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giovedì 29 luglio 2021

I grandi della Terra

 


I grandi della Terra, quelli che stanno nei libri di storia, non esistono più. Forse l’ultimo rappresentante di questa razza ormai estinta è stato Mao Tse-tung, morto nel 1976. Oggi, coloro che governano il mondo e guidano nazioni immense come la Cina, l’India, gli Stati Uniti, la Russia hanno certamente poteri enormi, incontenibili, come forse non possedevano neanche gli Imperatori dell’antica Roma, eppure nessuno di loro può essere paragonato a un Giulio Cesare, a un Carlo Magno, a un Napoleone. Insomma, ad uno di quei grandi personaggi carismatici del passato che – nel bene e nel male - hanno fatto la storia del mondo. Nessuno ha quelle qualità straordinarie che trasformano un uomo politico in un simbolo, che gli conferiscono quell’aura di grandezza e gli consentono di accedere nell’immaginario collettivo.

Quando li vediamo arrivare – i “grandi” dei nostri tempi - con quel seguito sproporzionato di macchine, scortati da uomini in assetto di guerra, quando li contempliamo in televisione, nei summit, in quelle foto di rito che ricordano gli scolari in posa per l’istantanea di fine anno, abbiamo l’impressione - noi poveri mortali - che non potranno mai rimanere impressi nella memoria della storia. E nella nostra memoria. Sorridono meccanicamente, protesi nell’ansia di piacere; discutono, leggono discorsi, si atteggiano a grandi statisti; si dimostrano preoccupati o rasserenati a seconda della circostanza; danno l’impressione di conoscersi tra di loro come vecchi amici e fingono cordialità. Loro, vorrebbero recitare come i sovrani di una volta: ma non hanno autorità, sono fantasmi di se stessi che non suscitano nessuna complicità e nessuna passione nelle masse. I nuovi potenti, indeboliti nella loro forza persuasiva, carismatica e decisionale, sono una copia sbiadita di quegli antichi condottieri del passato. Hanno smarrito quella sicurezza, quell’autorità e quel distacco contemplativo che permetteva ai Grandi di guardare il mondo dall’alto, mentre conquistavano cose e uomini.

Ma, se i grandi della Terra sembrano spariti, non è sparito dal mondo il potere, tant’è che ogni giorno aumenta tra gli uomini il desiderio di appropriarsene, qualunque esso sia e in qualsiasi contesto si manifesti. E’ un potere che ha cambiato forma, che non ha un volto preciso, che si annida nei gangli più diversi della società, delle istituzioni e dell’informazione, e si esprime - di volta in volta - attraverso un politico importante, un imprenditore, un magistrato, un personaggio televisivo, una moda, una pubblicità ripetuta ossessivamente, un influencer…un oggetto. E’ un potere, questo, subdolo e pericoloso che si insinua nelle nostre vite, che occupa le nostre azioni quotidiane, che manipola le nostre scelte, che condiziona i nostri pensieri. Un potere che finisce per plasmare colui che lo anela, ma che blandisce, con ogni mezzo, anche chi si trova per caso a passare dalle sue parti.


venerdì 23 luglio 2021

Lo "spirito" del nostro tempo

 


“…E’ così evidente che lo spirito venga considerato l’elemento supremo e dominante su qualsiasi altro. Lo impariamo a scuola. Chi può si adorna di spirito, se ne abbellisce. Legato ad alcunché, lo spirito è l’elemento più diffuso al mondo. Lo spirito della fedeltà, lo spirito dell’amore, uno spirito virile, uno spirito colto, il più importante spirito del nostro tempo, teniamo alto lo spirito di questa o di quell’altra impresa, agiamo secondo lo spirito del nostro movimento: come suonano rassicuranti e inoffensive queste espressioni fino ai gradi più bassi. Tutto il resto, i crimini che si compiono ogni giorno o la mai paga avidità di guadagno, sembra in confronto come l’inconfessabile, come la sporcizia che Dio si toglie dalle unghie dei piedi.

Ma quando lo spirito se ne sta lì da solo, un sostantivo nudo, spoglio come un fantasma al quale si vorrebbe prestare un lenzuolo, che cosa accade allora? Si possono leggere poeti, studiare filosofi, comprare quadri e trascorrere intere nottate a discutere; ma è spirito quello che si ottiene così? Mettiamo pure che lo si ottenga, ma poi lo si possiede? Questo spirito è così fortemente legato alla forma contingente nella quale si presenta! Passa attraverso l’individuo che vorrebbe accoglierlo, e si lascia dietro solo una piccola vibrazione. Che cosa ce ne facciamo di tutto questo spirito? Lo si continua a produrre su montagne di carta, di pietra, di tela in quantità addirittura astronomiche; altrettanto di continuo lo si gusta e lo si assimila con un impegno smisurato di energia nervosa: ma che ne è poi dello spirito? Scompare come un’allucinazione? Si scompone in particelle? Si sottrae alla legge fisica della conservazione?

Non c’è proporzione tra tutto quello spreco e i granelli di polvere che scendono dentro di noi e lentamente si posano. Dove va, dov’è, che cos’è? Forse se ne sapessimo di più calerebbe sul termine “spirito” un silenzio opprimente…”

 tratto da “L’uomo senza qualità”

di Robert Musil


venerdì 16 luglio 2021

A ritroso: il ritratto di un esteta

 


Tra i personaggi più famosi e più eccentrici della letteratura mondiale, Des Esseintes - il protagonista del romanzo “A ritroso” dello scrittore francese Joris Karl Huysmans - è forse quello che più colpisce la mia immaginazione. Il libro, pubblicato nel 1884 e tradotto in Italia anche con i titoli “Controcorrente” e “Al contrario”, narra le vicende di un giovane aristocratico di stampo decadente - Des Esseintes, appunto – il quale, stanco e deluso della vita parigina di fine Ottocento, decide di abbandonare il consorzio umano - per il quale nutriva una crescente avversione - e rifugiarsi nella solitudine di una villa di campagna, evitando qualsiasi contatto non solo con il mondo esterno, ma anche con i suoi due vecchi domestici che avevano già assistito sua madre. Lui vuole allontanarsi il più possibile dalla realtà che lo circonda, dagli usi e dai costumi della gente comune, da quel mondo in cui i valori sociali e culturali sono in piena crisi. E, soprattutto, insegue un’esistenza vissuta esclusivamente alla ricerca della bellezza e del piacere estetico. Prima di trasferirsi nella sua nuova casa, Des Esseintes provvede a sistemarla in conformità dei suoi desideri e dei suoi progetti. In particolare, l’arreda con mobili e tappezzerie e suppellettili fuori dal comune; la riempie di meravigliose piante tropicali; arricchisce gli scaffali della sua libreria con le opere dei più grandi autori latini, da lui amati; fa tappezzare il salotto di rosso vivo adornando le pareti con delle stampe terrificanti “contenenti tutti i supplizi che la follia religiosa ha inventato”. In questo modo pensava di crearsi una dimora piacevole e curiosa, arredata tuttavia in maniera rara, non con l’intento di stupire gli altri ma solo per il suo piacere, “adatta alle esigenze della sua futura solitudine”. Un arredamento che finalmente potesse annullare i ricordi irritanti e volgari della sua vita trascorsa.

“In realtà quando l’epoca in cui un uomo di talento è condannato a vivere è stolta e monotona – declama la voce narrante del libro – l’artista è, a sua stessa insaputa, ossessionato dalla nostalgia di un altro secolo…Vengono in lui ricordi di esseri e di cose che non ha conosciuto personalmente, finché giunge il momento in cui egli evade violentemente dal reclusorio del suo secolo e si avventura in piena libertà in un’altra epoca con la quale, estrema illusione, gli sembra di essere in maggiore armonia”.

Per Des Esseintes la vita si svolgeva solo di notte perché il suo spirito si eccitava “solo al contatto con l’ombra”. Lui pensava che le azioni umane e gli spostamenti fossero inutili e che l’immaginazione potesse facilmente supplire alla volgare realtà dei fatti della vita; era convinto che ci si potesse abbandonare a lunghe esplorazioni e a scoperte meravigliose standosene comodamente seduti davanti al camino, aiutando all’occasione lo spirito con la lettura suggestiva di un libro di viaggi, perchè “…tutto sta nel sapere astrarsi abbastanza per far sorgere l’allucinazione e sostituire il sogno della realtà alla realtà stessa”. E poi mal sopportava la vita sociale in tutte le sue varie declinazioni, e poi gli arrampicatori sociali e “quegli stretti cervelli di bottegai” attratti solo dai soldi;  e disprezzava quella “bassa distrazione degli spiriti mediocri che è la politica”. Il nostro eroe, insomma, “viveva di se stesso, si nutriva della sua propria sostanza, al pari di quegli animali intorpiditi, rannicchiati in un buco durante l’inverno. La solitudine aveva agito sul suo cervello come un narcotico”. Ma proprio quella solitudine così fervidamente bramata e finalmente raggiunta, proprio quel silenzio che in altre passate occasioni gli era parso come un compenso, un po' alla volta iniziavano a pesargli, a gravare su di lui come un peso insostenibile.

La nevrosi non tarda a spuntare: e se dapprima la malattia si rivela sotto forma di una smisurata scrupolosità nell’arredare la casa, con il passare del tempo subentrano allucinazioni sempre più frequenti che lo costringono inerte a letto. La sua felicità sembrava dunque finita, doveva “abbandonare il piccolo porto in cui aveva trovato rifugio”; era costretto a riallacciare i legami con l’odiata società e fare ritorno a Parigi. Ma proprio ora che “ doveva mutar pelle gli sarebbe piaciuto sforzarsi di possedere la fede, di farla propria non appena l’avesse raggiunta, di radicarsela nell’anima, di metterla finalmente al riparo da tutte quelle riflessioni che la scuotono e la strappano dalle radici. Ma più la desiderava e meno si colmava il vuoto del suo spirito, più tardava a venire la visita del Cristo. Anzi, via via che la sua fame religiosa aumentava, via via che egli chiamava con tutte le sue forze, come una garanzia per l’avvenire, come un aiuto per la sua nuova vita, quella fede che si lasciava vedere ma che restava così distante da spaventarlo, nuove idee si affollavano nel suo spirito sempre in combustione, respingevano la sua volontà mal ferma, combattevano con motivi di buon senso e con prove matematiche i misteri e i dogmi…”


mercoledì 7 luglio 2021

Vecchiaia

 


L’estremo paradosso dei vecchi è che desiderano morire ma vogliono vivere


Finalmente un libro sulla vecchiaia che non cede alla retorica e che evita di darne un’immagine edulcorata e seducente, come sempre più spesso viene raccontata non solo da certi testi, ma soprattutto dai mezzi di informazione e dalla pubblicità. Questo godibile libriccino di poco più di cento pagine, una via di mezzo tra il saggio e l’autobiografia, l’ha scritto Massimo Fini (aveva appena compiuto sessant’anni, oggi ne ha 78), ed era stato da poco “agguantato” dalla vecchiaia. Si intitola “Ragazzo - Storia di una vecchiaia” (Marsilio Editore). Un libro che parla della vecchiaia ma che in realtà, come scrive lo stesso Fini nella sua breve introduzione, è “un inno a quella irripetibile età in cui ci chiamavano ragazzi”. Con arguzia e con lucida spietatezza, sempre sorretto dai suoi ricordi, riesce a dare una sorta di valenza universale alle sue esperienze personali, tant’è che spesso mi sono immedesimato e ritrovato nel suo racconto.

Sappiamo quanto sia sferzante, sarcastica, provocatoria, ironica, ma anche piacevole la scrittura di questo libero pensatore del nostro tempo, che non si è mai adeguato al “politicamente corretto”, e anche in questa occasione non smentisce la sua fama di fustigatore. Il risultato è una crudele analisi senza falsi infingimenti, senza ipocrisie e senza inganni su quella che, in modo eufemistico e consolatorio, ci ostiniamo a chiamare “terza età”. Un libro consigliato soprattutto a chi sta per essere “agguantato” dalla vecchiaia che Terenzio definiva “morbus”; e Seneca, correggendolo, si premurò di aggiungere: “enim insanabilis morbus est”, in verità è una malattia insanabile. “La vecchiaia è una carogna”, diceva sempre la buonanima di mio nonno, locuzione che ripete spesso mia madre che di anni ne ha 93.

Scrive Fini che “abbiamo, al di là delle retoriche di rito, un autentico orrore della vecchiaia. E continuiamo a spostarne in avanti l’inizio. A rigore non dovrebbero più esserci vecchi, tanto abbiamo portato in là questo inizio.” E’ vero che la vita si è allungata, ma la vecchiaia comincia a sessant’anni – secondo l’autore - quindi abbiamo aumentato il tempo di vivere in questa “età atroce”. L’unico modo per fregare la vecchiaia – si legge nel libro - è anticiparla. Ma mentre “il suicidio del giovane ha una sua nobiltà, una grandezza estetica ma anche etica. Perché mette sul piatto tutto quello che ha – la vita – a favore della morte. Quello del vecchio è semplicemente patetico. Non possiede alcun valore, perché da giocarsi non ha che gli spiccioli”. Oggi i ragazzi guardano i vecchi – sostiene l’autore del libro - con la stessa incredulità venata di affetto e di pena con cui lui, alla loro età, guardava quelli della sua. Perché i ragazzi non pensano mai che anche un vecchio è stato giovane.

Ognuno di noi ha, in partenza, un organo più debole degli altri, che è il primo a cedere. Prima divoravi cibi in quantità industriale e stavi bene: ora anche un brodino diventa indigesto. Se stai accovacciato un po' più a lungo, fai fatica a rialzarti. Fai lavoretti di ordinaria amministrazione, che avevi sempre fatto, e dopo un po' ti accorgi che sei stanco morto. Tutto si complica. Tutto cala. Tutto diventa più difficile. Tutto diminuisce. “Curiosamente una sola cosa cresce: degli orribili peli nel naso e nelle orecchie. E’ cominciata l’atra senectus”. La mente, si sa, invecchia molto più tardi del corpo e, prima di indolenzirsi definitivamente, può scrutare con ribrezzo i mutamenti fisici che stanno avvenendo. E allora, dice Fini, “sia benedetta l’arteriosclerosi, siano innalzati peana all’Alzheimer, che impediscono al vecchio di rendersi conto delle sue condizioni”. Tutti noi, oggi, cerchiamo di dimostrare un’età diversa da quella che abbiamo. Ma possiamo ingannare noi stessi, non il tempo. “La vecchiaia è diventata, insieme alla morte, il tabù dei tabù dell’uomo contemporaneo. Abbiamo così creato un’intera e inedita classe di spostati e di infelici che prima non esisteva e che nella società sviluppate continua a ingrossare le proprie fila a causa del rapido invecchiamento della popolazione dovuto al combinato disposto dell’allungamento della vita e della bassa natalità. Siamo una società di vecchi che coltiva un paradossale e grottesco culto del giovanilismo andando così ad accrescere il senso di frustrazione, di inadeguatezza e di umiliazione degli anziani. (…) Le rapidissime trasformazioni tecnologiche fanno del vecchio, e sempre più spesso anche di chi biologicamente non lo è ancora, un analfabeta, uno spaesato, la sua esperienza non serve più a nulla, non conta più nulla”. E se un vecchio nella società agricola era un saggio, nell’attuale società industriale e supertecnologizzata è “un relitto”.