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mercoledì 25 novembre 2020

Passeggiare per una Roma insolita e segreta

 


Passeggiare lentamente per le strade del centro storico di Roma, da soli o in compagnia, è un modo gradevole di godere il proprio tempo. Il passeggiare riunisce, almeno per me, due piaceri: quello di pensare e quello di guardare, occupazioni che oggi non sembrano riscuotere grande interesse. Roma, pur essendo una città piuttosto rumorosa e caotica – come tutte le metropoli – custodisce posti abbastanza tranquilli dove ritrovare silenzio e solitudine. Vivo nella città eterna da oltre quarant’anni, eppure devo dire che non ho ancora finito di scoprire tutti i suoi innumerevoli angoli, quelli più nascosti e suggestivi, le sue bellezze artistiche, la magnificenza dei suoi antichi palazzi. Roma, da questo punto di vista, è fonte inesauribile di esplorazioni, di incontri inattesi e di scoperte improvvise. Forse come nessun’altra città al mondo.

Facevo queste considerazioni l’altro giorno, mentre parcheggiavo la mia macchina nel piazzale Numa Pompilio, antistante le Terme di Caracalla. Avevo deciso di fare due passi a piedi con mio figlio (ormai grande), alla ricerca di quella “medicina dell’anima” che serve a stemperare quei momenti di dolce malinconia. E di questi tempi devo dire che non mancano. Mi trovavo nell’area dove circa duemila anni fa sorgeva il complesso architettonico delle terme della Roma imperiale (i resti maestosi stanno ancora lì a testimoniarne lo splendore), una sorta di moderno centro polifunzionale del benessere psico-fisico, con volte affrescate e con statue grandiose, che comprendeva palestre, bagni, campi sportivi, sale per massaggi e saune, ristoranti, biblioteche, ecc. Insomma tutto ciò che rendeva la vita bella e godibile agli antichi romani. Mi veniva da pensare, osservando in lontananza quei resti monumentali, che siamo passati dalla bellezza di una simile opera architettonica, quale luogo di socializzazione e di ritrovo per attività ricreative, alla bruttezza di quel “luogo non luogo” che è il centro commerciale, dove vengono forgiati non cittadini, ma consumatori. Poveri noi!

Prima di imboccare Via di Porta San Sebastiano – che  corre parallela a via di Porta Latina sulla sinistra, formando un angolo davvero delizioso di una Roma poco frequentata (per la gioia di chi, invece, la frequenta) – ci siamo soffermati ad ammirare quella inconfondibile villa color ocra, circondata da un bellissimo parco, situata in cima ad una piccola collina, che domina tutta la zona circostante, in cui è vissuto uno dei figli più grandi della Roma moderna: Alberto Sordi. L’indimenticabile Albertone nazionale, uno degli interpreti più amati del cinema italiano, non poteva scegliere un posto migliore in cui vivere, forse quello a lui più congeniale. Oggi la casa, dopo la sua morte, è diventata un museo che raccoglie i suoi oggetti più cari. Il mausoleo di un grande dei nostri tempi tra le grandiose rovine del passato.



Dicevo di Via di Porta San Sebastiano, che praticamente costituisce il tratto iniziale di Via Appia Antica, considerata dai Romani la Regina Viarum, una delle più grandi arterie del mondo antico, che collegava Roma a Brindisi e dal cui porto partivano le navi commerciali per l’Oriente. Se non fosse stata lastricata con i famosi sampietrini (per chi non lo sapesse, sono quei cubetti di selce estratti dalle cave poste ai piedi dei Colli Albani, con cui vengono pavimentate le vie del centro storico di Roma) la strada - fiancheggiata da alte mura che racchiudono deliziosi giardini con piante secolari, oltre ad antiche dimore e resti archeologici – avrebbe avuto l’aspetto di un grosso sentiero di campagna. Peraltro proprio la campagna, con le sue pecore che vi pascolavano al posto delle macchine che oggi vi parcheggiano, dominava certamente quest’area rinchiusa entro la cerchia delle Mura Aureliane, almeno fino ai primi del ‘900.

A quell’ora, erano circa le due del pomeriggio di una bella domenica di sole, la strada appariva pressoché deserta. Per girare senza troppi affanni per Roma devi andare controcorrente: uscire quando gli altri sono ancora a tavola e rientrare quando gli stessi escono. Solo l’incontro di qualche persona solitaria munita di mascherina – ci hanno detto che dobbiamo stare da soli se vogliamo sconfiggere questo maledetto virus che tarda a lasciarci – mi riportava alla difficile normalità del momento. Devo dire che nel percorrere questa strada totalmente immersa nella quiete, si percepisce una piacevole sensazione di pace: poter ascoltare i propri passi che risuonano sul selciato, sempre soffocati da ben altri quotidiani frastuoni, è una cosa rara a cui – noi abitanti delle città - non siamo più abituati. Ma ecco che mi si presenta, sulla destra della strada, la chiesa di San Cesareo, dalla severa facciata tardo-rinascimentale attribuita a Giacomo della Porta. 



Non c’è strada, a Roma, che non abbia la sua bella chiesetta, il suo edificio religioso, la sua edicola votiva, a testimonianza di duemila anni di cristianesimo e la presenza di 266 papi ascesi al soglio pontificio. Un po’ più avanti, sulla sinistra, una finestrella con una grata su un muro di cinta permette di vedere un bel giardino, all’interno del quale si scorge una deliziosa casetta con le sue finestre a crociera e la loggia affrescata. Leggiamo che era la “casina del cardinale Bessarione”, un illustre umanista greco che morì in Italia nella seconda metà del ‘400. L’insieme, casetta e giardino, riproduce un modello esemplare di dimora gentilizia, e offre al visitatore un’idea di come doveva essere piacevole e semplice la vita per il letterato che vi dimorava nella Roma del primo Rinascimento. Lo confesso: se mi venisse offerta la possibilità di vivere in quell’esilio di pace, tra alberi secolari, stanze affrescate e qualche libro, accetterei senza indugio. Ho pretese modeste. Sorrido!



Proseguendo per via di Porta S. Sebastiano si può svoltare, sulla sinistra, in un bel Parco con cipressi e pini secolari che prende il nome da una delle più illustri famiglie della Roma repubblicana: gli Scipioni, il cui sepolcro risalente al III secolo a.c. venne qui rinvenuto nei primi anni del 1600. Le mie nebulose reminiscenze scolastiche mi riportano a Scipione l’Africano, il famoso condottiero che sconfisse il generale cartaginese Annibale. Attraversando il Parco ci si imbatte in un delizioso tempietto rinascimentale dalla forma ottagonale, che sorge a pochi passi da Porta Latina, una delle più imponenti e meglio conservate delle Mura Aureliane, conosciuto con lo strano nome di S. Giovanni in Oleo. E’ un monumento molto grazioso che non ti aspetteresti mai di trovare: sembra quasi che qualcuno di notte l’abbia posto lì per farti una sorpresa, o che sia piovuto dal cielo, dono di un dio sconosciuto. Leggiamo, invece, che secondo un’antica tradizione, sorge sul luogo ove San Giovanni Evangelista fu sottoposto al supplizio dell’olio bollente dal quale uscì illeso. Progettato dal Bramante, fu restaurato dal Borromini nel Seicento che rifece l’elegante coronamento della cupola decorato con festoni di rose e palme. A quell’ora era chiuso, però dallo spioncino dell’ingresso si intravedeva un piccolo altare con delle sedie e le pareti decorate con stucchi che invitavano alla preghiera e alla meditazione. Purtroppo anche questo piccolo gioiello dell’arte, che pochi conoscono, non è stato risparmiato dal vandalismo dei soliti idioti che di notte vanno in giro per Roma ad imbrattare la città con i loro graffiti. E pensare che c’è pure qualche politico nostrano – che magari dovrebbe contrastarli – il quale si ostina a riconoscere come artisti questi soggetti, che per me sono i nuovi barbari. Evidentemente quel politico non ha la minima idea di cosa sia l’arte. E non riesco, poi, ad immaginare cosa possa aver pensato quell’artista mentre sporcava, con la sua bomboletta spray, un monumento che sta lì da oltre 500 anni e che vivrà nei secoli futuri. Chissà, forse pensava di poter essere ricordato anche lui per l’eternità!



Per ritornare sui miei passi, ho percorso via di Porta Latina dove si trova, in una quieta e raccolta piazzetta, una delle più pittoresche basiliche della vecchia Roma, con il suo magnifico campanile, che conserva la semplicità delle sue antiche origini: San Giovanni a Porta Latina. Proprio antistante la chiesa sorge un caratteristico pozzo  Sono entrato.



 Non c’era nessuno. Solo un vecchietto – che sembrava uscito da un quadro del ‘600 - stava in raccoglimento in fondo alla navata il quale, osservando gli affreschi del XII secolo che ornano le pareti, più che pregare sembrava stesse meditando sulla caducità delle umane vicende. Mi sono soffermato ad assaporare la sacralità e il silenzio di quel luogo e poi sono uscito più sereno. La strada prosegue tra alte mura e cancelli in ferro battuto a protezione di meravigliose dimore circondate da bellissimi giardini: sono le ambasciate di Canada e Norvegia e la residenza dell’ambasciatore del Giappone.

Mentre tornavo a casa – dopo aver trascorso un paio d'ore di piacevole ozio in una Roma lontana dai flussi turistici e in compagnia di mio figlio  - la lunga fila di macchine che scorreva nella direzione opposta mi rammentava che l’altra Roma, quella più festaiola, si apprestava allo shopping serale, al rito dell’apericena e della movida.

 


lunedì 16 novembre 2020

Una crescita infinita? No grazie!

 


Dicono gli scienziati che il pianeta che abitiamo non ci basta più e per continuare a mantenere lo stesso tenore di vita - fatto di consumi e sprechi eccessivi, almeno per noi occidentali - ne servirebbe un altro con le stesse caratteristiche. Ciò significa che una crescita economica infinita e globalizzata, come quella che stiamo perseguendo, è incompatibile con un pianeta finito. E’ innegabile, però, che lo sviluppo economico, soprattutto durante quest’ultimo secolo, ha generato ricchezza e benessere – anche se per una minoranza dell’umanità -  tuttavia questo non vuol dire che si potrà continuare con uno sviluppo esponenziale, proprio in virtù del fatto che le risorse naturali sono destinate ad esaurirsi nei prossimi anni. Solo gli economisti – beati loro! - credono alla crescita materiale illimitata.

La pandemia che stiamo vivendo in questi mesi è una spia rilevante di un disagio socio-economico-sanitario che dovrebbe farci riflettere e indurci a cambiare non solo il nostro stile di vita, ma anche il nostro attuale modo di produrre ricchezza, che è diventato sempre più aggressivo e pericoloso nei confronti della natura e dei popoli, perché mercifica risorse naturali e umane. Il nostro pianeta, è bene non dimenticarlo, è governato da leggi naturali, sempre le stesse da milioni e milioni di anni: non possiamo, quindi, pensare di poterle cambiare e stravolgere a nostro piacimento, anche nei suoi aspetti climatici, senza arrecare danni irreversibili all’intero ecosistema. Per dirla con le parole di Tito Livio, se vogliamo salvarci e riconquistare quell’equilibrio perduto “non possiamo più tollerare né i nostri vizi né i loro rimedi”.

Lo confesso: io sono un sostenitore di quel nuovo modello di sviluppo che si chiama “decrescita felice”, modello che non è nemico del progresso e della prosperità fin qui raggiunta, ma fautore di un rinnovamento industriale ed economico in chiave ecologica volto a correggere le storture della “crescita per la crescita”, secondo quella sconsiderata credenza che il “più” sia migliore del “meno” e l’aumentare sia più opportuno del diminuire. L’attuale sviluppo economico – misurato con quel perverso strumento che si chiama PIL - va quindi totalmente ripensato, mettendo anche in discussione la movimentazione sproporzionata di persone e merci da un punto all’altro del pianeta, che genera un impatto disastroso sull’ambiente. Per sconfiggere la globalizzazione del mercato – che io considero nefasta – è necessario rivitalizzare l’artigianato locale e riscoprire e preferire i prodotti del nostro territorio: non è più accettabile, per esempio, che sulla nostra tavola ci siano arance provenienti dalla Spagna, mentre quelle siciliane - una delle nostre eccellenze - debbano andare all’estero, secondo logiche di mercato insane e incomprensibili. Va rivista l’organizzazione sociale del lavoro: bisogna lavorare meno, ma lavorare tutti. E bisogna rinunciare alla folle corsa verso i consumi. Siamo strapieni di cose superflue che accentuano il nostro vuoto esistenziale e il nostro smarrimento. Consumare e poi ancora consumare, sembra essere l’imperativo economico dei nostri tempi. E poi va ripensato il rapporto tra persone e strumenti digitali e tecnologici. Questi ultimi sono una grande conquista, non c’è che dire, ma è illusorio pensare che possano risolvere tutti i problemi che ci affliggono, o – come auspica qualcuno – sostituirsi addirittura all’uomo. Ho l’impressione che l’uso di questi mezzi tecnologici, di cui oramai siamo succubi, ci stia sfuggendo di mano: crediamo di controllarli, ma sono loro che controllano noi; non li possediamo, ma ne siamo posseduti.


domenica 1 novembre 2020

A che cosa serve la poesia

 


Vi faccio un esempio.

Prendete una coppia che va abbastanza bene:

due o tre lustri di convivenza

casa figli interessi comuni.

I coniugi però, non essendo né sordi né orbi

né privi di altri sensi

naturalmente non immuni

dal notare che il mondo è pieno di persone attraenti

dell'altro sesso

di cui alcune, per circostanze favorevoli,

sarebbero passibili di un  incontro a letto.

 

Sorge allora un problema che propone tre soluzioni.

 

La prima è la tradizionale repressione

non concupire eccetera non appropriarti dell'altrui proprietà

per cui il coniuge viene equiparato a un comò

Luigi XVI o a un televisore a colori

o a un qualsiasi oggetto di un certo valore

che non sarebbe corretto rubare.

 

La seconda soluzione è l'adulterio

altrettanto tradizionale

che crea una quantità di complicazioni

la lealtà (glielo dico o non glielo dico?)

lo squallore di motel occasionali

la necessità di costruire marchingegni di copertura

che non eliminano la paura

di fastidiose spiegazioni.

 

La terza soluzione è senza dubbio la più pratica

Si prendono i turbamenti e i sentimenti

le emozioni e le tentazioni

si mescolano bene si amalgama l'immagine

con un brodo di fantasia

e ci si fa su una poesia

che si mastica e si sublima

fino a corretta stesura sulla macchina da scrivere

e infine si manda giù

si digerisce con un pò di amaro

d'erbe naturali

e poi non ci si pensa più.

 

Joyce Lussu