho provato in Roma”. E le donne? Per Leopardi “le donne romane alte e basse fanno propriamente stomaco; gli uomini fanno rabbia e misericordia”. E in un’altra occasione, sempre al fratello Carlo, ribadisce quel concetto sulla ritrosia delle donne romane che non si concedono neanche con uno sguardo “al passeggio, in chiesa, andando per le strade, non trovate una befana che vi guardi”. Leopardi si definisce “molto più disprezzatore che ammiratore” e le occasioni per confermare queste sue caratteristiche non mancano. Alla sorella Paolina scrive: “tenete per certissimo che il più stolido Recanatese ha una maggiore dose di buon senso che il più savio e più grave Romano”. Ha parole dure anche nei confronti degli uomini di cultura, i “letterati” che poi sono pure  “antiquari” i quali trascorrono la loro esistenza “d’intrigo, d’impostura e d’inganno”. In una lettera al padre rivela tutta la sua insofferenza nei loro riguardi: “io  n’ho veramente conosciuto pochi, e questi pochi m’hanno tolto la voglia di conoscerne altri. Tutti pretendono d’arrivare all’immortalità in carrozza, come i cattivi Cristiani al Paradiso…tutto il giorno ciarlano e disputano, e si motteggiano nei giornali, e fanno cabale e partiti, e così vive e fa progressi la letteratura romana”.

Si scaglia contro la megalomania dei Romani, riscontrata anche nei numerosi spettacoli che vengono allestiti in città : “pare che questi fottuti Romani – dice sempre al fratello Carlo - che si son fatti e palazzi e strade e chiese e piazze sulla misura delle abitazioni de’ giganti, vogliano anche farsi i divertimenti a proporzione, cioè giganteschi, quasi che la natura umana, per coglionesca che sia, possa reggere e sia capace di maggior divertimento”. Si lamenta, poi, con la sorella Paolina di quanto sia cara la vita in questa città “dove colla maggior quantità di danari si ha il minor numero di comodità e di beni. Gli alloggi soprattutto sono strabocchevolmente cari l’inverno. L’estate è un’altra cosa: ma Roma allora non è abitabile”. Insomma, Roma e i romani non ne escono bene da queste lettere, vengono ripetutamente e duramente bastonati dalla penna di Leopardi. Non oso immaginare cosa avrebbe mai potuto scrivere, il genio di Recanati, se si fosse trovato a visitare la Roma di oggi! E chissà come li avrebbe visti e descritti i suoi abitanti!



lunedì 21 settembre 2020

Da scrittori di un solo libro, a Ken Follett

 


Ci sono alcuni scrittori che hanno dedicato l’intera esistenza a scrivere un solo romanzo, ed è bastato per conquistare l’immortalità. Penso a Boris Pasternak con “Il Dottor Zivago”, a David Salinger con “Il giovane Holden”, a Margaret Mitchell con “Via col vento” , a Marcel Proust con la sua opera sterminata “Alla ricerca del tempo perduto”. E ci sono altri scrittori, invece, che sfornano addirittura un libro all’anno, come se fossero bruscolini, per favorire l’ingordigia insensata di un mercato diventato, paradossalmente, tanto più ricco di libri quanto più povero di lettori.  E non sono affatto libri di poche pagine, ma tomi grossi quanto un vocabolario. Mi riferisco - in particolare - a Ken Follett, il noto scrittore britannico che va tanto di moda (ma se la letteratura segue la moda, ha già fallito), i cui adoratori (credo siano parecchi milioni nel mondo) rendono ogni suo romanzo un bestseller a livello internazionale. Premetto che non l’ho mai letto: i thriller di spionaggio camuffati da romanzi storici non mi entusiasmano; e poi – lasciatemelo dire – ho una certa idiosincrasia verso i libri del momento, i cosiddetti “casi letterari”. Preferisco quei libri “brutti”, dimenticati, invecchiati, che nessuno legge e nessuno promuove, i cui autori sono morti da tempo. Tuttavia,  non mi permetto di giudicare né la finezza della sua prosa che appassiona un pubblico così vasto ed eterogeneo, né di mettere in discussione le riconosciute capacità affabulatorie di uno scrittore come Follett, vera star del firmamento letterario dei nostri tempi. Di lui, Umberto Eco ebbe a dire: “mette in scena improbabili e inverosimili avventure, prendendo per i fondelli il pubblico. Le sue sono sciatterie nanesche”.

Credo che non sia facile scrivere un libro di successo e ancor di più scriverne uno all’anno, quasi a scadenze fisse: mi ricordano quei “cinepanettoni” realizzati sotto le feste natalizie. I lettori di Follett aspettano sempre con trepidazione e piacere la sua ultima fatica. E lui non li delude mai. Salinger impiegò dieci anni per scrivere “Il giovane Holden” e altrettanti ne impiegò l’autrice di “Via col vento”. A Robert Musil non bastò l’intera sua esistenza per portare a termine il suo capolavoro “L’uomo senza qualità”, tant’è che fu pubblicato incompiuto. Forse erano altri tempi. Quando questi autori scrivevano non pensavano ai diritti d’autore e non avevano dietro nessun editore che facesse pressione. Chi bazzica un po’ tra i libri sa certamente che il mondo editoriale e della scrittura è influenzato non tanto da logiche culturali e letterarie quanto di mercato. Certi scrittori, che a volte vengono esaltati dalla stampa e legittimati dai lettori, spesso non fanno che assecondare i gusti di una società omologata, realizzando molto spesso prodotti di indubbia qualità letteraria in linea con le mode del momento. Follett è un uomo ricchissimo: viaggia molto per promuovere i suoi libri, tiene conferenze in ogni parte del mondo, dice la sua su ogni avvenimento importante, viene ricevuto da ministri e autorità pubbliche, è ricercatissimo per una intervista. Ma dove trova il tempo per scrivere anche un libro di ottocento pagine, quasi ogni anno? Musil li chiamava “scrittori all’ingrosso”. “Lo scrittore all’ingrosso – scriveva Musil  ne L’uomo senza qualità – è il successore del principe dello spirito e corrisponde nel mondo spirituale alla sostituzione avvenuta nel mondo politico dei principi con i ricchi”.

Amo girovagare tra i banchetti dei mercatini dei libri usati. In quei posti ho trovato, e continuo a trovare, dei libri molto belli che non vengono più pubblicati dai gruppi editoriali, troppo impegnati a rincorrere  i “capolavori” dei volti noti della televisione e dello spettacolo: insomma gli scrittori alla moda, quelli che contano e vendono. Devo dire inoltre che, ovunque io vada, mi capita sempre di imbattermi in lunghe pile di romanzi di Ken Follett, le cui sagome massicce – con quelle copertine che si somigliano tutte – saltano subito agli occhi. Libri praticamente nuovi, come se nessuno li avesse mai sfogliati, al costo di 1/2 euro. Davvero non capisco come possa accadere che tali volumi, celebrati come bestseller, diventino poi miseramente prodotti usa e getta. Se io compro in libreria un libro che mi piace, spendendo qualcosa come 25 euro, recensito dalla critica e presentato come evento culturale dell’anno, non posso liberarmene (e mi sorge il dubbio che non sia stato neanche letto), portandolo al mercatino dell’usato, ma lo conservo gelosamente sui ripiani della mia libreria. Mistero! Eppure, non mi è mai capitato di vedere i volumi usati de  “la Recherche”  di Proust in fila a pochi euro, tant’è che l’intera opera l’ho comprata nuova in libreria. Vuoi vedere che quel “mattone” di Proust si preferisce conservarlo comunque, anche se la sua lettura risulta alquanto complessa, mentre invece quel “mattone” di Follett si abbandona dove capita, come un qualsiasi giornale già letto o come un qualsiasi libro di Bruno Vespa, perché la sua forza letteraria è solo passeggera e mediatica? Ai posteri l’ardua sentenza!


martedì 15 settembre 2020

D'Annunzio, il piacere, la bellezza, la divina Roma

 


Mi piace ritornare sui vecchi libri la cui lettura risale ad un lontano o recente passato. Mi piace ritrovare certi personaggi letterari (come quei vecchi amici che non vediamo da tempo), già incontrati una prima volta tra le pagine un po’ ingiallite di un romanzo,  che in qualche maniera avevano nutrito la mia immaginazione e la mia curiosità. Diceva il poeta russo Iosif Brodskij che tra uno scrittore e un lettore spesso si stabilisce una conversazione del tutto privata, un rapporto diretto senza intermediari, che poi diventa “un atto di reciproca misantropia”. E forse c’è qualcosa di più bello che stare in compagnia pur rimanendo in piacevole solitudine? E’ pur vero, però, che certi personaggi della letteratura, se avessimo la possibilità di incontrarli davvero nel mondo reale, non sempre potremmo accettarli come amici; perciò li osserviamo tra le righe con distacco e disincanto, ci piacciono, a volte ne siamo attratti perché non urtano mai la nostra suscettibilità, come invece potrebbe accadere se ci trovassimo a discutere con un qualsiasi nostro conoscente in carne ed ossa.

Andrea Sperelli, il protagonista de “Il piacere” di Gabriele D’Annunzio è uno di questi: personaggio emblematico della narrativa dannunziana, credo che nessuno meglio di lui incarni “l’alter ego” del grande scrittore. Stare in sua compagnia è come stare in compagnia del Vate. Un giovane aristocratico d’intelletto dai gusti raffinati, che predilige gli studi e ama circondarsi di cose eleganti e pregiate, un uomo educato al culto della bellezza, intorno alla quale gravitano tutte le sue passioni; ma è anche un uomo prigioniero di mille contraddizioni, vanitoso e viziato, ipocrita e amorale, che “dell’inganno e della menzogna si era fatto nella vita un abito” e che “nel grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e rare sommerge miseramente” intende “fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte”.

Gli anni romani di D’annunzio riaffiorano in questo suo primo romanzo, edito nel 1889. “Roma era il suo grande amore: non la Roma dei Cesari ma la Roma dei Papi; non la Roma degli Archi, delle Terme, dei Fori, ma la Roma delle Ville, delle Fontane, delle Chiese. Egli avrebbe dato tutto il Colosseo per la Villa Medici, il Campo Vaccino per la Piazza di Spagna, l’Arco di Tito per la Fontanella delle Tartarughe. La magnificenza principesca dei Colonna, dei Doria, dei Barberini l’attraeva assai più della ruinata grandiosità imperiale. E il suo gran sogno era di possedere un palazzo incoronato da Michelangelo e istoriato dai Caracci, come quello Farnese; una galleria piena di Raffaelli, di Tiziani, di Domenichini, come quella Borghese…”.

La “Divina Roma” – come viene da lui definita - è forse la vera protagonista del romanzo, sempre al centro della narrazione, con i suoi monumenti, i suoi palazzi, le sue piazze, le sue atmosfere. Per il protagonista ogni occasione è buona per ammirarla e descriverla e “saziarsi dello spettacolo”. L’altro giorno (apro una parentesi) mi è capitato di attraversare Piazza del Quirinale, mentre i soliti turisti (ancora pochi, a causa del covid) erano intenti in maniera quasi compulsiva a fotografarla e a filmarla impugnando l’immancabile smartphone: lo facevano senza guardare con attenzione, senza soffermarsi sui particolari, come una cosa dovuta. Mi sono ricordato, allora, (e rientro nel libro), delle raffinate e solenni parole con cui il protagonista del romanzo celebra quella piazza, quasi un atto d’amore verso la città eterna, direi un invito ad osservare con occhi estasiati la bellezza da cui siamo circondati. E ho pensato che se qualche volta provassimo a descrivere ciò che guardiamo, a scrivere su un foglietto le sensazioni che suscitano in noi certi luoghi, anziché fare migliaia di inutili fotografie da inviare ai social, forse saremmo migliori, acquisteremmo una diversa sensibilità, un differente approccio emozionale al bello.

Agli occhi di Andrea Sperelli – e mi piace qui riportare tutta la descrizione - “la piazza del Quirinale appariva tutta candida, ampliata dal candore, solitaria, raggiante come un’acropoli olimpica su l’Urbe silenziosa. Gli edifizii, intorno, grandeggiavano nel cielo aperto; l’alta porta papale del Bernini, nel palazzo del Re, sormontata dalla loggia, illudeva la vista distaccandosi dalle mura, avanzandosi, isolandosi nella sua magnificenza difforme, dando immagine d’un mausoleo scolpito in una pietra siderea; i ricchi architravi del Fuga, nel palazzo della Consulta, sporgevano di su gli stipiti e di su le colonne transfigurati dalle strane adulazioni della neve. Divini, a mezzo dell’egual campo bianco, i colossi parevano sovrastare a tutte le cose. Le attitudini dei Dioscuri e dei cavalli s’allargavano nella luce; le groppe ampie brillavano come ornate di gualdrappe gemmanti, brillavano gli omeri e l’un braccio levato di ciascun semidio. E sopra, tra i cavalli, slanciavasi l’obelisco e, sotto, aprivasi la tazza della fontana; e lo zampillo e l’aguglia salivano alla luna come uno stelo di diamante e uno stelo di granito. Una solennità augusta scendeva dal monumento. Roma, d’innanzi, si profondava in un silenzio quasi di morte, immobile, vacua, simile a una città addormentata da un potere fatale. Tutte le case, le chiese, le torri, tutte le selve confuse e miste dell’architettura pagana e cristiana biancheggiavano come una sola unica selva informe, tra i colli del Gianicolo e il Monte Mario perduti in un vapore argentino, lontanissimi, d’una immaterialità inesprimibile, simile forse ad orizzonti d’un paesaggio selenico, che suscitavano nello spirito la visione d’un qualche astro semispento abitato dai Mani. La cupola di San Pietro, luminosa d’un singolare azzurro metallico nell’azzurro dell’aria, giganteggiava prossima alla vista così che quasi pareva tangibile. E i due giovini Eroi cignigeni, bellissimi in quell’immenso candore come in un’apoteosi della loro origine, parevano gli immortali Genii di Roma vigilanti sul sonno della città sacra”

Andrea Sperelli, il protagonista de “Il piacere”, alla fine dovrà fare i conti con le proprie sconfitte sentimentali, il suo edonismo vissuto in forme estreme, il vuoto di valori e il disfacimento di una società che – già ai suoi tempi - al valore della bellezza aveva cominciato a sostituire quello del profitto. Insieme a questo giovane eroe decadente - così simile al Dorian Gray di Oscar Wilde o al barone Des Esseintes di Huysmans, che interpretano la vocazione più raffinata della cultura europea -  osserviamo il declino di un mondo e la morte di un ideale di bellezza di cui il ceto aristocratico doveva essere il principale custode.


martedì 8 settembre 2020

La società signorile di massa

 

Fino a qualche anno fa possedere un cellulare, guidare un suv, avere una laurea, potersi permettere una vacanza in una località esclusiva, significava essenzialmente appartenere ad una classe sociale elevata, un’élite. Erano condizioni, queste, che marcavano la propria diversità, direi quasi la propria superiorità nella scala sociale. Oggi, invece, uno smartphone ce l’hanno praticamente tutti (noi italiani siamo primi in Europa e terzi nel mondo); in giro si vedono solo suv, le altre macchine (molto più belle, secondo me) sembrano sparite dalla circolazione; una laurea ce l’hanno ormai cani e porci; le Seicelles o le Canarie sono diventate mete per chiunque. Insomma, quei requisiti che un tempo costituivano veri e propri status simbol, appannaggio dei “signori”, nella società globalizzata dei nostri tempi sono diventati usi e costumi standardizzati e di massa. Per distinguersi dalla massa ed avere un nuovo riconoscimento sociale, si è costretti a cercare nuove nicchie di vita e di comportamenti in cui potersi realizzare e sentirsi diversi. E allora, se la società di massa diventa paradossalmente signorile potendo accedere a quei consumi opulenti prima negati, cosa fa oggi chi vuole distinguersi da tale massa consumistica?

“Come farà l’1% della popolazione – si domanda il sociologo Luca Ricolfi nel suo interessante saggio intitolato “La società signorile di massa”  - a marcare la differenza col restante 99%? Qui la distinzione tende a farsi strada lungo due vie: l’astensione dal consumo (una sorta di “frugalità ostentatoria”), e i consumi etici, come gli acquisti “equi e solidali” e l’impegno pubblico, possibilmente visibile e proclamato, quando non in favore di telecamera. Volendo tentare un quadro approssimativo e per forza semplicistico, i veri signori, oggi, a differenza della massa dei nuovi signori, comprano pochi abiti e pochi oggetti; mai gioielli né argenteria; spogliano le loro case di quadri, tappeti e ninnoli vari; mangiano poco, ma bene; fanno (o meglio, fanno fare) marmellate con la frutta dei loro orti; invitano gli amici a casa e non al ristorante; leggono libri, preferibilmente di carta; si abbonano a giornali online, preferibilmente stranieri; non guardano programmi televisivi, ma le serie su Netflix; e per le vacanze non scelgono località di grido iperaffollate, ma preferiscono ritirarsi nelle loro avite proprietà di campagna, con piscina e servitù, defilati, riparati all’ombra di un bosco; o si rintanano sullo yacth di amici, girovagando anonimi per i mari, possibilmente senza mai scendere nei porti. Insomma, nell’epoca della condivisione e ostentazione, meglio evitare le folle e i “consumi cospicui”; nell’epoca dell’abbondanza, ricchezza e opulenza di massa, meglio abbandonare l’accumulo di beni materiali e uno stile di vita vistoso. La società signorile non di massa non può che affermare valori in controtendenza, per sottrazione, apparentemente dimessi e sotto tono: il silenzio, la campagna, il vuoto, la frugalità, l’artigianalità, l’essenzialità spoglia. Una “semplicità di vita” che assomiglia solo da lontano a un anticonsumismo, o a una decrescita felice, o a un pauperismo francescano: è una semplicità volontaria molto identitaria ed esclusiva, che si fonda su raffinatezza e cultura, e affonda le sue radici nelle origini familiari e in un’istruzione privilegiata. E’ il lusso di una vita nascosta anziché esibita, in un tempo in cui tutti invece si mostrano ed esibiscono…”

Ci si domanda come può una società essere “signorile”, ma nello stesso tempo di “massa”. E Ricolfi – che ha coniato tale definizione – ci spiega che così come nelle società signorili del passato esisteva un privilegiato gruppo sociale (costituito dai nobili, dal clero e dai guerrieri) che consumava senza lavorare e produrre, nell’attuale società - che è entrata in un regime di stagnazione o di decrescita - i giovani cittadini che non lavorano hanno superato quelli che lavorano; e pur non lavorando possono accedere a tutti i consumi opulenti (il cellulare, la macchina, i viaggi di piacere, il cinema…) grazie alle rendite e ai risparmi accumulati dalla generazione precedente. In altre parole, per “società signorile di massa” si intende una società apparentemente ricca in cui l’economia non cresce più e la maggioranza che non lavora e che accede al surplus è legata quasi sempre a quella che lavora attraverso le relazioni familiari di coniuge, figlio e genitore. Ma cosa accade quando il “giovin signore” dei nostri tempi mette al mondo un figlio? Con tutte le difficoltà esistenti, non potrà essere generoso nei suoi confronti, come i suoi genitori sono stati con lui. Insomma, se le prospettive di lavoro e di vita per i nostri figli sono quel che sono, quelle per i nostri nipoti sono a dir poco preoccupanti.