Il romanzo verista nacque e si
sviluppò in Italia nella seconda metà dell’Ottocento, sull’esempio del
naturalismo francese. Può essere letto come una sorta di strumento di analisi
sociale che si ispira al mondo reale e che racconta, innanzitutto, vicende
legate alle difficili condizioni di vita delle classi più umili del Mezzogiorno
d’Italia. Gli scrittori siciliani Luigi Capuana, Giovanni Verga e Federico de
Roberto sono considerati i maggiori interpreti del verismo italiano. In
particolare il Capuana, utilizzando una sottile e profonda analisi
introspettiva dei suoi personaggi, scruta le inquietudini, le ossessioni e le
paure da cui gli stessi sono tormentati e racconta storie realmente accadute o
comunque legate in qualche maniera a luoghi e realtà del territorio siciliano.
“Il
marchese di Roccaverdina”, pubblicato nel 1901, è da tutti considerato
il suo autentico e indiscusso capolavoro letterario. Un libro che (ahimè!) non
avevo letto e di cui portavo solo lontani ricordi scolastici legati, appunto,
allo studio del verismo italiano. Credo che il testo sia fuori produzione e,
pertanto, non me lo sono lasciato sfuggire quando l’ho intravisto (un po’
ingiallito) sui banchetti di un mercatino dell’usato, nella prima edizione
edita da Garzanti nel 1970. E devo dire che - a lettura ultimata - il mio
giudizio sull’opera resta decisamente positivo. Lo consiglio, pertanto, agli
amanti della buona letteratura, anche se non è mia abitudine dare suggerimenti
per gli acquisti. Sempre che riusciate a trovarlo, naturalmente!
Il protagonista del romanzo è
un aristocratico proprietario terriero che vive in solitudine, arroccato nel suo
vecchio palazzo sulle pendici di un paesino nella Sicilia di fine Ottocento. Viene
accudito come un figlio, da più di quarant’anni, da una vecchia nutrice che lui
chiama affettuosamente mamma Grazia. Gli fa spesso visita il suo avvocato, Don
Aquilante, “che pretendeva di vedere gli spiriti
e di parlare con loro”, a cui affida tutte le sue liti e tutti i suoi
affari. E poi di tanto in tanto viene a trovarlo il cavalier Pergola, suo
cugino, “il baldo bestemmiatore, il
feroce odiatore d’ogni religione e dei preti” che gli prestava qualcuno dei
suoi libri proibiti che lui legge “per
fortificarsi, quando i suoi convincimenti vacillavano”; e poi non mancano le visite dello zio don Tindaro,
fiero della sua collezione di vasi antichi e di statuette e di Don Silvio, il
prete del paese, custode di un terribile segreto. Il marchese ama comandare ed
essere ubbidito, ed ama in maniera quasi viscerale le sue terre ma non i contadini che le lavorano, da lui
trattati come schiavi. Ha in mente grandi progetti agrari che vuole attuare
sfruttando i suoi possedimenti terrieri.
I guai esistenziali ed i tormenti
interiori di questo signorotto iniziano il giorno in cui decide - con un vero e
proprio atto di forza che scaturisce dal suo potere - di far sposare la bella e
fedele donna di servizio (Agrippina Solmo) -
sua amante da oltre dieci anni - al devoto fattore (Rocco Criscione), il
quale si impegna sotto giuramento a trattarla come una sorella e quindi ad essere
suo marito soltanto di nome e non di fatto. Antonio Schiradi, marchese di
Roccaverdina, con questo espediente – pur continuando ad avere a sua
disposizione la giovane amante - intendeva salvare le apparenze e porre fine ai
mugugni dei suoi familiari, i quali temevano che potesse sposarla infrangendo
così quella regola sociale secondo cui un uomo del suo rango non doveva né poteva
sposare una donna di umili condizioni. Ma il sospetto che i due non mantengano
i patti comincia ad infiltrarsi nell’animo del marchese ed a corrodere inesorabilmente
la sua mente. Egli, pensando all’infame tradimento che quei due ingrati e
spergiuri gli avevano fatto o stavano per fargli, all’improvviso si sente
sfuggire di mano la situazione e un pensiero fisso inizia a ribollire nel suo
cervello offuscandogli la ragione. E quando crede, in base alle sue vere o
false supposizioni, di non poter più dubitare, quando si accorge che la gelosia
non gli dà più tregua e sembra ormai divorarlo, uccide a tradimento il suo
fattore. Il delitto e la successiva condanna di un uomo innocente (che morirà
in carcere) finiscono per generare nel marchese profonde inquietudini e
laceranti rimorsi che cominciano a perseguitarlo in ogni momento della sua giornata.
La sua volontà, la sua fierezza di uomo potente sembrano affievolirsi, logorate
da quell’intima voce che minaccia di elevarsi tanto più forte, quanto più egli
cerca di soffocarla, tant’è che “egli
provava la strana sensazione di camminare su un terreno poco solido, che
avrebbe potuto da un momento all’altro sprofondarglisi sotto i piedi. (…)
Quando s’immaginava di aver domato o vinto quel tormentoso nemico interiore, lo
vedeva insorgere, tornare all’assalto più vigoroso e più insistente di prima.
Ogni tregua riusciva illusoria; ogni mezzo messo in opera, un palliativo che lo
calmava per qualche tempo ma non guariva radicalmente”. Per dimenticare, decide
di iniziare una nuova vita sposando la donna che era stata la sua passione
giovanile con l’intendimento di mescolarsi con gli altri e di non stare più da
solo, come aveva fatto fino a quel momento. Inoltre, vincendo la sua ripugnanza
per la politica, decide anche di partecipare come candidato all’elezione del
Sindaco del paese. Ma tutto sembra vano.
Ci sono aspetti autobiografici
in questa vicenda, anche se nella realtà non si è verificato alcun delitto.
Infatti il Capuana – come si legge su Wikipedia – “ebbe una relazione amorosa con una ragazza analfabeta, Giuseppina
Sansone, che era stata assunta come domestica dalla sua famiglia. Da
questa relazione nacquero parecchi figli, che finirono però tutti all'ospizio
dei trovatelli di Caltagirone. Non era infatti pensabile a quell'epoca che un
rispettabile borghese riconoscesse come suoi i figli nati dalla relazione con
una donna di bassa estrazione sociale. La
“Beppa di Don Lisi” rimase con lui fino al 1892, quando, proprio per volontà
dello scrittore, sposò un altro uomo”.
Usando un linguaggio il più
possibile aderente al mondo rappresentato e con uno stile asciutto, trascinante
e del tutto impersonale, Luigi Capuana ci offre un grande libro, un affresco
crudo e realistico della società e del sottosviluppo economico e culturale
della Sicilia di fine Ottocento. Ma soprattutto lo scrittore siciliano, nel
descrivere lo scavo psicologico del protagonista, con notevole abilità
narrativa, riesce a coinvolgere emotivamente il lettore nel dramma umano ed
esistenziale del suo personaggio.