Cerca nel blog

venerdì 24 gennaio 2020

Arte e pubblicità



Qualcuno certamente ricorderà quella raccapricciante immagine di qualche anno fa riguardante il David di Michelangelo - simbolo della Firenze rinascimentale – che imbraccia una mitragliatrice, grazie ad un abile fotomontaggio. Si trattava di una campagna pubblicitaria di un’azienda americana produttrice di armi, la quale, senza alcuna autorizzazione e senza alcuna vergogna, aveva avuto la brillante idea di trasformare quel capolavoro dell’arte universale in un rambo grottesco. Inoltre, allo stesso David, una nota azienda di abbigliamento pensò bene di infilargli pure un paio di jeans fino al ginocchio: da rambo pronto alla battaglia a indossatore per una sfilata di moda, il passaggio fu breve. Credo  che la salma di Michelangelo si rigiri ancora nella tomba. Ma non è finita qui, perché la celebre scultura si poteva anche ammirare, inquadrata di spalle, sui manifesti affissi in alcune città italiane con un prosciutto a tracolla a mò di zaino. E che dire, poi, delle campagne pubblicitarie create intorno alla “povera” Gioconda: stravolta e sbeffeggiata in tutte le salse e credo che molte persone, oggi, facciano fatica a comprendere ed a distinguere il dipinto originale dall’immagine deformata. Si potrebbe continuare, perché gli esempi di aziende che ricorrono alle immagini di opere d’arte per promuovere i loro prodotti sono davvero tanti.

Pubblicità ed arte sono due mondi molto distanti l’uno dall’altro e con fini assai divergenti; pertanto non credo proprio che possano incontrarsi ed amalgamarsi: la prima crea desideri e bisogni e spinge le persone a comprare in maniera compulsiva delle cose, la seconda incoraggia le persone a riflettere sul bello elevando i loro desideri e selezionando i loro bisogni. C’è da dire, inoltre, che da un pò di tempo a questa parte ha preso piede un’altra strategia di marketing, rappresentata da quei giganteschi pannelli pubblicitari che coprono le facciate di interi palazzi in restauro nei centri storici di molte città d’arte. Una violenza visiva, questa, davvero insopportabile resa ancora più scioccante quando il cartellone riveste un’intera chiesa, un’antica fontana o un monumento importante. Anche queste aziende, in maniera diversa rispetto a quelle che “rubano” un’ immagine artistica, sfruttano l’arte per sponsorizzare le proprie mercanzie, i cui profitti e ritorni di immagine sono di gran lunga superiori ai finanziamenti dovuti per il restauro. Secondo me, con queste operazioni si altera il messaggio insito nell’arte, che è un messaggio culturale che tocca le corde più sensibili del nostro animo e non può diventare la rendita di una griffe, che arruola Michelangelo e Leonardo tra i propri testimonial. Non è giustificabile che un marchio di fabbrica possa appropriarsi del nostro patrimonio artistico ed architettonico, accostando il suo contenuto più profondo alla merce pubblicizzata e beneficiandone in termini di prestigio e di profitto. Accreditare l’idea che una basilica paleocristiana o una dimora gentilizia siano luoghi commerciali anziché luoghi dello spirito, è un errore che andrebbe evitato. Il patrimonio storico-artistico, tutto, dovrebbe essere sottratto al potere del mercato che oramai divora e fagocita ogni cosa, compreso il sacro insito in un’opera d’arte frutto dell’ingegno umano.

venerdì 17 gennaio 2020

Il volto della folla



Con l’avvento della società di massa – conseguenza dell’industrializzazione e della globalizzazione - si è andato sempre di più espandendo un nuovo soggetto sociale: la folla. Questa la si può osservare in qualsiasi contesto: allo stadio durante una partita di calcio o in piazza in occasione di un comizio politico… uno spettacolo… una manifestazione, in un centro commerciale come in una strada cittadina durante le ore dedicate allo “struscio”, in una stazione ferroviaria come in un teatro. E da qualche anno a questa parte, se n'è aggiunta un'altra: la folla sul web e sui cosiddetti social. Scrittori e filosofi, sociologi e poeti si sono da sempre interrogati sui comportamenti sia della folla che degli individui di cui ne fanno parte. Già Seneca, in una lettera all’amico Lucilio, scriveva: “mi chiedi che cosa tu debba specialmente evitare. Rispondo: la folla. La compagnia della moltitudine è dannosa: c’è sempre qualcuno che ci rende gradevole un vizio o, senza che ce ne accorgiamo, ce lo trasmette in tutto o in parte. Più sono le persone con cui viviamo, maggiore è il pericolo”.  Nell’Ottocento, Maupassant affermava di avere “orrore delle folle” e che non poteva entrare in un teatro  né assistere a una festa pubblica senza provare subito “un disagio strano, insostenibile, uno snervamento penoso”. Egli aveva constatato che “l’intelligenza cresce e si innalza quando si è da soli, e che diminuisce e si abbassa quando ci si mischia con gli altri”. Un concetto, questo, già anticipato nel Seicento dal filosofo Michel de Montaigne, il quale scriveva:  “quando gli uomini si riuniscono  le loro teste si restringono”. Gli si può mai dare torto? Lo confesso: la folla non mi piace e la evito, in ogni sua declinazione. Forse le ho pure frequentate nel passato, ma ora alle folle delle arene plaudenti e vocianti e festanti, preferisco il silenzio e la solitudine dei monasteri. Alle adunate in piazza scelgo la contemplazione in un angolo appartato.

Ho appena finito di leggere un saggio intitolato “Il volto della folla” (Società editrice il Mulino), scritto dalla prof.ssa Michela Nacci che insegna Storia delle dottrine politiche all’Università di Firenze. E’ un libro interessante, anche se a volte può apparire come un testo didattico per soli addetti ai lavori; un libro che prende in esame la psicologia di una massa di persone riunita in un determinato posto, i cui componenti si comportano in modo unanime, formando una sorta di soggetto collettivo che è “individuale e insieme plurale”. L’analisi della prof.ssa Nacci – che è suffragata da tesi sociologiche oltre che da argomentazioni proprie dell’antropologia criminale e della psichiatria - offre una visione davvero esaustiva di un fenomeno sociale che ha sempre appassionato gli osservatori.

La folla, scrive la Nacci nel suo libro, è ormai diventata la protagonista della vita politica e sociale: è irrazionale, istintiva, passionale, ama o odia senza distinzioni, risponde al carisma di un leader, rifiuta ed allontana chi dissente, accetta o respinge in blocco, circoscrive un nemico esterno e fonda la sua unità sulla lotta a quel nemico; è il soggetto – come si dice - che vota e prende le sue decisioni con la pancia. La folla non parla, ma inveisce e urla, non ragiona ma applaude freneticamente, usa le parole non per distinguere e scegliere ma per infiammare gli animi. L’individuo e le sue caratteristiche socio-culturali nella folla vanno perduti; nella folla si verifica un’imitazione per contagio che conduce all’azione unitaria: qualcuno grida e tutti gridano, qualcuno applaude e tutti applaudono, qualcuno fugge e tutti fuggono. “Quando gli individui entrano a far parte della folla – sostiene l’autrice del saggio – perdono la loro personalità e acquisiscono una personalità collettiva. La folla ha un suo volto, un suo carattere, suoi occhi per vedere e bocca per parlare, suoi istinti e sue emozioni, un suo rapporto specifico tra ragione e istinti, tra ragione e passioni. La folla è un individuo formato da tanti individui. Pensa, sente e agisce come un essere solo. Annulla ogni differenza che esiste al suo interno e rende tutti i suoi componenti identici gli uni agli altri. Il capo non fa che esprimere l’essenza della folla, la sua personalità specifica”.

Ma l’epoca attuale – sostiene infine la prof.ssa Nacci – sembra caratterizzata oltre che dalla folla (da cui, comunque, si può uscire se uno ne fa parte o scegliere di non farne parte mentre si sta formando), dalla “moltitudine” da cui è impossibile sfuggire, perché “è la modernità che l’ha creata, così come ha creato i meccanismi della sua eguaglianza, della sua omologazione della sua passività. Lo afferma Tocqueville quando parla dell’uguaglianza americana. Lo afferma Riesman quando parla non solo delle case tutte uguali nelle quali tutti guardano la televisione, ma del desiderio di adeguarsi alle aspettative altrui che caratterizza ognuno. La forza che crea la moltitudine striscia inavvertitamente nelle nostre case e nelle nostre vite e, come notava Rimbaud, ci rende simili mentre neppure ce ne accorgiamo”.

venerdì 10 gennaio 2020

Vivere senza cellulare



Mi trovo in un ufficio pubblico per sbrigare una pratica amministrativa. L’impiegata allo sportello, nel compilare un modulo, mi chiede – badate bene – non un numero di telefono, ma "il numero di un cellulare"; al che io rispondo di non possederne. Tutt’al più potrei darle il numero obsoleto del telefono di casa. A questa mia “strana” affermazione l’impiegata – che non mi aveva ancora degnato di uno sguardo – finalmente mi scruta stupefatta, come se vedesse un alieno. La cosa buffa è che alzano contemporaneamente la testa - di scatto - le quattro persone che si trovavano nella sala d’attesa, fino a quel momento chine sul proprio smartphone come in trance, anche loro curiose di guardare l’extraterrestre. Beato lei! - fa quello dietro di me - come se io fossi stato baciato dalla sorte e lui, poveraccio, una vittima predestinata, costretta con la forza e con le minacce a usare, vita natural durante, un telefonino.

Ma oggi è davvero impossibile vivere senza uno smartphone? La mia esperienza non fa testo, dal momento che – non avendo mai comprato questo oggetto del desiderio, non avendone mai sentito la necessità – non posso confrontare il prima con il dopo, il buio con la luce. E’ interessante, però, leggere le reazioni di chi – avendo avuto sempre con sé un telefonino – all’improvviso gli viene a mancare. Ho trovato in rete (https://www.sardiniapost.it/) la testimonianza dello scrittore cagliaritano Andrea Melis, il quale un bel giorno, vittima del furto del suo cellulare, si ritrova a vivere senza quella vitale, quotidiana, assillante protezione. E lui che fa? Anziché comprarne subito uno nuovo, come farebbe chiunque si venisse a trovare in una tale “scomoda” situazione, prova ad andare avanti lo stesso senza la sua protesi salvavita. Riporto, di seguito, queste sue considerazioni che fanno sorridere prima ancora che riflettere, ringraziando l'autore:
“Una volta elaborato il lutto, ho dovuto prendere atto di due mondi: quello chiuso dentro al cellulare, immenso, molto più grande di quanto la mia memoria potesse contenere, che era andato perso per sempre. Foto, social, banche, password da cambiare, utenze, rubrica, messaggi, chat, praticamente la scatola nera della mia vita, finita in mano a perfetti sconosciuti. Da impazzire solo a pensarci. E poi c’era il mondo di fuori. Quel poco che mi restava. Così ho pensato a sangue caldo. Come se fuori dallo smartphone, mi attendesse un mondo selvaggio e pericoloso. Come sarei sopravvissuto? C’era un solo modo per scoprirlo: provarlo. Così un po’ per gioco un po’ per risparmiare, ho resistito all’impulso di correre a comprare un nuovo cellulare e mi sono preso qualche giorno. Che poi sono diventate due settimane. E ho rifiutato, soprattutto, l’elemosina di tutti i vecchi cellulari che decine di amici impietositi mi hanno messo a disposizione per salvarmi la vita.
Ma quella senza cellulare non è una vita impossibile. E’ un mondo semplicemente diverso, e dimenticato. Ma con tanti lati piacevoli. La paura di sentirmi solo, ad esempio, ho scoperto che ha più il sapore di sentirmi libero. La paura di smarrirsi, devo ammettere, è diventata piuttosto la magica scoperta che ovunque tu sia nella vita, sei sempre al tuo posto. La paura di subire una isolamento mediatico, ha invece fatto crollare la maschera alla schiavitù dei condizionamenti a flusso continuo: da giorni mi sento al di là dell’argine, capace di circoscrivere e contenere tutto il resto del mondo dentro un alveo possibile: la giusta attenzione. Sono comandante, anziché comandato. Quando accendo la tv, per esempio, non so già cos’è successo per averlo appreso da tweet, post, lanci ansa, newsletter. Però non è comunque cambiato niente. A parte il morto del giorno, la sparata del politico e l’arresto per corruzione di turno, è tutto fermo, tutto uguale. Come lo riempivo minuto per minuto questo niente nei giorni scorsi? Pazzesco.
La vita senza cellulare è fatta di una ritrovata andatura umana, che restituisce paesaggi meno appiattiti e confusi. E ti fa riscoprire universi vicini che credevi si fossero trasferiti per sempre altrove, invece erano solo diventati sfuocati per colpa della tua fretta indotta. Sentimenti cari e antichi come: silenzio, pausa, concentrazione, procrastinazione, calcolo, meditazione, previsione, paura, e soprattutto distanza, e tutti i suoi meravigliosi opposti che avevamo annullato: ricongiunzione, agnizione, epifania verso te stesso e chi ami davvero.
Ecco dieci cose che ti succederanno con molta probabilità se vivrai senza cellulare.
Vita senza cellulare 1: al supermarket, la lista della spesa resterà la stessa che hai concordato su carta con tua moglie prima di uscire di casa. Le dimenticanze non sono sanabili. No integrazioni quando sei già in fila alla cassa via whatsapp o sms. Niente distrazioni o telefonate lunghissime che ti fanno girare per ore senza senso tra le corsie. Ho dimezzato i tempi impiegati per fare la spesa, pur raddoppiando il tempo dedicato alle conversazioni: con la cassiera, il salumiere, il pescivendolo.

Vita senza cellulare 2: le persone sono felici di rivederti quando torni. Hanno finalmente riassaporato la tua mancanza. Ogni giorno è come un piccolo viaggio alla fine del mondo.

Vita senza cellulare 3: dopo 20 anni ho usato un citofono per vedere se era in casa un amico al quale non avevo annunciato la mia venuta. Ero in zona. Ho provato. Era in casa. Mi ha visto dal videocitofono è trasalito, era felice, sono salito, abbiamo bevuto una birra, ci siamo dati un appuntamento vago per l’avvenire. E mi sono ricordato di quando il citofono non era video, era solo un citofono ma era sempre foriero di curiosità positive. Ora ti vengono i brividi quando lo senti: se va bene è il postino. Altrimenti sai già chi è o si tratta per certo di uno sconosciuto, il che significa che sono seccature. Il citofono è una campana funebre nelle case.
Gli amici quindi non citofonano. Whatsappano: sto arrivando, sono giù, sto salendo, sono fuori, apri. E quindi gli amici non ti fanno più visite a sorpresa. Che peccato.

Vita senza cellulare 4: è anche vita senza Google Maps. Il piacere di smarrirsi. Mi ha fatto ricordare una frase di Dardell: “non c’è modo di contraddire una mappa. Continua a dirti dove sei, e se tu non sei li allora sei perso”. Una sera ho preso un appuntamento in un luogo della città che non conoscevo bene, al quale sono andato con un bigliettino di carta con scritto l’indirizzo e sotto braccio lo stradario del “tutto città”. Il tutto città comunque non l’ho usato, onestamente. Era troppo retrò anche per me. Ho preferito chiedere indicazioni ai passanti. Cosa che non facevo mai. Sono arrivato puntualissimo e senza complicazioni. Ma non solo. Ho scoperto che Dardell si sbagliava: se non sai dove sei non è vero che sei perso. Sei semplicemente ancora in viaggio.  

Vita senza cellulare 5: Quello che vale per il citofono vale per il telefono fisso. Serve solo per l’adsl. Chiamano solo i call center e i venditori di vini e mobili. Eppure che sapore antico ha avuto la frase che ho rivolto a casa di un amico: scusa mi faresti fare una telefonata? Credo di non averla pronunciata da oltre dieci anni. Da quando pur avendo il cellulare ero un pischello spiantato che finiva il credito sulla sim. Al massimo negli ultimi dieci anni ho chiesto se qualcuno aveva un carica batterie per Blackberry. E quando mi ha risposto “certo” porgendomi il cellulare l’emozione di rispondere: non dal cellulare, perché non hai il telefono?  Si. Allora grazie chiamo dal fisso. Faccio uno squillo a casa a mia moglie e l’avviso che sono arrivato. Una telefonata tra telefoni fissi. Da qualche parte, nella rete telefonica, una vecchia borchia deve aver pianto di commozione.

Vita senza cellulare 6: è anche inaspettatamente confrontarti con la memoria e le persone davvero importanti. Senza rubrica sincronizzata con facebook che a sua volta si sincronizza con google che si sinconizza con icloud, sei solo con la tua memoria. E non credo sia più ampia di 2 o 3 bit. Non so voi, ma io infatti conosco a memoria: il cellulare di mia moglie, il numero fisso di casa di mia madre, quello dei miei nonni, e il cellulare di un solo mio amico. Il più caro. Di molti amici di lunga data non so il cellulare ma ricordo perfettamente il numero di telefono di casa dei loro genitori. Quello dove li chiamavo da bambino per invitarli a giocare. Segno che la memoria si è congelata irrimediabilmente ai tempi pre- cellulare. Altra cosa: le foto. Ho pensato migliaia di volte che avrei voluto fotografare su facebook cose curiose. Migliaia di volte in appena due settimane. Ringraziatemi per questo. Ve lo siete risparmiato. E anche io. Di sicuro foto che non avrei mai più riguardato. Secondo me ci si annoia anche il ladro, con le mie foto. Anche perché a pensarci col senno di poi, superato l’impulso del momento, o erano cose trascurabili e banali, oppure è tutto curioso e imperdibile nella vita. Dipende solo dagli occhi che guardano. In questo secondo caso meglio godersela che fotografarla. Che mentre posti la fotografia ti stai perdendo tutto il resto.

Vita senza cellulare 7: dallo studio del mio medico di famiglia si vede un bel giardino. C’è perfino una fontana con intorno delle panchette di granito bianco. Ho passato tutti i tre quarti d’ora d’attesa a guardare dalla finestra. Intorno a me altre sette persone chine sul cellulare. Tutte. Non si sono mai staccate dal monitor. Non si sono mai rivolte la parola. Tranne per chiedere chi fosse l’ultimo all’arrivo e sbuffare quando qualcuno restava dentro per oltre tre livelli di ruzzle o candy crash.
Il resto era ticchettare di dita su tasti. Tranne una vecchietta che si guardava intorno smarrita quanto me. Solo che per me lo smarrimento finirà e presto sarò di nuovo tra quelli chini sul cellulare e il bel giardino fuori dalla finestra e i volti delle persone torneranno un ricordo. La vecchia continuerà a non parlare con nessuno.

Vita senza cellulare 8: i ritardi. Senza cellulare sono diventato puntuale. Io ero tipo ritardatario cronico impenitente. Quello che mandava il messaggio di avviso del ritardo molto dopo che sarebbe dovuto essere a destinazione. Quello che ad arrivare in anticipo manco a parlarne. Tanto non c’è mai nessuno ad apprezzarlo. Ora so che ritardare vuol dire lasciare nell’apprensione qualcuno e quindi mi sto muovendo in maniera svizzera. Sono arrivato a dire a mia moglie torno alle 11 di sera, e nonostante fossi con amici dall’altra parte del mondo, immerso nel gorgo della convivialità, il piacere della cena, la voglia di restare, che in altri tempi avrei risolto con un sms, alle 23 e 02 ero a casa. Ed è stato bello tornare, e mantenere la parola data.  Una sottile soddisfazione di ordine nel regno caotco di una vita. Quindi ritardi strategici annullati. Ho fatto un solo ritardo clamoroso di circa 2 ore. Ed era un vero imprevisto imprevedibile. Inutile cercare cabine telefoniche, bar con telefono. Hanno rimosso tutto. Non c’è più nulla. Solo la speranza che chi era in apprensione per te tenesse duro, e il sapere che comunque stavo bene, e il mio rientro a casa non avrebbe generato cazzietoni ma gioia, gioia pura. Perché non avere cellulare la giustificazione più potente che abbia mai avuto agli occhi del prossimo. Un handicap su cui nessuno osa infierire. Sei tornato, sei vivo, non conta nient’altro per chi ti ama.

Vita senza cellulare 9: Pensare. A mia volta penso tantissimo a chi amo. Ne sento la mancanza. Desidero il momento del rientro a casa. Cerco di memorizzare le cose da dire.
Prima il pensiero era sostituito all’azione. Compulsiva, continua. Ora penso mentre guido. Guarda gli altri ai semafori e ho scoperto che le dita nel naso hanno ceduto il passo alle dita sullo smartphone. Che le sigarette elettroniche hanno invaso molti abitacoli e c’è un sacco di gente che ciuccia tubicini di ferro e plastica al semaforo o alla guida. Me compreso. Che i mendicanti sono aumentati in maniera esponenziale.
Penso in continuazione alle cose da non dimenticare e a quelle da fare.
Prima mi mandavo mail, impostavo promemoria, prendevo appunti vocali, scrivevo remember.
Ora penso intensamente e ricordo solo quello che serve davvero.

Vita senza cellulare 10: è una miscellanea di percezioni temporali. Perché le cose da dire sarebbero troppe e non tutte importanti.
Il cellulare è tante cose. Sveglia, orologio (io non portavo mai orologi) e così mi è capitato di svegliarmi tardissimo per essermi dimenticato che il cellulare-sveglia non c’è più. O di perdere la cognizione del tempo camminando per strada perché tutti gli orologi pubblici sono ormai fermi e abbandonati. Nessuno – o quasi – li guarda più.
Vado a letto prima, leggo di più, mi concentro meglio.
Ma soprattutto ho scoperto che il ladro non mi ha sottratto più di quanto mi abbia restituito.
Mi ha vaccinato a sua insaputa alla grande paura di perdere. Che secondo me ha molto a che vedere con la morte.
Il distacco.
Ecco perché il cellulare ci ha tanto conquistato fino a renderci succubi. Illude di essere sempre vicini, sempre presenti, che tutto sia un qui e ora. Che le distanze non esistano. Che il futuro sia a portata di un aggiorna, aggiorna, aggiorna, aggiorna, vedi notifiche, post, news, refresh.
La verità è che tutto questo è necessario ma non indispensabile.
Tanto le buone notizie sono sempre gradite, in qualunque momento arrivino, fresche o no. E per quelle brutte invece, non vedo la fretta. Il ladro non lo sa, ma ha cambiato per sempre il mio rapporto con il cellulare. Forse non lo userò più come prima.
E di sicuro prima del cellulare mi comprerò intanto un orologio”.

martedì 7 gennaio 2020

Un uomo "affamato di grandezza"




“Volevo essere veramente grande, epico, smisurato; volevo compiere qualcosa di gigantesco, d’inaudito, che cambiasse la faccia della terra e il cuore degli uomini”

Tantissimi sono gli scrittori della nostra letteratura che si sono cimentati con il romanzo autobiografico. Generalmente tali memoriali si redigono alla fine del proprio percorso umano e professionale, proprio al fine di redigere una sorta di resoconto di un’intera esistenza. Giovanni Papini, invece – controverso e inquieto scrittore, ma anche intellettuale molto apprezzato per il suo stile erudito - quando pubblicò il suo libro autobiografico “Un uomo finito” (era il 1913) aveva da poco superato i trent’anni e ne avrebbe vissuti altri 43. Io credo che scrivere le proprie memorie sia una scelta ispirata da un inconscio desiderio narcisistico: voler mettere sé stessi al centro della scena e quindi della narrazione. E Giovanni Papini, per soddisfare questo suo impellente desiderio autocelebrativo, non poteva aspettare gli ultimi anni della sua vita: gli bastavano i primi trenta già vissuti in maniera esaltata. C’è da dire, però, che se l’autore non possiede vocazione letteraria, il rischio che il racconto possa risultare noioso agli occhi del lettore è davvero molto alto. Devo confessare che questo rischio non si corre affatto con lo scrittore fiorentino Giovanni Papini, perché la sua narrazione, seppure enfatica e sfacciata, iperbolica e ambiziosa, finisce per lasciare un segno e conquistare chi legge, soprattutto grazie alla sua prosa roboante, colta e raffinata, così inusuale e così lontana dai tempi mediocri in cui viviamo.

“Io mi presento ai vostri occhi con tutti i miei dolori, le mie speranze e le mie fiacchezze. Non chiedo pietà né indulgenza, né lodi né consolazioni, ma soltanto tre o quattr’ore della vostra vita. E se dopo avermi ascoltato crederete lo stesso, a dispetto dei miei propositi, ch’io sia davvero un uomo finito dovrete almen confessare ch’io son finito perché volli incominciar troppe cose e che non son più nulla perché volli esser tutto”. Sono queste le ultime parole - che spiegano anche il titolo alquanto fuorviante del libro – con cui Papini si commiata dai lettori. E devo dire che le “quattr’ore della mia vita” di questo nuovo anno, che lui chiedeva per poter leggere le 327 pagine di “Un uomo finito” (Vallecchi editore) non sono state affatto sprecate. Ma chi era Giovanni Papini? Ce lo racconta lui stesso in questo libro encomiastico: un uomo afflitto da “smania di sapere”, il quale non ebbe piacere più grande né consolazione più sicura del leggere; un uomo nato con la malattia della grandezza i cui vizi erano la carta bianca e la carta stampata. Tutto quello che c’era di poetico, di malinconico e di solitario in lui l’aveva ereditato – così scrive - dalla campagna toscana. Pochi riuscivano a resistergli: il parlare animoso, la facilità di improvvisazione, la pratica della scherma dialettica, la sfacciataggine della sua immensa erudizione gli davano il sopravvento e la forza di sentirsi il migliore, il più grande. Simile a un dio. Scrive nel suo libro che era nauseato dal banale, dall’ordinario, dal buon senso comune e per odio dell’esistente e degli uomini si abbandonava al sogno e alla solitudine della campagna, cercando non l’amicizia dei suoi simili ma quella delle piante. Così facendo si creava un mondo fantastico dove si ritirava e dov’era “padrone e re senza legge”. Non accettava la realtà in cui viveva perché ne voleva un’altra “più pura, più perfetta, più angelica, più divina”. Rinnegava il passato salvando solo “gli spiriti magni, i fratelli sepolti eppur vivi e presenti” che lo avrebbero consolato negli anni della solitudine. Li amava quei  maestri “quei cadaveri celebri, sepolti sotto i marmi ed i secoli” perché lo invitavano all’odio e lo aiutavano a fuggire e si sentiva bene soltanto con loro: Dante, Shakespeare, Baudelaire, Leopardi, Whitman, Carducci, Goethe, Cervantes, Dostojevski, Stendhal, Platone, Nietzsche…furono i suoi “compagni delle veglie rinchiuse”, che in maniera diversa lo facevano crescere e lo arricchivano. Soltanto fra quei pensieri sentiva il mondo degno di sé. E tanto forte era l’amore per i grandi morti quanto il disprezzo per i “piccoli vivi”. Riteneva che nessun uomo – tolti i tre o quattro compagni di avventure – fosse un suo pari. Nessuno gli sembrava degno di giudicarlo e neanche di stargli accanto.

In poco tempo Papini si fece “una fama di terribile e di strafottente”. Molti lo odiavano (che poi era quello che desiderava) perché aveva “sempre sentito più bisogno di nemici che d’amici”; voleva che il suo passaggio sulla terra lasciasse “una traccia più profonda di una rivoluzione o d’un cataclisma”. Scrive nel suo libro che la vita degli uomini, lenta e volgare, lo nauseava sempre di più. Voleva che anche gli altri sentissero questa nausea e trovassero la forza per uscirne. E lui si considerava il “gran predestinato” , colui che avrebbe dovuto accompagnarli verso la salvezza. “Per agire sugli uomini bisogna conoscerli – scrive nel libro - per cambiare le loro anime bisogna esserci saputi entrare, averle penetrate colla simpatia e coll’amore…Chiunque voglia trovare le vie del loro cuore e scoprire la molla de’ loro atti deve aver conosciuto i loro pensieri più segreti, i loro bisogni più gravi, le loro scelte più nascoste”. Papini diceva che tutti sono buoni ad amare gli uomini chiusi nella propria casa. Ma quell’amore diventa disprezzo quando si esce fuori e si ha che fare con loro. Si era convertito dall’anticlericalismo al cattolicesimo leggendo i vangeli “per cercarvi Cristo” ed era rientrato nelle chiese non soltanto per ammirarne l’architettura e la bellezza ma “per ritrovarvi Iddio”.

Ma chi era veramente Giovanni Papini? Un genio…un folle … un polemista…un poeta e scrittore maledetto?  Certamente è un autore “immeritatamente dimenticato” come lo definì Luis Borges. Vi lascio ancora alle sue parole: “Io sono, per dir tutto in due parole, un poeta e un distruttore, un fantastico e uno scettico, un lirico e un cinico. Come queste due anime possano stare insieme e ritrovarsi bene, sarebbe troppo lungo a descrivere. Ma veramente è questo il fondo dell’anima mia (…) Soltanto gli imbecilli confitti a vita nell’imbecillità possono dichiararsi soddisfatti del mondo. Chi tenta di smuoverlo, di animarlo, d’incendiarlo, di rinnovarlo ed accrescerlo ha diritto – non alla riconoscenza di cui fo a meno ora e sempre, ma alla libertà di parlare e di esistere. Ogni uomo ha bisogno, per vivere, di non credersi totalmente inutile. Io non chiedo e non voglio altro appoggio – ma di questa miserabile certezza ho bisogno anch’io, alla pari dei deboli. Io vivo ed agisco ben sapendo che tutta la mia vita e la mia azione sprofonderà nel nulla ma voglio che gli altri sentano che ho il diritto di star fra loro e di offenderli perché faccio qualcosa che a loro stessi può giovare. In un mondo dove tutti pensano soltanto a mangiare e a far quattrini, a divertirsi e a comandare, è necessario che vi sia ogni tanto uno che rinfreschi la visione delle cose, che faccia sentire lo straordinario nelle cose ordinarie, il mistero nella banalità, la bellezza nella spazzatura…io sono uno di questi uomini che accettano il più ingrato dovere e la parte più pericolosa. E per il bene e per il male che faccio ho diritto di respirare, di riscaldarmi, di camminare, di alzar la testa, d’essere libero, di esistere secondo la mia legge”.