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martedì 22 novembre 2022

La solitudine

 


E’ bello stare da soli: sentirsi soli, invece, è forse uno dei mali peggiori dei nostri tempi. Più siamo connessi, più siamo informati, più dipendiamo dalla tecnologia stando sui social e più ci sentiamo soli. Diceva Luciano De Crescenzo che se stai male e sei solo stai malissimo, se stai bene e sei solo stai benissimo. La solitudine cercata e desiderata e non imposta o subita è una delle componenti importanti della nostra vita che eleva l’animo e ci rende liberi. Il contadino che sta nella sua vigna o che raccoglie le olive non ha bisogno di compagnia; il monaco benedettino che prega nella sua cella e poi coltiva il suo orticello è in pace con sé stesso e ama la sua condizione; chi legge o chi scrive non teme la solitudine; l’artista quando crea le sue opere non è mai solo.  Ti puoi sentire solo, invece, in un treno affollato della metropolitana; su una spiaggia gremita di bagnanti nel mese di agosto; al ristorante durante quegli interminabili pranzi nuziali. E non sentirti solo mentre percorri un sentiero di montagna con lo zaino in spalla, dopo aver mangiato un panino con la mortadella. Per dirla con Sartre, se ti senti triste quando stai da solo probabilmente sei in cattiva compagnia. Ma non sempre la tristezza è associata alla solitudine. A chi non è mai capitato di avere voglia di starsene da soli pur trovandosi in mezzo a un’allegra e spensierata comitiva di amici? E’ chiaro che sull’umore influiscono tantissimi fattori. Mio nonno, per esempio, era una persona estremamente semplice: contadino, non sapeva né leggere né scrivere, trascorse la sua vita senza mai allontanarsi dalla sua campagna e dal suo paese nativo, eppure non lo vidi mai triste o depresso. Quando non lavorava era capace di starsene giornate intere seduto davanti l’uscio di casa a fischiettare, senza lamentarsi. E ogni piccolo imprevisto, ogni minima distrazione anche la più insignificante, come un passante che gli rivolgeva un saluto, un gatto che faceva le fusa, un ragazzino che giocava a palla, possedevano ai suoi occhi la straordinaria capacità di movimentare la sua giornata. Non aveva bisogno di leggere libri… di scrivere… di viaggiare…di guardare la televisione…di stare con un telefonino in mano come facciamo noi. Solo che lui era sereno, e noi siamo stressati; lui appariva soddisfatto della sua esistenza e si accontentava del poco che aveva e noi siamo sempre scontenti, alla ricerca di novità.

Io avverto la solitudine soprattutto quando mi trovo a girovagare per una di quelle superaffollate strade di Roma, piene di negozi, luminarie e suoni, nell’ora del suo massimo struscio pomeridiano. Lì mi sento terribilmente solo come in nessun altro luogo. Poi magari mi capita di percorrere un viottolo di paese e non percepire quella strana sensazione che mi assale tra la folla. E se incontro, anche una sola persona che nemmeno conosco, mi sembra naturale salutarla e scambiarci pure qualche parola di rito. E che dire, poi, di quei vecchietti di città che trascorrono lunghe ore seduti su una panchina all’interno di qualche parco spelacchiato di periferia, straziati e afflitti dalle macchine, dallo smog e dai rumori? La loro solitudine si percepisce immediatamente, si tocca quasi con mano e devo dire che quella visione mi procura tristezza. Eppure, la stessa immagine di vecchiaia, le stesse persone anziane sedute a chiacchierare sul sagrato antistante la chiesetta del loro paese, mi trasmettono altri sentimenti, altre sensazioni. E sono sensazioni positive di serenità e di tranquillità. Sembra quasi che certi luoghi siano capaci di proteggerti e non farti sentire solo, seppure apparentemente possano apparire fuori dal mondo e dalla realtà.

A volte mi chiedo se i blog, o meglio ancora i social network – che in qualche maniera hanno sostituito i luoghi di aggregazione di una volta – siano in grado di alleviare la solitudine dei nostri tempi. Ma ho seri dubbi al riguardo. Questi strumenti tecnologici sono come quelle strade superaffollate del centro storico di Roma: ti fanno sentire tragicamente ancora più solo. Ti illudono di stare in compagnia. Quella moltitudine di persone che passeggia in città è simile ai tanti follower dei blog e agli amici virtuali a cui “abbiamo chiesto amicizia” su Facebook. Come se l’amicizia fosse una merce da comprare e non una relazione profonda che si costruisce guardando negli occhi una persona.  Resta la scrittura, strumento insuperabile per raccontare le nostre ambizioni e le nostre fantasie, le nostre solitudini e le nostre sconfitte, che forse sono le vere protagoniste di questo mondo virtuale. C’è addirittura chi prova, in rete, a fingere un’altra esistenza, forse per vedere l’effetto che fa e illudersi di essere quello che non si è nella realtà. In tempi non sospetti lo faceva anche Fernando Pessoa (di cui ho parlato nel post precedente), quando vestiva i panni dei suoi tanti eteronimi. Chissà, forse oggi il poeta e scrittore portoghese avrebbe creato tanti blog quanti furono i suoi personaggi che vivevano nella sua “affollata solitudine”.


domenica 13 novembre 2022

Libri da comodino

 


Ci sono alcuni libri che si possono sfogliare e leggere a caso, senza iniziare in maniera sistematica dalla prima pagina. Io li chiamo “libri da comodino”, libri sempre a portata di mano, che hanno una sorta di potere taumaturgico di suggerire risposte e far sorgere domande, da leggere magari prima di andare a letto, la sera.  Sono libri che non vanno letti come un romanzo perché non hanno né un inizio né una fine; sono libri che si sfogliano con lentezza quando ti assale un’inquietudine, quando la malinconia fatica ad andare via. Sono libri senza tempo, scritti nel passato ma che hanno la freschezza del presente.

I miei libri da comodino sono gli “Essais” (o Saggi) di Montaigne; le “Lettere a Lucilio” di Seneca; e “Il libro dell’inquietudine” di Pessoa. Non li abbandono mai, leggo una pagina di qua, un pensiero di là, sottolineo, annoto, rubo qualche citazione per rafforzare i miei modesti scritti su questo blog, o per “esprimere meglio me stesso” come direbbe Montaigne: insomma, una lettura senza fine che prendo e lascio quando mi piace perché tra una pagina e l’altra non c’è alcun legame.

Michel de Montaigne (1533 – 1592) è un filosofo che mi ha sempre affascinato, da quando comprai i “Saggi” pubblicati in due volumi da Adelphi (traduzione di Fausta Garavini - pagg. 1588). Chi non ha mai pensato, almeno una volta nella propria vita, di lasciare tutto e rifugiarsi in un posto lontano dalle miserie umane? E’ proprio quello che fece Michel de Montaigne, verso i quarant’anni: si ritirò nella torre del suo castello nel sudovest della Francia a meditare, a leggere e a scrivere, circondato da una ricca biblioteca che conteneva un migliaio di testi. Possono sembrare pochi, ma in quell’epoca non esisteva tutta la spazzatura cartacea che oggi ci sommerge. Aveva Plutarco, Lucrezio, Terenzio, Cicerone, Cesare, Plotino; aveva le opere di Erasmo, di Sofocle, di Platone, di Seneca; aveva il libro dell’Ecclesiaste e tanti altri. Preferiva i testi antichi che gli sembravano “più succosi e vigorosi” di quelli del suo tempo. Diceva “non amo che i libri o piacevoli e facili, che mi accarezzano, o quelli che mi consolano e mi consigliano a regolare la mia vita e la mia morte”. Erano, insomma, i suoi libri da comodino. Da queste opere egli estrasse cinquantasette sentenze e le fece iscrivere sulle travi del soffitto affinché lo proteggessero e lo accompagnassero nella sua solitudine e nella stesura dei suoi “Saggi”, un libro immenso che arricchiva giorno dopo giorno con i pensieri dei suoi autori prediletti. Leggeva Plutarco, leggeva Seneca, leggeva Lucrezio e li “saccheggiava”, piluccava una frase a questo, una citazione a quell’altro creando, con la sua straordinaria prosa, degli incastri letterari ricchi e deliziosi, ironici e amabili. “Le api saccheggiano fiori qua e là – scriveva – ma poi ne fanno il miele, che è tutto loro; non è più timo né maggiorana” . Non citava gli altri se non per esprimere meglio il suo pensiero. Si compiaceva del fatto che le sue opinioni avessero l’onore di corrispondere spesso a quelle dei grandi dell’antichità. Fino ad allora, forse nessuno scrittore aveva parlato e scritto di sé stesso, mettendosi a nudo davanti ai propri lettori con parole le più esplicite possibili, scrivendo della sua anima e soprattutto del suo corpo. E questo ci consente di giudicare più accettabili quegli aspetti di noi che a volte non abbiamo il coraggio di raccontare, ma non per questo non sono parti integranti della nostra esistenza. “Tante cose che non vorrei dire a nessuno, le dico al pubblico, e per quanto riguarda le mie più segrete convinzioni o idee rimando a una bottega di libraio i miei amici più fedeli”.

A Montaigne interessava l’uomo nella sua interezza. E attraverso l’autoritratto che troviamo nei Saggi, quest’uomo ce lo restituisce nella sua complessa, variegata e contraddittoria immagine. Perché ogni singolo individuo porta in sé una traccia dell’intera varietà della specie umana. “Io che mi spio più da vicino – scrive nei Saggi – che ho gli occhi incessantemente fissi su me stesso, come chi non ha molto da fare altrove, a malapena oserei dire quanta vanità e debolezza trovo in me (…) Se la salute mi ride e la serenità di una bella giornata, eccomi amabile; se ho un callo che mi fa dolere l’alluce, eccomi corrucciato, stizzoso e intrattabile (…) ora mi va di far tutto, ora niente; quello che mi fa piacere in questo momento, talvolta mi sarà penoso”. Dicendo queste cose Montaigne difendeva la sua naturalezza, la sua sincerità, caratteristiche che apprezzava in ogni essere umano. Nonostante si fosse allontanato dal consorzio umano, era attratto comunque dall’uomo per le stesse ragioni per cui egli lo scherniva e lo punzecchiava. Quell’uomo incoerente e inaffidabile, che non andava preso troppo sul serio, composto da tante piccole parti, come un puzzle, che non sempre stanno al posto giusto. Nella sua grande biblioteca, sotto la protezione delle sue sentenze scritte sulle travi del soffitto di quella torre, passava il suo tempo senza progetti futuri, ora sfogliando un libro, ora un altro, ora scrivendo ora passeggiando, ora osservando il panorama dalla sua alta postazione. Entrando e uscendo dal suo libro, i Saggi, il testamento che ci ha lasciato.

Dai “Saggi” di Montaigne alle “Lettere a Lucilio” di Seneca il passo – per me – è breve, anche se vado indietro di circa quindici secoli; è un libro di straordinaria attualità e di una semplicità tanto profonda quanto disarmante. Anche qui è sempre l’uomo al centro della narrazione, con i suoi vizi e le sue virtù, i suoi entusiasmi e le sue paure, i suoi desideri e le sue illusioni. Sono, questi, i mali dell’anima che derivano dalla sua incapacità di comprenderli e dare loro ascolto. “Se vorrai star bene – scrive Seneca – cura soprattutto la salute dell’animo, e poi quella del corpo, la quale non ti costerà molto”. Sono innamorato di questo cofanetto che contiene i due volumi – con il testo latino a fronte – pubblicato dalla BUR. Lo comprai tanti anni fa pagandolo trentamila lire: una sorta di bibbia laica, una fonte inesauribile di saggezza. Per chi non lo sapesse, l’opera comprende 124 lettere indirizzate da Seneca al suo amico Lucilio, Governatore della Sicilia. Le missive toccano diversi argomenti e affrontano i grandi temi dell’esistenza come l’amore e la morte, l’amicizia e la vecchiaia, la povertà e la ricchezza, il tempo e la solitudine…

Sul mio comodino c’è, infine,  “Il libro dell’inquietudine” con cui Fernando Pessoa ci restituisce l’uomo del Novecento: tormentato, con una visione negativa del mondo, con la sua solitudine esistenziale; un uomo – come ha scritto Antonio Tabucchi che ci ha fatto conoscere lo scrittore portoghese – “che deride e si deride e che, nella sua verità e nella sua cattiveria, nell’abuso del paradosso, nella capacità di affermare ironicamente il contrario di un assioma già ironicamente adoperato, realizza una poesia fra le più rivoluzionarie del Novecento”. Il libro dell’inquietudine è una miscela di appunti, meditazioni, vaneggiamenti, una sorta di diario intimo che Pessoa affidò a uno dei suoi tanti eteronimi: Bernardo Soares. Si, perché in Pessoa si riflettono e vivono tante personalità da lui create che ne fanno “una sola moltitudine”, “una plurima, mostruosa cattiva coscienza: – scrive ancora Tabucchi - la mia, la nostra, la vostra, quella di tutti gli uomini di buona volontà, di qualsiasi buona volontà si tratti. Pessoa è un grido di dolore e un belato, un canto altissimo e una smorfia, un’unghia che corre sulla lavagna dove un buon professore voleva tracciare la tranquillizzante dimostrazione del suo teorema” Pessoa ci dice che “la letteratura, come tutta l’arte, è la dimostrazione che la vita non basta”. Se bastasse, probabilmente nessuno scriverebbe libri, dipingerebbe madonne, costruirebbe cattedrali, comporrebbe sinfonie e poesie. E nessuno leggerebbe libri. “Per me scrivere – dice Pessoa – è disprezzarmi; ma non posso smettere di scrivere. Scrivere è come la droga che odio e che prendo, il vizio che disprezzo e in cui vivo. Ci sono veleni necessari, e ce ne sono di sottilissimi composti di ingredienti dell’anima”. E noi non possiamo smettere di nutrirci di questi “veleni necessari” e di leggere e rileggere “Il libro dell’inquietudine”.


sabato 5 novembre 2022

Non ho letto libri: ho raccolto olive

 


“Non lessi libri, la prima estate; zappai fagioli”. Così scrive David Thoreau in quel suo libro cult che è “Walden o vita nei boschi”, resoconto dei due anni di soggiorno solitario trascorso in una foresta del Massachusetts, la sua affascinante esperienza di vita. Prendendo a prestito le parole di questo eccentrico e anticonformista personaggio dell’America dell’Ottocento, mi viene da dire: non ho letto libri nello scorso mese di ottobre; ho raccolto olive. Come dire che ho sacrificato il lavoro mentale per quello materiale. Eppure, a volte, c'è più spiritualità e raccoglimento in un'attività manuale che cerebrale. Sono stato tra i miei ulivi, nel Cilento, presenze quasi umane che mi hanno fatto compagnia e mi hanno trasmesso ricordi e saperi antichi che si perdono nella notte dei tempi. A guardarli, con quelle scanalature, con quelle forme asimmetriche e contorte, con quei tronchi attorcigliati e gibbosi, questi magnifici e preziosi alberi mi ricordano, sotto certe apparenze, i contadini del passato con il loro corpo incurvato, le mani nodose che raccontavano la fatica del vivere, le rughe scavate nei volti bruciati dal sole. Mi ricordano i miei nonni, contadini anch’essi. Ma oggi i contadini sono figure in via di estinzione.

Ne ho incontrato uno, giorni fa, nel piccolo frantoio dove mi recavo per la molitura delle mie olive. Aveva 87 anni. Era lì con il figlio in attesa del suo olio. Sembrava un personaggio appena uscito da un dipinto di Giovanni Segantini, fuori dal tempo. Mi diceva che nonostante l’età, si arrampicava ancora sugli ulivi, armato di rastrello per “pettinare” i rami carichi di olive. Devo dire che il suo volto asciutto sprigionava una straordinaria, antica umanità, non scalfita minimamente dal progresso e dalla modernità. Era l’immagine personificata di un vecchio ulivo secolare e mentre mi raccontava della sua vita vissuta sempre nei campi a coltivare l’orto, a vendemmiare, a raccogliere le olive e a mietere il grano "con la falce", stentavo a credere che potesse avere ancora così tanta vitalità e voglia di lavorare. Lo osservavo con ammirazione: era parte di una natura incontaminata in cui era vissuto per tutta la vita seguendo il ciclo delle stagioni; era parte di un mondo che rimandava a una dimensione dell’esistenza più semplice e genuina, lontana dal caos, dalla fretta e dalle macchine. Certamente lui non era conscio di essere - con la sua filosofia di vita - condannato a sparire. Eppure era ancora lì a raccontare il suo mondo e le sue esperienze, con pazienza, con saggezza, con umiltà. E con convinzione.