lunedì 27 aprile 2015

Il prete bello



Al centro della vicenda di questo romanzo  – ambientato in una pruriginosa seppure cattolica Vicenza durante l’epoca fascista - troviamo un prete giovane e di bello aspetto: “il prete bello”, appunto, il personaggio che nasce dalla penna dello scrittore vicentino Goffredo Parise. Lui si chiama don Gastone Caoduro (il cognome è già un programma) ed è cappellano della chiesa dei Servi di Maria: un bell’uomo, come dicevano tutte “le signorine”, cattoliche e non, con parole o con pensieri. Dopo tanti anni di spola da una sagrestia all’altra, questo sacerdote non aveva ancora assorbito “quello che gli sarebbe spettato per dote, quello di cui la Provvidenza avrebbe dovuto fornirlo per prima cosa a custodia della sua illibatezza: l’odore del prete”. Sapeva di tutti i buoni profumi di questo mondo ma “non un minimo di incenso si attaccava al tessuto della sua tonaca”. Per fortuna che indossava la veste e questo salvava almeno le apparenze.

La voce narrante del libro è quella di un ragazzino di 11 anni (Sergio) che insieme al suo amico scavezzacollo Cena (entrambi poveri e sempre affamati che giravano attorno ai figli dei ricchi, in cerca di onorevole e aristocratica amicizia) appaiono i veri, autentici e genuini protagonisti della vicenda narrata. Costoro vengono impiegati dalle “signorine” del caseggiato in cui vivono – in cambio di un piatto di minestra o di qualche piccolo regalo – come messaggeri e investigatori a caccia di notizie e pettegolezzi sul prete bello, al fine di poter soddisfare la loro morbosa curiosità, quella passione che si era infiltrata come un tarlo nelle loro vene.

Con uno stile graffiante e arguto, Goffredo Parise si cala in quella provincia veneta, cattolica e bacchettona, già descritta da altri figli illustri di quella stessa terra - quali Antonio Fogazzaro e Guido Piovene - per riportare in superficie quei vizi e quei sentimenti intimi e peccaminosi nascosti dietro ipocrite parvenze di devozione. Ne viene fuori un racconto godibile che ruota – da una parte – intorno alle scorribande e alle birichinate dei due simpatici ragazzini e, dall’altra, attorno alla bella tonaca di Don Gastone, fonte inesauribile di pensieri erotici inconfessabili da parte delle tante spasimanti, “le signorine”, ognuna delle quali vedeva nell’altra una possibile e pericolosa rivale per la conquista del bel prete. Nonostante il tema possa apparire alquanto piccante, c’è da dire che la narrazione si mantiene sempre pulita e non sfocia mai in gratuite volgarità. Unica eccezione si riscontra nel linguaggio piuttosto colorito di uno dei personaggi più folcloristici e divertenti del libro: il cav. Esposito, un napoletano che viveva con le sue cinque figlie, segregate in casa, il quale possedeva due beni che riassumevano e puntualizzavano ogni sua ragione di vita: il Duce e il gabinetto. Il libro custodisce un finale amaro e malinconico, tuttavia non basta a disperdere quel brio che caratterizza  l’intera lettura.

venerdì 17 aprile 2015

"Le rovine in attesa": il nuovo libro di Alfonso Cernelli



Alfonso Cernelli è un giovane scrittore emergente, nato a Roma ma fiero delle sue origini meridionali. Anzi cilentane, per essere più precisi. E’ da poco uscito il suo secondo romanzo intitolato “Le rovine in attesa” pubblicato da Alter Ego Edizioni, a cinque anni di distanza dal suo primo libro “Percezione dell’inverno” con cui si aggiudicò - nel 2010 - il premio letterario nazionale “Nicola Zingarelli”, patrocinato tra l’altro dalla Presidenza della Repubblica.


Penso che oggi sia davvero arduo pensare di scrivere un libro: basta entrare in una grande libreria per capire immediatamente che il mondo non ha bisogno di un testo in più. Di fronte agli oltre 50.000 volumi che vengono stampati ogni anno nel nostro paese ed in considerazione del fatto che siamo un popolo che al massimo legge la lista della spesa, avere il coraggio di scriverne uno significa davvero sfidare l’impossibile: il mondo dell’editoria e delle vendite. A meno che l’autore non sia già uno scrittore affermato o un personaggio noto al grande pubblico: allora le porte dell’editoria si spalancano e le vendite sono ampiamente assicurate. Comunque, nonostante tutte le difficoltà del settore, i giovani talenti nel nostro paese non mancano anche se, nella maggior parte dei casi, vengono stritolati dal sistema che impedisce loro di emergere e di essere premiati per quello che valgono. Mi viene da pensare, dopo aver letto Le rovine in attesa (con tutto il dovuto rispetto per i Grandi della letteratura italiana, che restano irraggiungibili per chi si accinge a scrivere un libro), che lo stile letterario del giovane autore si ispiri più agli scrittori del Novecento italiano che non agli scribacchini odierni, i quali in virtù della loro notorietà televisiva, piuttosto che di una effettiva abilità nella scrittura, occupano i primi posti nelle classifiche di vendita in Italia.

Mi spingo a dire che con questo libro Alfonso Cernelli suggella la sua piena maturità letteraria, svela appieno le sue  notevoli doti di costruttore di storie e merita – a parer mio - la giusta attenzione. La storia del suo primo romanzo si fonda sull’amicizia e sulle scorribande di due adolescenti alle soglie della maturità; in questa sua seconda opera letteraria assistiamo, invece, all’incontro di due uomini che, pur nella loro diversità anagrafica e culturale, si ritrovano ad affrontare un breve ed intenso percorso di vita comune, che li porterà a condividere un velleitario progetto di redenzione collettiva. La vicenda, che è ambientata in un decadente  palazzo nobiliare di una non meglio specificata località del mezzogiorno d’Italia, “circondata dai monti eppure così vicina al mare”, si dipana attraverso le aspirazioni, i sogni di grandezza e le farneticazioni del marchese Alberico Priviano, un nobile meridionale che vive arroccato nella sua antica dimora; egli, al fine di portare a compimento il suo temerario disegno di rivalsa sociale, convoca nel suo palazzo un giovane studioso di diritto (Erminio Narri) “per un affare urgente e segreto”. Costui, pur di lasciare l’ insoddisfacente e frustrante lavoro che svolge in una biblioteca di testi religiosi – attività che non gli consente di esprimere le sue competenze giuridiche – accetta con molto entusiasmo l’invito del nobiluomo, nonostante sia all’oscuro dell’incarico per cui è stato chiamato.

Il progetto rivoluzionario - tanto utopistico quanto vanaglorioso - non poteva non scontrarsi, prima ancora che con la realtà dei fatti, con i sentimenti e gli interessi materiali delle persone. Assistiamo quindi ad un duplice gioco di intenti e di attese: da una parte un uomo (il marchese Priviano, assistito dal giovane giurista Narri) che nella sua lucida follia insegue un sogno di gloria, e dall’altra, una donna (la sua giovane moglie, Viola, spalleggiata da un avido amministratore) che aspira ad altri interessi. Intorno a questi due personaggi che costituiscono l’anima della narrazione, ruotano altre figure che, seppure si affaccino e poi scompaiano dopo poche pagine, servono tuttavia a delineare sapientemente il contesto narrativo in cui si dipana la storia.  Tra tutti, spicca la figura di uno strano monaco francescano (fra Ruggero) il quale, pur vivendo in un eremo “era scappato via dal consorzio umano proprio per sfuggire da quella società terrena che gli appariva così meschina e povera”, non disdegna le cose terrene e sostiene di buon grado il piano del suo amico marchese.

L’autore del romanzo - attraverso luoghi e tempi non ben definiti - preferisce non ingabbiare il lettore in rigide e precise coordinate spazio-temporali, che possano in qualche maniera circoscrivere e limitare il racconto, lasciando così ampio spazio all’immaginazione e all’intuizione di chi legge. Lo sguardo, comunque, è rivolto sempre verso quel Mezzogiorno d’Italia, presumibilmente prima del bum economico degli anni ‘60, verso quel Sud che per l’autore rappresenta un luogo dell’anima, oltre che la metafora delle insanabili contraddizioni della storia. Direi inoltre che il romanzo, seppure tramite una vicenda del tutto visionaria, intenda fare a margine anche una riflessione critica sugli eventi dell’Unità d’Italia, su quello che gli italiani venuti dal Nord fecero agli italiani del Sud, su quelle verità forse un po’ scomode che non sono mai state  riportate nei libri di storia. “L’unità avrebbe dovuto portarci ad essere uguali e fratelli” sostiene il marchese Priviano, “invece ci ha divisi in carnefici e vittime, vincitori e vinti...questo è sbagliato, non l’unificazione in quanto tale...da quando la mia terra è stata conquistata in nome dell’unità nazionale, è stata abbandonata come mai era successo prima”.

La forza di questo romanzo risiede - a mio avviso – non tanto nella rappresentazione degli eventi narrati, quanto nella magnifica descrizione degli ambienti e dei paesaggi che di volta in volta vengono delineati, nonché nella sorprendente raffigurazione psicologica ed intimistica dei vari protagonisti. A volte la scrittura può apparire ridondante, oserei dire barocca, sempre tesa alla ricerca della bellezza della “parola” e dello stile; tuttavia l’indagine introspettiva, congiuntamente alla ricercatezza della forma stilistica, conferiscono al libro una dimensione molto interessante, certamente in antitesi alle scialbe mode letterarie  dei nostri tempi. C’è da dire, infine, che i personaggi di questo romanzo – così come quelli del libro d’esordio, sebbene in una fase diversa della loro esistenza – sembrano rincorrere traguardi illusori ed ingannevoli (una tesi evidentemente molto sentita dall’autore), i quali pur di portare a compimento le loro utopiche e visionarie realizzazioni, i loro sogni custoditi nel cassetto dell’animo, direi quelle false aspirazioni di grandezza, non esitano a sacrificare certezze e verità, valori e amicizie, tempo e risorse.

martedì 7 aprile 2015

Che fine farà il libro cartaceo?



In un famoso passo del romanzo “Notre-Dame de Paris” di Victor Hugo, l’Arcidiacono della Basilica - don Claude Frollo - riceve la visita nella sua cella canonicale del medico del re Luigi XI, il quale gli chiede dei suoi libri. L’Arcidiacono, aprendo la finestra della cella e indicando l’immensa chiesa di Notre-Dame, risponde: “eccone uno”. Poi, osservando in silenzio il gigantesco edificio e allungando la mano destra verso il libro stampato che era aperto sul suo tavolo e la mano sinistra verso la chiesa, afferma sconsolato: “questo ucciderà quella”. Come per dire, il libro sostituirà l’edificio.
Evidentemente quel prete del quindicesimo secolo, di fronte alla emergente forza persuasiva della parola scritta (era da poco stata inventata la stampa a caratteri mobili), temeva di perdere la sua autorevolezza che si concretizzava ogni qual volta parlava dal pulpito della chiesa; aveva capito che “il libro di pietra”, tanto solido e duraturo, rappresentato fino a quel momento dall’architettura religiosa, con i suoi simboli ed i suoi disegni che raccontavano la storia dell’uomo e del suo Dio, stesse per cedere il posto al libro di carta, ancora più solido e duraturo. Da allora sono passati oltre cinque secoli, durante i quali sono stati stampati migliaia e migliaia di libri di carta. E’ possibile immaginare, oggi - nell’era di internet e dei social network - che il libro cartaceo, così come noi lo abbiamo conosciuto fin dalla sua nascita, stia per essere  rimpiazzato definitivamente dal libro elettronico? Un moderno discendente dell’arcidiacono di Notre-Dame de Paris potrebbe sostenere, osservando quel supporto elettronico che fa bella mostra sul suo tavolo, che l’eBook ucciderà la sua Bibbia cartacea, un po’ ingiallita, su cui si è sempre posato il suo sguardo?

Tengo a precisare che sono un lettore tradizionale (all’antica, tanto per intenderci) e non mi lascio irretire facilmente dagli strumenti elettronici alla moda (ho naturalmente un computer ma sono sprovvisto di cellulare…smartphone e quant’altro); l’idea di diventare un lettore “digitale”, di dover eventualmente modificare il mio approccio alla lettura non mi entusiasma affatto. Anzi mi spaventa. Mi piace troppo la carta stampata, mi piace sentire il suo odore, amo quel fruscio della pagina che viene girata, quel piacere tangibile che nasce dal toccare un qualcosa che ha una sua peculiare fisicità, fatta di pagine scritte. Sensazioni, queste, che non si possono avvertire stando davanti ad uno schermo elettronico. Non potrei mai rinunciare ad un’intera parete di libri – la mia personale libreria – in cambio di un “tablet” (sembra il nome di una medicina) che li contenga tutti. Per me la libreria è fatta di libri cartacei: libri alti e bassi, grandi e piccoli, bianchi e gialli, rossi e blu, belli e brutti, tascabili e rilegati, sporchi e ancora profumati di carta appena stampata, comprati nuovi di zecca o trovati nei mercatini dell’usato, parcheggiati in doppia fila, accucciati di piatto davanti agli altri, accatastati gli uni sopra gli altri. E’ fatta di libri ricevuti in regalo, tra le cui righe posso scorgere o ritrovare la persona che me li ha regalati. Ma è fatta anche di libri non ancora letti o che ho cominciato a leggere ma non riesco a terminarli. Una grande, bellissima, piacevole confusione di libri di carta.
Ora, se cambia il modo di concepire, realizzare ed acquistare il prodotto libro, dobbiamo riflettere sul fatto che perdiamo definitivamente quel singolare piacere, misto a smarrimento e curiosità, che si può provare solo visitando una grande libreria. Io ogni qual volta vi entro, avverto una strana sensazione: mi sento piccolo. Le mie ridotte conoscenze letterarie vacillano di fronte alla vastità di milioni di pagine scritte. E sono tutte pagine di carta – non digitali - che posso toccare, sfogliare, annusare. Mi accorgo dell’immensità del sapere racchiuso in quei libri accatastati che mi sovrastano. E allora mi lascio incuriosire da un titolo, da un autore che non conosco e immediatamente vengo irretito da un altro titolo, da una bella copertina, da una frase significativa. Vengo rapito dalla quarta di copertina di un romanzo e poi salto all’interno del libro per leggere, magari, un’intera pagina. E poi vuoi mettere la soddisfazione che si prova, come lettori, quando si scorge là sullo scaffale quel libro che abbiamo già letto…e poi quell’altro ancora?

Dicono che il vecchio modello di editoria non sia più sostenibile economicamente: la verità è che ci sono alcune lobby affaristiche molto potenti che spingono il mondo editoriale verso una direzione diversa; dicono che si stampano troppi libri cartacei e nessuno li legge: e allora perché gli editori non cominciano a fare una giusta selezione?; dicono che i tempi sono cambiati e, se nel passato la macchina ha sostituito il cavallo come mezzo di trasporto, è ora di sostituire il libro tradizionale con l’eBook. D’accordo, però nel momento in cui il traffico delle macchine è diventato caotico e insopportabile, i cavalli per nostra fortuna ancora ci sono. E allora mi auguro che in un mondo di macchine, di eBook, di tablet, di smartphone e chi più ne ha più ne metta, ci sia ancora posto per il libro cartaceo.
Vorrei concludere rivolgendomi a quegli editori che hanno ormai scommesso, già da tempo, sulla diffusione della cultura e della conoscenza “senza carta”, attraverso la trasposizione in digitale di testi analogici. Ebbene - cari editori digitali - qualora decideste di non stampare più testi cartacei perché superati (come sostenete), sappiate che lo scrivente è fornito di un considerevole numero di libri “vecchia maniera” – comprati in tempi non sospetti sia nelle librerie che sui banchetti dei mercatini dell’usato - la cui rilettura gli permetterà di trascorrere gli anni a venire in piacevole e dolce compagnia. Non me ne vogliate, ma il sottoscritto quando legge vuole avere tra le mani un libro vero e una matita, con cui sottolineare le parti da non dimenticare: non sopporterebbe un freddo, lucido e inquietante aggeggio ultimo modello, sempre “connesso”.