domenica 26 giugno 2016

Le virtù della classe dirigente


Proprio oggi “Il Fatto Quotidiano” ha chiesto ad alcuni opinionisti cosa pensassero dei 5 Stelle e cosa servisse loro per poter amministrare bene il Paese. Tra i tanti interpellati, mi piace qui riportare quello che ha detto il sociologo Domenico De Masi il quale, dall’alto della sua straordinaria lungimiranza – tra il serio e il faceto - fa riflettere amaramente sulle peculiarità della classe dirigente italiana.

“Diciamolo subito: - dice De Masi - i 5 Stelle non sono pronti a governare. Per essere classe dirigente prima di tutto ci vuole la faccia giusta: quella rapace di La Russa, quella greve di Salvini, quella stitica di Monti, quella paracula di Mastella. A paragone, quelle di Appendino o della Raggi sembrano facce di cresimande. E, comunque, la faccia non basta. Per essere classe dirigente ci vuole anche la parola alata di Vendola, quella sibillina di Moro, quella cafona di De Luca. E, dietro le parole, ci vogliono le idee: quelle sgangherate di Alfano, quelle perfide di Ichino, quelle variopinte di Gasparri. Insomma, per diventare classe dirigente occorre l’ingenuo candore di Andreotti e l’adolescenziale stupore di Scajola, la santità di Previti e la trasparenza di Gianni Letta, il giovanile coraggio di Napolitano, la pluridecennale esperienza governativa della Boschi e la specchiata onestà di Ciancimino. I 5 Stelle non hanno nessuna di queste virtù. Con quale faccia tosta possono pretendere il governo di un Paese come l’Italia?”

Domenico De Masi (Il Fatto Quotidiano)

martedì 21 giugno 2016

Quando la musica e l’immaginazione si sostituiscono alla vita



Ambientato in un orfanotrofio della Venezia di inizio ‘700 (attualmente conosciuto con il nome di Santa Maria della Pietà), dove venivano ospitate le ragazze senza famiglia, il libro “Stabat mater” (Einaudi Editore) dello scrittore veneziano Tiziano Scarpa – che si è aggiudicato il Premio Strega nel 2009 – racconta la commovente e intensa vicenda umana ed esistenziale di una di queste povere ragazze. Lei si chiama Cecilia ed ha 16 anni. Di giorno suona magistralmente il violino e tutte le notti, non riuscendo a dormire, si alza e di nascosto - dopo aver raggiunto un posto segreto dell’antico palazzo - scrive lunghe e strazianti lettere alla madre che non ha mai conosciuto. Le manifesta così le sue passioni, le sue paure, i suoi tormenti più intimi, le sue speranze. E la madre diventa la sua segreta confidente. La sua unica e più affidabile amica.

E’ un libro da cui traspare solitudine mista a poesia. Se è vero che l’arte poetica spesso nasce dalla sofferenza del suo autore, devo dire che la protagonista di “Stabat mater” riesce a sublimare il suo dolore in un autentico canto poetico in onore di quella madre che può solo immaginare. “Signora madre”, scrive la protagonista in una delle sue tante lettere “vi scrivo in continuazione per farvi sentire quanto non esistete… Io non so nulla di voi. Non so perché mi avete abbandonata qui, sedici anni fa. Forse siete morta mentre nascevo, siete morta di parto e qualcuno mi ha portata qui, invece di lasciarmi morire accanto a voi...” . Cecilia trascorre tutte le notti in quel modo, fin da quando era piccolissima. La sua insonnia è diventata una parte vitale di se stessa, tant’è che non potrebbe continuare a vivere senza quell’appuntamento notturno con i suoi fantasmi.

E’ un mondo chiuso, immobile, apparentemente senza speranza quello che svela il romanzo di Tiziano Scarpa, un mondo scandito dalle abitudini dell’orfanotrofio che servono a lusingare gli animi che non hanno altre gioie cui aggrapparsi. Un mondo fatto di privazioni, dove prevalgono ed assumono importanza le parole scritte e la musica, piuttosto che i fatti concreti dell’esistenza. Ma la musica, di cui si nutrono le ragazze dietro le sbarre senza poter mostrare a nessuno il proprio volto, a volte appare sterile e ripetitiva, priva di qualsiasi visione migliorativa. E poi c’è la misteriosa bellezza di queste adolescenti sulla soglia della maturità - resa ancora più impenetrabile dalla tormentata clausura - che si può solo immaginare. “Spargiamo bellezza nell’aria – dice Cecilia - e la menzogna della musica maschera la nostra afflizione”. Quindi la musica, da espressione artistica e creativa che libera gli animi, diventa una sorta di maschera ingannevole buona solo a coprire ulteriormente i loro corpi, che già non si possono guardare e non esistono per gli altri. Così come non esiste nella realtà quella madre a cui la protagonista si rivolge tutte le sere attraverso le sue lettere, quasi per ottenere da lei un conforto, un aiuto, una carezza. Il mondo reale si contrappone a quello dell’immaginazione in cui sembrano sommerse le giovani donne; “per avere sentore concreto del mio corpo” - scrive ancora Cecilia - “sono ridotta a immaginare che gli altri mi immaginano. Riesco a prendere possesso di me soltanto se penso che qualcun altro mi pensa”. E allora arriva addirittura a fantasticare e a desiderare un giovane buono e ricco che venga a prenderla, a liberarla da quella schiavitù. Ma ci si può innamorare di un volto che nasce dall’immaginazione, reso bello ed attraente solo dalla musica che sa esprimere? Ci si può infatuare di un fantasma? Per Cecilia, un filo di speranza sembra entrare nell’orfanotrofio il giorno in cui arriva un nuovo maestro di violino: è il grande Antonio Vivaldi, detto il “prete rosso” per il colore dei capelli. La musica, allora, può finalmente assumere un significato più alto, può innalzare ancora di più lo spirito delle allieve. Ma la musica, per quanto possa essere sublime, non può comunque sostituirsi alla vita.

domenica 12 giugno 2016

Quando non esisteva il cellulare...



Quando non esisteva il cellulare, c’era ancora la privacy, e se avevi la necessità di fare urgentemente una telefonata fuori casa, le solide porte a fisarmonica di una cabina telefonica ti proteggevano da occhi e orecchie indiscrete;
quando non esisteva il cellulare, un momento per staccare dal lavoro si trovava sempre, a pranzo si poteva finalmente chiacchierare con chi ti stava seduto accanto, nessuno ti poteva disturbare al mare o il giorno del matrimonio di tuo figlio;

quando non esisteva il cellulare, era ancora possibile ascoltare quel rigenerante e rispettoso silenzio di fondo nei ristoranti, nei bar, sui treni, sugli autobus, negli ascensori, ai funerali, nelle sale di attesa;

quando non esisteva il cellulare, nessuno ti poteva controllare, pedinare, spiare, seguire passo dopo passo;

quando non esisteva il cellulare, si poteva leggere in santa pace nello scompartimento di un treno, tanto la signora che ti sedeva di fronte si addormentava subito a bocca aperta;
quando non esisteva il cellulare, guardavi sempre con commiserazione quel povero matto che per strada gesticolava e parlava da solo ad alta voce;

quando non esisteva il cellulare, era facile incontrare sui mezzi pubblici qualcuno che leggeva un libro, sfogliava un giornale o chiacchierava col vicino;
quando non esisteva il cellulare, la gente era meno ansiosa perché non doveva fare uno squillo ad ogni passo;

quando non esisteva il cellulare, nessuno ancora era affetto dalla sindrome da macchina fotografica;
quando non esisteva il cellulare, nessuno ancora immaginava che un giorno un piccolo strumento potesse diventare la peggiore tra le schiavitù;

quando non esisteva il cellulare, l’idiota non era facilmente riconoscibile perché non parlava;
quando non esisteva il cellulare…

mercoledì 8 giugno 2016

Passione e delitto in una Sicilia crudele



Il romanzo verista nacque e si sviluppò in Italia nella seconda metà dell’Ottocento, sull’esempio del naturalismo francese. Può essere letto come una sorta di strumento di analisi sociale che si ispira al mondo reale e che racconta, innanzitutto, vicende legate alle difficili condizioni di vita delle classi più umili del Mezzogiorno d’Italia. Gli scrittori siciliani Luigi Capuana, Giovanni Verga e Federico de Roberto sono considerati i maggiori interpreti del verismo italiano. In particolare il Capuana, utilizzando una sottile e profonda analisi introspettiva dei suoi personaggi, scruta le inquietudini, le ossessioni e le paure da cui gli stessi sono tormentati e racconta storie realmente accadute o comunque legate in qualche maniera a luoghi e realtà del territorio siciliano.
“Il marchese di Roccaverdina”, pubblicato nel 1901, è da tutti considerato il suo autentico e indiscusso capolavoro letterario. Un libro che (ahimè!) non avevo letto e di cui portavo solo lontani ricordi scolastici legati, appunto, allo studio del verismo italiano. Credo che il testo sia fuori produzione e, pertanto, non me lo sono lasciato sfuggire quando l’ho intravisto (un po’ ingiallito) sui banchetti di un mercatino dell’usato, nella prima edizione edita da Garzanti nel 1970. E devo dire che - a lettura ultimata - il mio giudizio sull’opera resta decisamente positivo. Lo consiglio, pertanto, agli amanti della buona letteratura, anche se non è mia abitudine dare suggerimenti per gli acquisti. Sempre che riusciate a trovarlo, naturalmente!

Il protagonista del romanzo è un aristocratico proprietario terriero che vive in solitudine, arroccato nel suo vecchio palazzo sulle pendici di un paesino nella Sicilia di fine Ottocento. Viene accudito come un figlio, da più di quarant’anni, da una vecchia nutrice che lui chiama affettuosamente mamma Grazia. Gli fa spesso visita il suo avvocato, Don Aquilante, “che pretendeva di vedere gli spiriti e di parlare con loro”, a cui affida tutte le sue liti e tutti i suoi affari. E poi di tanto in tanto viene a trovarlo il cavalier Pergola, suo cugino, “il baldo bestemmiatore, il feroce odiatore d’ogni religione e dei preti” che gli prestava qualcuno dei suoi libri proibiti che lui legge “per fortificarsi, quando i suoi convincimenti vacillavano”; e poi  non mancano le visite dello zio don Tindaro, fiero della sua collezione di vasi antichi e di statuette e di Don Silvio, il prete del paese, custode di un terribile segreto. Il marchese ama comandare ed essere ubbidito, ed ama in maniera quasi viscerale le sue terre  ma non i contadini che le lavorano, da lui trattati come schiavi. Ha in mente grandi progetti agrari che vuole attuare sfruttando i suoi possedimenti terrieri.
I guai esistenziali ed i tormenti interiori di questo signorotto iniziano il giorno in cui decide - con un vero e proprio atto di forza che scaturisce dal suo potere - di far sposare la bella e fedele donna di servizio (Agrippina Solmo) -  sua amante da oltre dieci anni - al devoto fattore (Rocco Criscione), il quale si impegna sotto giuramento a trattarla come una sorella e quindi ad essere suo marito soltanto di nome e non di fatto. Antonio Schiradi, marchese di Roccaverdina, con questo espediente – pur continuando ad avere a sua disposizione la giovane amante - intendeva salvare le apparenze e porre fine ai mugugni dei suoi familiari, i quali temevano che potesse sposarla infrangendo così quella regola sociale secondo cui un uomo del suo rango non doveva né poteva sposare una donna di umili condizioni. Ma il sospetto che i due non mantengano i patti comincia ad infiltrarsi nell’animo del marchese ed a corrodere inesorabilmente la sua mente. Egli, pensando all’infame tradimento che quei due ingrati e spergiuri gli avevano fatto o stavano per fargli, all’improvviso si sente sfuggire di mano la situazione e un pensiero fisso inizia a ribollire nel suo cervello offuscandogli la ragione. E quando crede, in base alle sue vere o false supposizioni, di non poter più dubitare, quando si accorge che la gelosia non gli dà più tregua e sembra ormai divorarlo, uccide a tradimento il suo fattore. Il delitto e la successiva condanna di un uomo innocente (che morirà in carcere) finiscono per generare nel marchese profonde inquietudini e laceranti rimorsi che cominciano a perseguitarlo in ogni momento della sua giornata. La sua volontà, la sua fierezza di uomo potente sembrano affievolirsi, logorate da quell’intima voce che minaccia di elevarsi tanto più forte, quanto più egli cerca di soffocarla, tant’è che “egli provava la strana sensazione di camminare su un terreno poco solido, che avrebbe potuto da un momento all’altro sprofondarglisi sotto i piedi. (…) Quando s’immaginava di aver domato o vinto quel tormentoso nemico interiore, lo vedeva insorgere, tornare all’assalto più vigoroso e più insistente di prima. Ogni tregua riusciva illusoria; ogni mezzo messo in opera, un palliativo che lo calmava per qualche tempo ma non guariva radicalmente”. Per dimenticare, decide di iniziare una nuova vita sposando la donna che era stata la sua passione giovanile con l’intendimento di mescolarsi con gli altri e di non stare più da solo, come aveva fatto fino a quel momento. Inoltre, vincendo la sua ripugnanza per la politica, decide anche di partecipare come candidato all’elezione del Sindaco del paese. Ma tutto sembra vano.
Ci sono aspetti autobiografici in questa vicenda, anche se nella realtà non si è verificato alcun delitto. Infatti il Capuana – come si legge su Wikipedia – “ebbe una relazione amorosa con una ragazza analfabeta, Giuseppina Sansone, che era stata assunta come domestica dalla sua famiglia. Da questa relazione nacquero parecchi figli, che finirono però tutti all'ospizio dei trovatelli di Caltagirone. Non era infatti pensabile a quell'epoca che un rispettabile borghese riconoscesse come suoi i figli nati dalla relazione con una donna di bassa estrazione sociale. La “Beppa di Don Lisi” rimase con lui fino al 1892, quando, proprio per volontà dello scrittore, sposò un altro uomo”.
Usando un linguaggio il più possibile aderente al mondo rappresentato e con uno stile asciutto, trascinante e del tutto impersonale, Luigi Capuana ci offre un grande libro, un affresco crudo e realistico della società e del sottosviluppo economico e culturale della Sicilia di fine Ottocento. Ma soprattutto lo scrittore siciliano, nel descrivere lo scavo psicologico del protagonista, con notevole abilità narrativa, riesce a coinvolgere emotivamente il lettore nel dramma umano ed esistenziale del suo personaggio.