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venerdì 20 dicembre 2013

Perchè si scrive


Nonostante sia già stato scritto tutto ciò che c’era da scrivere in tremila e più anni, oggi tutti sentono il bisogno di scrivere qualcosa: un libro...un racconto...un diario...una poesia...un commento su un blog. Basta dare un’occhiata in giro: ci sono più scrittori che lettori.

“E’ bello scrivere perché riunisce due gioie: parlare da solo e parlare ad una folla”. Lo diceva Cesare Pavese. Lui continua a parlarci, con i suoi libri e le sue poesie.

Ma perché si scrive? Ma perché si decide, un bel giorno, di aprire un blog, di scavare un percorso di parole, in un mondo in cui le parole abbondano e si sprecano? In un mondo in cui l’informazione ci bombarda dalla mattina alla sera? Ma perché si sente il bisogno di lasciare una traccia su un foglio bianco?

Forse si scrive per un senso di vanità o anche per un desiderio di eternità
o forse si scrive per conoscersi e volersi bene,
e forse anche per umiliarsi e disprezzarsi,

e si scrive, chissà....per sentirsi normali in un mondo di pazzi, o per avere coscienza  di essere intelligenti in un mondo di mediocri.

Si scrive per migliorarsi e per migliorare
per insegnare e per imparare.
Si scrive per essere liberi.

Ma si scrive anche per distrarsi, per non pensare
per liberarsi dalle inquietudini, per fermare il tempo.

Si scrive perché si ha paura della morte,
e si scrive per sopportare meglio il dolore
e per sconfiggere le sofferenze,

si scrive per non soffrire,
si scrive per confessarsi.
 
Si scrive per viaggiare senza partire o meglio per partire senza più tornare,
ma si scrive anche per stare fermi,
per rallentare il tempo,
per tornare indietro nel tempo.

E perché no...si scrive per fuggire nel mondo dell’immaginazione
in un lontano “altrove”
dove il rischio di essere inseguiti è veramente minimo
dove è facile ritagliarsi un vasto territorio gratificante.

E si scrive per dimenticare le delusioni e le sconfitte
ma si scrive anche per sedurre ed incantare
per lodarsi ed esaltarsi
e si scrive per vendicarsi.

Si scrive spesso quando non si ha nulla da dire,
solo per farsi del male.

Ma si scrive sempre perché si ha qualcosa da trasmettere,
e si spera che quel messaggio scritto
quel grido di dolore o di speranza...quella richiesta di aiuto o di consenso...quell’urlo di gioia o di tristezza...insomma quel pensiero scritto
venga, solo per un momento,
accolto e catturato
e poi abbandonato.

 

sabato 14 dicembre 2013

Il barbone



Sai, fratello, t'ho visto l'altra sera!
T'ho visto, appena giunto alla stazione,
con un trancio di pizza e qualche pera,
con le tue cianfrusaglie e col cartone.

           Ti ho osservato aggirarti lentamente
            in cerca d'un posto un po' al riparo
            dal gelo, un po' nascosto dalla gente,
            per mandar giù qualche boccone amaro.

T'ho guardato in silenzio, con pietà,
ed ho provato a entrare nei tuoi panni,
cercando intorno un po' di umanità
qualcuno che mi strappasse dagli affanni.

            Ho trovato l'indifferenza più assoluta
            di tanta gente, che non volea capire,
            gente che al mio patir restava muta,
            quasi annoiata, senza intervenire.

Solo la strada avevo a fianco a me:
la strada che talvolta è più accogliente
e non ti lascia solo, anche perché
abbraccia nel suo grembo tanta gente

            d'ogni razza e d'ogni condizione,
             non chiede mai a nessuno il passaporto
             non guarda il ceto sociale o la nazione,
             non ride se sei brutto o se sei corto.

Forse domani ti troveran stecchito,
disteso su una panca o sotto un ponte,
oggi per te nessuno ha mosso un dito,
e pur 'io che t'ho avuto di fronte

             seduto a terra, là nella stazione,
             non t'ho allungato neppure mille lire
             e son passato anch'io con distrazione,
             fingendo di non vedere e non sentire.



Salvatore Armando Santoro

venerdì 13 dicembre 2013

RECENSIONE: "Giovannino" di Ercole Patti (Catania 1903 - Roma 1976)


 
Giovannino è un abulico e indeciso rampollo di una facoltosa famiglia della borghesia siciliana: il padre, notaio, proprietario di vasti possedimenti terrieri, vorrebbe che il figlio, laureato in giurisprudenza, intraprendesse la carriera di avvocato e si sposasse con una ragazza altolocata. Che fosse, insomma, provvista di “roba”, quella roba di verghiana memoria che assicurava potere e prestigio.

Tali paterne aspirazioni, rivolte più alla salvaguardia ed alla conservazione della posizione sociale del casato che al rispetto dei sentimenti personali, inizialmente non sembravano fare presa nell’animo dell’apatico Giovannino. Costui appariva privo di volontà, non sapeva impegnarsi in nulla, mostrava di avere idee confuse sul suo futuro, non sapeva bene che cosa avrebbe voluto dalla vita; pareva in attesa di qualcosa di impreciso che sarebbe dovuto accadere, aspettando chissà quale indistinto avvenimento che gli avrebbe potuto cambiare la vita. E sognava ad occhi aperti. “Sognava duelli non si sa con chi, duelli generosi e romantici dei quali avrebbe parlato tutta la città. Sognava amori con donne bellissime contese da tutti. Sognava onori che gli avrebbe tributato la cittadinanza per non si sa quali meriti”.

Quando non andava nello studio di un avvocato a fare pratica forense, “lo studio dell’avvocato lo annoiava, la mattina quando vi si recava si sentiva stringere il cuore come ai tempi del liceo” trascorreva le sue giornate con indolenza, tra una chiacchiera e l’altra in “pasticceria”, le passeggiate in via Etnea a Catania e le brevi esperienze amorose consumate frettolosamente in qualche pensione della città. E così, dopo un breve e fallimentare soggiorno nella Capitale - dove si era trasferito per lavorare al Ministero delle Finanze, grazie ad una raccomandazione di un deputato - Giovannino finirà per assecondare le pressanti ambizioni del padre, sposando una ragazza non bella ma dalla ricchezza fuori del comune. Il prestigio del casato veniva così salvato.

Il racconto ci riporta nella Sicilia degli anni venti; i personaggi si muovono nella Catania di via Etnea, percorsa su e giù dalle carrozze ricche e lucenti dei notabili, dove passeggiavano le ragazze della borghesia in cerca di marito, accompagnate dalle mamme; la Catania delle pasticcerie dove si ritrovavano, all’ora dell’aperitivo, le signore e le signorine della buona società e le persone più in vista della città. Sono i luoghi simbolo di un mondo che forse non esiste più, un mondo rappresentativo di una certa sicilianità mirabilmente descritta anche da Vitaliano Brancati, grande amico di Ercole Patti. Erano i luoghi dove si intrattenevano i giovani dell’aristocrazia siciliana: baroni, duchi e marchesi, avvocati, notai e assicuratori sprovvisti di titoli nobiliari ma appunto per questo frequentatori assidui dell’ambiente dei nobili, i quali “organizzavano gite a Taormina, rievocavano la serata precedente trascorsa in una casa di tolleranza o parlavano delle relazioni segrete della moglie di qualcuno col marito di qualche altra”.

 E’ la Sicilia degli anni giovanili dello scrittore, che viene minuziosamente descritta anche attraverso gli odori, prima ancora che attraverso i paesaggi: gli odori della cioccolata e della frutta di marzapane colorato di cui erano piene le “dolcerie”; l’odore del latte di capra appena munto sulla soglia del cancello del capraio; l’odore dei cavolicelli bolliti e del pesce d’uovo che giungeva dalle porte aperte delle cucine; l’odore della campagna, misto di foglie di castagno, di fichi secchi, di mallo di noce; l’odore fresco della terra bagnata e dell’erba appena tagliata; l’odore delle soppressate, della pasta fatta in casa, dei mandarini.

In questo morbido contesto, la vita scorreva monotona, immobile, noiosa e dolce...”così dolce che si poteva invecchiare senza accorgersene e ritrovarsi ad averla vissuta tutta senza averne avuto coscienza, rimanendo sempre figli di famiglia. Questo era il dolcissimo veleno di Catania che Giovannino si sentiva entrare nelle vene”.

Lo scrittore siciliano, nel seguire le vicende del suo emblematico personaggio, dalla vita pigra e comoda dell’età adolescenziale fino alla maturità e quindi al matrimonio, sembra quasi voler ripercorrere il suo itinerario umano e letterario che si svolse tra Catania e Roma, veri luoghi dell’anima.

E lo fa con una narrazione gradevole, tratteggiando la variegata umanità di cui è costellato il libro, con bonaria e tollerante ironia, a volte con un pizzico di malinconia, senza mai infierire nei confronti di quella classe borghese opportunista e attaccata alla “roba”, di quell’aristocrazia sonnacchiosa che viveva sperperando le rendite del latifondo, interessata solo a realizzare forti alleanze familiari al fine di salvaguardare se stessa.

lunedì 9 dicembre 2013

RECENSIONE: "La strada per Roma" di Paolo Volponi (Urbino 1924 - Ancona 1994)



Con questo lungo e corposo romanzo Paolo Volponi vinse il premio Strega nel 1991. Va detto che tutta l’opera narrativa dello scrittore marchigiano è incentrata sull’antica e mai risolta contrapposizione tra operai e industriali, tra il mondo dei lavoratori e quello delle imprese. Volponi, prima ancora che scrittore, è stato un dipendente della Olivetti di Ivrea in qualità di direttore dei servizi sociali, oltre che Presidente della Fondazione Agnelli,  incarico, quest’ultimo, che dovette lasciare a seguito della sua adesione al Partito Comunista. Sensibile alle problematiche lavorative, lo scrittore era profondamente convinto che i contrasti tra lavoratori e padroni potessero essere risolti solo attraverso una concezione umanistica del rapporto lavorativo, al di fuori delle ferree logiche di profitto e di sfruttamento.

Il libro, ambientato negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, in un paese che faticosamente stava risollevandosi dalle estreme condizioni di difficoltà e di miseria in cui si trovava, scruta i sentimenti, i desideri, le illusioni, le aspettative, gli ideali politici di due giovani studenti di Urbino (Guido ed Ettore), rappresentativi di un’intera generazione che si apprestava a vivere, con trepidazione e contrastanti sentimenti, la rinascita economica dopo il buio del conflitto mondiale.

Non credo di sbagliare se dico che in questo romanzo riecheggiano echi autobiografici dell’autore, ben inseriti nei luoghi che descrive. Lo scrittore si cela nei suoi personaggi, si immedesima nei loro bisogni e nelle loro contraddizioni, ne descrive le irrequietezze e le insoddisfazioni, i cui eventi si snodano tra Urbino e Roma, ricalcando proprio le sue vicende umane e professionali, che lo avevano visto protagonista prima nella sua città natale e poi nella Capitale. Urbino è sempre presente nella narrazione: con i suoi palazzi, la sua architettura antica  e solenne, la sua gente. E’ presente con i suoi riti quotidiani sempre uguali e immobili: il pasto e poi la pennichella pomeridiana e poi il cinema e poi la passeggiata sotto il loggiato prima della cena. E poi le lunghe, interminabili e sterili discussioni incentrate sulla politica, sul gossip, sulle donne.

E’ la storia di un’amicizia, prima ancora che la fotografia di un’intera generazione, quella che ci descrive Volponi, combattuta tra il desiderio di andare via o rimanere, cambiare vita o lasciarsi cullare dalla monotonia e dall’abbraccio del luogo nativo, che poi è quel sentimento che agita le coscienze di tutti i giovani che si trovano nella condizione di dover decidere sul loro futuro.

I due giovani – che sono i protagonisti principali del racconto, insieme a tante altre figure che costellano il romanzo - sebbene siano animati dalla stessa voglia di cambiamento, sono però divisi da due modi diversi di immaginare il proprio futuro: Guido (alias Volponi) si sente  animato da una sorta di destino superiore, sensibile alla ricchezza “anche se convinto di poterne controllare l’influenza con la forza delle sue idee...servendosene per diventare un uomo nuovo, che agisce soprattutto per uno stimolo sociale”; egli decide di andare via da Urbino ed intraprende la strada per Roma. Ettore, invece, è più realista, è convinto che si possa cambiare anche rimanendo; perciò non abbandona la sua Urbino, ma cerca di cambiarla attraverso la sua professione di insegnante.

E’ un libro che presenta una scrittura a volte ostica e ridondante; devo dire che alcune pagine si leggono con fatica e che tale difficoltà sembra scaturire proprio da quella visione cervellotica della realtà immaginata dai suoi personaggi.

sabato 7 dicembre 2013

Albero di Natale



Natale è alle porte.

Se dovessi fare un albero di natale addobbato con i libri che si vedono esposti in tutte le vetrine delle librerie – pare che siano attualmente i capolavori più venduti (de gustibus non disputandum est!) - il risultato sarebbe, per quanto mi riguarda, molto sconfortante: un albero decisamente kitsch, dal gusto estetico/letterario assai improbabile.

Un guazzabuglio di pseudo scrittori, che hanno il solo merito di essere personaggi noti del mondo dello sport e dello spettacolo, che fanno passerella in tutte le trasmissioni televisive per presentare i loro capolavori.

Sulla sommità dell’albero, come una stella cometa – immancabile strenna natalizia- metterei l’ultimo libro di Bruno Vespa: Sale, zucchero e caffè.
Poi, come tante palle colorate:

E’ pronto di Benedetta Parodi
Io nascerò di Loretta Goggi
Io ti voglio di Irene Cao
La vita non è in rima di Luciano Ligabue
La strada verso casa di Fabrizio Volo
Giocare da uomo di Javier Zanetti
Moscerine di Anna Marchesini
True. La mia storia di Mike Tyson
Open. La mia storia di Andre Agassi
Penso, quindi gioco di Andrea Pirlo
Testa, cuore e gambe di Antonio Conte
Cinquanta sfumature di grigio (oppure di nero o di rosso) di E.L. James
Tutto sommato di Gigi Proietti
L’oroscopo 2014 di Paolo Fox
Occhio allo spreco. Consumare meno e vivere meglio di Cristina Gabetti.

Per potersi reggere, un albero così carico di sapere ha bisogno di una base molto solida. E allora cosa c’è di meglio di quattro autentici pilastri della letteratura mondiale, che vanno per la maggiore, utilizzati a mò di piattaforma come:

L’inverno del mondo di Ken Follet
Joyland di Stephen King
Letto di ossa di Patricia Cornwell
Inferno di Dan Brown

Sono gradite altre palle colorate....Buon Natale

mercoledì 4 dicembre 2013

Residuo


 
Di tutto è rimasto un poco,
Della mia paura. Del tuo ribrezzo.

Dei gridi blesi. Della rosa
è rimasto un poco.

È rimasto un poco di luce
captata nel cappello.
Negli occhi del ruffiano
è restata un po' di tenerezza
(molto poco)

Poco è rimasto di questa polvere
che ti coprì le scarpe
bianche. Pochi panni sono rimasti,
pochi veli rotti,
poco, poco, molto poco.

Ma d'ogni cosa resta un poco.
Del ponte bombardato,
delle due foglie d'erba,
del pacchetto
- vuoto - di sigarette, è rimasto un poco

Che di ogni cosa resta un poco.
È rimasto un po' del tuo mento
nel mento di tua figlia.

Del tuo ruvido silenzio
un poco è rimasto, un poco
sui muri infastiditi,
nelle foglie, mute, che salgono.

È rimasto un po' di tutto
nel piattino di porcellana,
drago rotto, fiore bianco,
di rughe sulla tua fronte,
ritratto.

Se di tutto resta un poco,
perché mai non dovrebbe restare
un po' di me? Nel treno
che porta a nord, nella nave,
negli annunci di giornale,
un po' di me a Londra,
un po' di me in qualche dove?
nella consonante?
nel pozzo?

Un poco resta oscillando
alla foce dei fiumi
e i pesci non lo evitano,
un poco: non viene nei libri.

Di tutto rimane un poco.
Non molto: da un rubinetto
stilla questa goccia assurda,
metà sale e metà alcool,
salta questa zampa di rana,
questo vetro di orologio
rotto in mille speranze,
questo collo di cigno,
questo segreto infantile...
Di ogni cosa è rimasto un poco:
di me; di te; di Abelardo.
Un capello sulla mia manica,
di tutto è rimasto un poco;
vento nelle mie orecchie,
rutto volgare, gemito
di viscere ribelli,
e minuscoli artefatti:
campanula, alveolo, capsula
di revolver... di aspirina.
Di tutto è rimasto un poco.
E di tutto resta un poco.
Oh, apri i flacone di profumo
e soffoca
l'insopportabile lezzo della memoria.

Ma di tutto, terribile, resta un poco,
e sotto le onde ritmate,
e sotto le nuvole e i venti
e sotto i ponti e sotto i tunnel
e sotto le fiamme e sotto il sarcasmo
e sotto il muco e sotto il vomito
e sotto il singhiozzo, il carcere, il dimenticato
e sotto gli spettacoli e sotto la morte in scarlatto
e sotto le biblioteche, gli ospizi, le chiese trionfanti
e sotto te stesso e sotto i tuoi piedi già rigidi
e sotto i cardini della famiglia e della classe,
rimane sempre un poco di tutto.
A volte un bottone. A volte un topo.

Carlos Drummond de Andrade
(traduzione di Antonio Tabucchi)