Le anime, nella Russia
dell’Ottocento, erano i servi della gleba, cioè quei contadini che venivano assoldati dai ricchi proprietari
terrieri. All’epoca, la terra che lo Stato affidava ai notabili era commisurata
al numero dei servi della gleba annoverati alle loro dipendenze, sui quali i
proprietari terrieri erano tenuti a corrispondere una imposta pro capite.
L’imposta veniva calcolata in occasione di ogni censimento - che di solito si
verificava ogni 10 anni - per cui se nel frattempo alcuni di questi contadini
morivano, il proprietario terriero era comunque obbligato a corrispondere
l’imposta dovuta su queste “anime morte”, fino al censimento successivo che
certificava l’avvenuto decesso.
“Le anime morte” di Nikolaj Gogol (Garzanti editore) disegna un
grande affresco della società rurale e contadina della Russia ottocentesca,
vista attraverso gli occhi di Pavel
Ivanovic Cicikov, il protagonista del romanzo. Questo personaggio è un
affarista spregiudicato e senza scrupoli, un navigato truffatore, alla continua
ricerca di potere e di ricchezze, che viaggia in lungo e in largo nella Russia
zarista comprando per pochi rubli “anime morte”. E lo fa attraverso finti
contratti di compravendita, al fine di ottenere agevolazioni, benefici e terre
dalle autorità governative, in virtù del possesso di un numero considerevole di
finti contadini. Con modi seducenti e con adulazioni nei confronti dei suoi
interlocutori, riesce in breve tempo ad instaurare rapporti amichevoli con i
potentati della città in cui si stabilisce, al fine di poter raggiungere i suoi
obiettivi economici. E’ un abile millantatore, Cicikov, e riesce a produrre
un’impressione positiva anche nelle donne della buona società cittadina, grazie
alle sue buone maniere e alla diceria che si portava dietro, cioè di essere un
uomo molto ricco, un “milionario”. E le mogli dei dignitari locali - delle cui
qualità morali l’autore ha grandissime difficoltà a parlarne, preferendo
discettare, invece, del loro modo di vestire, delle loro capacità di rispettare
l’etichetta e le convenienze - si lasciano facilmente attrarre dalle ricchezze
e dal potere. L’ipocrisia che lo scrittore nota nelle donne aristocratiche, la
osserva anche nei lettori che appartengono all’alta società e in quegli individui
che dell’alta società credono di far parte, in virtù delle parole francesi e
inglesi che sfoggiano con la giusta pronuncia, arrotando la erre come i
francesi o facendo la bocca a “culo di gallina” come gli inglesi.
Con una descrizione minuziosa e con
una prosa piacevole e sempre ironica e sferzante, Gogol ci presenta una
variegata umanità fatta di notabili altolocati e provinciali, di funzionari, di
impiegati ma anche di gente umile, tutti rappresentativi della realtà cittadina,
burocratica e rurale della Russia degli Zar. Un posto importante nella
narrazione occupano i vari proprietari terrieri, cui si rivolge Cicikov per
comprare le anime morte, personaggi “difficili
da ritrarre” - dice l’Autore - “signori
di cui è pieno il mondo, che sembrano tutti simili gli uni agli altri” . C’è
quello che emerge per i suoi modi eccessivamente ossequiosi e deferenti, il
quale inizialmente appare gradevole all’interlocutore, per rivelarsi, poi,
superficiale e noioso. C’è poi l’uomo rozzo, grossolano che somiglia ad un orso
nei modi e nell’aspetto, molto attento, però, ai suoi affari, che disprezza
tutti coloro che occupano posizioni importanti nella gerarchia statale. Non
manca, in questa carrellata di personaggi, il prototipo universale dell’avaro,
unico guardiano e custode delle sue ricchezze il quale, pur essendo
ricchissimo, conduce una vita misera, alimentata inesorabilmente dalla sua
insaziabile avarizia. E come dimenticare, infine, lo spaccone esibizionista,
amante della baldoria, dei balli e dei convegni mondani, appassionato di
scommesse e di carte, baro, sbruffone e bugiardo, quel soggetto che non
scomparirà mai dal mondo, che sarà sempre presente in mezzo a noi, in qualsiasi
epoca lo si voglia collocare.
Gogol è veramente sorprendente
nel presentarci l’uomo nelle sue quotidiane contraddizioni e aberrazioni, nelle
sue passioni e nella sua fragilità, ma anche nelle sue miserie quotidiane e nei
suoi vizi; ci descrive il perbenismo, la meschinità e la vanità dell’animo umano, tratteggiando dei personaggi
che, a seconda delle circostanze della vita e sempre per un proprio tornaconto
personale, sanno essere forti con i poveri ed i diseredati e deboli con i
ricchi ed i potenti, attraverso tutte quelle gradazioni e sfumature del
linguaggio, dei gesti e del comportamento che rivelano - di volta in volta – da
parte degli stessi, alterigia e arroganza, servilismo e cortigianeria. Gogol è un grande
osservatore, si dimostra prodigo di pungenti ed ironiche osservazioni e
descrizioni degli ambienti rurali, ma a volte si ha l’impressione che l’autore
voglia trasmettere al lettore anche sensazioni di disgusto e di ribrezzo che si
provano di fronte a certe aspetti della realtà. Così, nel descrivere alberghi e bettole di periferia, fa notare
che “per due rubli al giorno i
viaggiatori hanno diritto a due metri di cameretta e agli immancabili
scarafaggi che come prugne secche fanno capolino dappertutto”, e che le
pareti delle stanze adibite a sala da pranzo sono di solito “verniciate a olio, annerite in alto dal
fumo e lucidate in basso dalle schiene degli avventori di passaggio”, oppure
nel raffigurare il disordine e la sporcizia di una stanza, ritiene
significativo far sapere al lettore che “il
padrone aveva lasciato sul tavolo uno stuzzicadenti completamente ingiallito
con cui si era forse frugato tra i denti prima dell’ingresso dei Francesi a
Mosca”.
Con questo libro Gogol riesce a
cogliere sapientemente lo spirito dell’epoca in cui è vissuto, ma si dimostra
anche un attento studioso dell’animo umano quando afferma che “fino a quando la gente non si preoccuperà
della propria ricchezza interiore, smettendola di occuparsi delle cose per le
quali ci si azzuffa e ci si sbrana qui sulla terra, non ci sarà nessuna
ricchezza e nessun benessere terreno”.