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lunedì 19 settembre 2022

Restare o viaggiare?

 


Non sono un viaggiatore, nell’accezione più nobile e, direi, romantica del termine. Più che “andare” in capo al mondo, amo “restare” in posti a me cari e conosciuti, che io considero più seducenti di quelle mete esotiche o di quelle località alla moda che si trovano sempre altrove, lontane. E non sono viaggiatori - ma semplici turisti - coloro che si spostano in poche ore da un punto all’altro del pianeta senza alcuna fatica. Ansiosi solo di raggiungere la meta agognata. Viaggiare è un’arte che appartiene (o apparteneva?) solo a pochi eletti. Il viaggio è spaesamento; è sorpresa; è conoscenza. In un mondo globalizzato e uniforme come il nostro anche quelle destinazioni irraggiungibili e sconosciute che un tempo si potevano solo immaginare, dove nessuno aveva messo piede e che costituivano tappe fondamentali per l’educazione dei rampolli delle famiglie benestanti che si apprestavano a fare il loro ingresso nella società, sono diventate accessibili e alla portata di un turismo di massa che le ha stravolte e standardizzate. Io credo che il grand tour intrapreso da Goethe tra il 1813 e il 1817, riportato in quel suo bel libro che si chiama “Viaggio in Italia”, possa scoraggiare chiunque, oggi, vorrà ritentare l’impresa.

Esistono luoghi vicini a noi che ci parlano di bellezza, spesso ignoti perfino a chi li abita, eppure non ci attirano, li evitiamo: anziché “restare” dobbiamo sempre “andare”, afflitti da una inguaribile esterofilia. “Il fatto è che sono pochi quelli che sanno essere felici dove si trovano – diceva lo scrittore statunitense George Washington Irving - da qui deriva il desiderio di essere dove non sono, da qui la mania del moto perpetuo”. 

Sto leggendo un saggio dell’antropologo Vito Teti “Pietre di pane” con sottotitolo “un’antropologia del restare”; scrive Teti:

“Non si resta, perché in un mondo in perenne movimento, anche chi resta è in viaggio. E, forse, partire, tornare, restare sono diventate – o sono sempre state – modalità diverse del viaggiare. Se non ti senti prigioniero di nessun luogo o padrone di qualche luogo, vuol dire che possiedi la libertà del cammino. L’avventura del restare – la fatica, l’asprezza, la bellezza, l’etica della restanza – non è meno decisiva e fondante dell’avventura del viaggiare. Le due avventure sono complementari, vanno colte e narrate insieme. Restare, allora, non è stata, per tanti, una scorciatoia, un atto di pigrizia, una scelta di comodità; restare è stata un’avventura, un atto di incoscienza e, forse, di prodezza, una fatica e un dolore. Non si ceda alla retorica o all’enfasi, ma restare è la forma estrema del viaggiare. Restare è un’arte, un’invenzione; un esercizio che mette in crisi le retoriche delle identità locali. Restare è una diversa pratica dei luoghi e una diversa esperienza del tempo, una riconsiderazione dei ritmi e delle stagioni della vita”.


Mi viene da pensare che la vera scelta rivoluzionaria, oggi, sia quella di “restare” e forse anche quella di “ritornare”: perché, come scrive Claudio Magris “il viaggio più affascinante è un ritorno, un’odissea e i luoghi del percorso consueto, i microcosmi quotidiani attraversati da tanti anni, sono una sfida ulissiaca”.


giovedì 8 settembre 2022

La penombra che abbiamo attraversato

 


Sono rientrato da qualche giorno nella Capitale. L’avevo lasciata alle prime luci dell’alba di un giorno di fine luglio. Scappavo dalla cappa di afa che l’avvolgeva; scappavo dal suo traffico caotico e dalla spazzatura ad ogni angolo di strada; scappavo dalla calca di un turismo di massa, mai così convulso come quest’anno. Ma la pandemia non doveva migliorarci?

Roma, di prima mattina - quando tutti dormono e tacciono sia le macchine, che le attività e la frenesia isterica della gente sempre connessa - appare più umana, più vivibile. Addirittura più pulita. Sembra quasi che i suoi abitanti e chi l’amministra siano la causa principale di tutti i suoi mali. Ero diretto al paesello natale - il mio eremo - capace ancora di lenire le ferite inferte da una città che diventa, di giorno in giorno, sempre più difficile da abitare. La mia àncora di salvezza, il mio buen retiro è proprio quel paesello, arroccato su una collina che guarda verso il mare. Il mio luogo dell’anima che conserva il ricordo genuino e spensierato dell’infanzia e dell’adolescenza: il mio tempo perduto. Forse il più felice, nonostante le difficoltà del vivere di quel tempo passato. Un luogo che evoca profumi e sapori e sensazioni e sentimenti di una certa Italia che non c’è più. Un luogo che serba quasi le tracce dei miei anni più spensierati. E ogni volta che mi ritrovo lì, tra quelle case in pietra e quei vicoli silenziosi, mi piace andare con la mente a quel periodo lontano, quasi allo scopo di recuperare il senso antico di quella stagione della vita e cercarne i significati più profondi. Non so se il mondo di oggi è migliore: sappiamo, però, quanto sia diverso. E quanto sia cambiato!

Man mano che mi avvicinavo con la macchina alla mia terra di origine, sentivo la mia aria che è diversa da quella di Roma. E’ un’aria pungente e fresca che sa di erba appena falciata e ha il potere di rinvigorire la mente; ha il profumo muschiato del latte di bufala e di mozzarella, mentre attraverso la piana del Sele nei pressi di Paestum; sa di salsedine, appena percorro la strada che costeggia il mare di Agropoli, prima di prendere la via che si inerpica sulla collina dove sorge la mia casetta che mi aspetta come addormentata. Mi vengono in mente le parole scritte da Lalla Romano – scrittrice piemontese, una delle maggiori del Novecento – nel suo bellissimo romanzo pubblicato nel 1964 “La penombra che abbiamo attraversato”, un libro che avevo iniziato a leggere prima di partire. La scrittrice fa ritorno, dopo molti anni, al paese della sua infanzia - Ponte Stura - una piccola località tra le montagne della provincia di Alessandria: vuole riannodare i fili di una vita partendo dalle sue origini, con immagini e ricordi. “Sono uscita nella strada davanti all’albergo, e ho sentito l’aria – scrive la Romano - L’aria mi può bastare. E’ la mia aria. In nessun’altra valle vicina o lontana c’è quell’aria. Io la riconosco all’odore leggero che sa di latte, di strame, di erbe amare…Non è mai esaurito il mio bisogno di quell’aria. Io la penso di lontano, e mi nutre. Mi tormenta, anche: per qualcosa di irraggiungibile, ma anche di fatale. Essa è per me il passato: tutto quello che è avvenuto”. L’autrice di questo romanzo rievoca, con uno stile intimo e poetico, quel suo “buon tempo antico” in quel luogo rimasto immobile che conserva “il fascino del tempo di prima”. Anche se lentamente continua a morire. Ma lei ne è consolata perché quella immutabilità costituisce la sua vera essenza. La sua felicità è legata al luogo dell’infanzia e viene riassunta dalla madre poco prima di morire: “come eravamo felici!”. Per lei, sembra quasi che il meglio della vita sia qualcosa di già trascorso; il tempo della felicità sia solo quello di prima.


“La penombra che abbiamo attraversato” è un libro tipicamente proustiano: ricorda. Il titolo è tratto proprio da una bellissima frase di Proust relativa all’infanzia che dice: “ci appartiene veramente soltanto ciò che noi stessi portiamo alla luce estraendolo dall’oscurità che abbiamo dentro di noi…Intorno alle verità che siamo riusciti a trovare in noi stessi spira un’aurea poetica, una dolcezza e un mistero, i quali non sono altro se non la penombra che abbiamo attraversato”. Lalla Romano, nel percorrere il paese che l’aveva vista bambina, rivive quei tempi dolci e sereni nei minimi particolari, come se quelle antiche immagini avessero la capacità di sciogliersi e il tepore di quel ricordo le richiamasse in vita dal gelo dell’oblio.

Amo la “letteratura della memoria” e il libro della Romano si colloca, con tutte le sue buone qualità di stile e di linguaggio, in questo filone narrativo. Saper rendere universale una vicenda umana così individuale è una delle caratteristiche migliori di una grande scrittrice: e devo dire che tra le righe del libro di Lalla Romano io spesso ritrovo e rivedo il bambino e l’adolescente che fui nel “leggendario tempo di prima”. Mi piace condividere con la scrittrice l’illusione che possa esistere nel nostro tempo un piccolo eden rappresentato da un microcosmo che è “il paese”, con il suo silenzio, le sue atmosfere, la sua natura, la sua aria buona. Il suo paese natale in quell’angolo di Piemonte diventa anche il mio, nel Cilento. Perché tutti i paesi un po' si somigliano. Mi ritrovo e mi rivedo nelle sue parole quando scrive che si sentiva come drogata “nell’odore arido delle stoppie, nel caldo pungente del mezzogiorno, tra lo stridore delle cicale”; e quando scrive che cercava una esaltante libertà “solo sulle montagne, nei valloni profondi e freschi, sui costoni ventosi”; e quando parla del “castello” (c’è sempre un castello in ogni paese) che “era il luogo di ogni bellezza…dove il tempo pareva fermato” dove andava a nascondersi e a giocare; mi ritrovo tra le sue pagine quando dice che “non le piaceva andare dove e quando andavano tutti” e che preferiva “schivare la gente”. Un po' per timidezza, un po' per la sua indole solitaria. Ha parole di ammirazione per “i nobili”: “esseri di una specie più fine, più rara”. Li vedeva passare sul calessino, il marchese e la marchesa, mentre andavano in chiesa. Ricordo anch’io i marchesi del mio paese – discendenti di un’antica e nobile casata - che uscivano dal loro palazzo marchesale, antistante la chiesa, per la messa domenicale: li osservavo, venivano ossequiati dai contadini del posto, ammiravo il loro portamento elegante e potevo solo immaginare la vita appartata che conducevano in quella grande dimora aristocratica che li rendeva così speciali, così diversi dagli altri. Girando per Ponte Stura Lalla Romano cerca con gli occhi la bottega del fabbro, dalla quale sentiva battere il ferro sull’incudine: “il suono più esaltante che si possa sentire”. Ma la forgia non c’è più. Un velo di malinconia mi scende addosso. Quel rumore ritmico del martello che batteva il ferro sull’incudine piaceva anche a me, da bambino. Mi era familiare. La modernità me l’ha portato via. E' sparito un antico mestiere. E' venuta meno una filosofia di vita.