lunedì 26 giugno 2023

La schiavitù è la legge della vita

 


“Questa è una giornata nella quale mi pesa, come un ingresso in carcere, la monotonia di tutto. Ma la monotonia di tutto non è altro che la monotonia di me stesso. Ciascun volto, anche lo stesso che abbiamo visto ieri, oggi è un altro, perché oggi non è ieri. Ogni giorno è il giorno che è, e non ce n’è mai stato un altro uguale al mondo. L’identità è solo nella nostra anima (l’identità sentita con se stessa, anche se falsa), attraverso la quale tutto si somiglia e si semplifica. Il mondo è cose staccate e spigoli distinti; ma se siamo miopi, esso è una nebbia insufficiente e continua.

Il mio desiderio è fuggire. Fuggire da ciò che conosco, fuggire da ciò che è mio, fuggire da ciò che amo. Desidero partire: non verso le Indie impossibili o verso le grandi isole a Sud di tutto, ma verso un luogo qualsiasi, villaggio o eremo, che possegga la virtù di non essere questo luogo. Non voglio più vedere questi volti, queste abitudini e questi giorni. Voglio riposarmi, da estraneo, dalla mia organica simulazione. Voglio sentire il sonno che arriva come vita e non come riposo. Una capanna in riva al mare, perfino una grotta sul fianco rugoso di una montagna, mi può dare questo. Purtroppo soltanto la mia volontà non me lo può dare.

La schiavitù è la legge della vita, e non c’è altra legge perché questa deve compiersi, senza possibile rivolta o rifugio da trovare. Certuni nascono schiavi, altri diventano schiavi, ad altri ancora la schiavitù viene imposta. L’amore codardo che tutti noi proviamo per la libertà (libertà che, se la conoscessimo, troveremmo strana perché nuova, e la rifiuteremmo) è il vero indizio del peso della nostra schiavitù. Io stesso, che ho appena detto che desidererei una capanna o una grotta per essere libero dalla noia di tutto, che poi è la noia che provo per me, oserei forse andare in quella capanna o in quella grotta consapevole che, dato che la noia mi appartiene, essa sarebbe sempre presente? Io stesso, che soffoco dove sono e perché sono, dove mai respirerei meglio se la malattia è nei miei polmoni e non nelle cose che mi circondano? Io stesso, che ardentemente sogno il sole puro e i campi liberi, il mare visibile e l’orizzonte largo, chissà se mi adatterei al letto o al cibo o a non dover scendere otto rampe di scale per arrivare alla strada o a non entrare nella tabaccheria dell’angolo o a non scambiar il buongiorno con l’ozioso barbiere.

Quello che ci circonda diventa parte di noi stessi, si infiltra in noi nella sensazione della carne e della vita e, quale bava del grande Ragno, ci unisce in modo sottile a ciò che è prossimo, imprigionandoci in un letto lieve di morte lenta dove dondoliamo al vento. Tutto è noi e noi siamo tutto; ma a che serve questo, se tutto è niente? Un raggio di sole, una nuvola il cui passaggio è rivelato da un’improvvisa ombra, una brezza che si leva, il silenzio che segue quando essa cessa, qualche volto, qualche voce, il riso casuale fra le voci che parlano: e poi la notte nella quale emergono senza senso i geroglifici infranti delle stelle”.

da “Il libro dell’inquietudine”

di Fernando Pessoa


mercoledì 14 giugno 2023

Paesi e bellezza

 


Vivere in una grande città è trascorrere gran parte della propria vita immersi nella bruttezza, nel degrado dello spazio urbano. Faccio questa amara riflessione mentre percorro una strada del quartiere in cui abito, a sud-est di Roma. Una strada come tante, dove la bellezza - che ha plasmato la città eterna nel corso dei secoli - qui non è mai arrivata. Tra smog, incessanti rumori di fondo, traffico nevrotico, cumuli di rifiuti, marciapiedi maleodoranti, manifesti pubblicitari che ricoprono qualsiasi spazio, muri e saracinesche di negozi imbrattati di scritte, palazzoni simili ad alveari che sembrano respingere più che ospitare: una scenografia urbana, questa, che non evoca alcuna idea di bellezza. E non stimola affatto il buon umore.

Sono appena ritornato con il treno dal mio paesello, nel Cilento. L’impatto con la vita frenetica della Capitale, a cominciare dal caos della stazione Termini che per prima mi accoglie, appare sempre più traumatico. Mi viene da pensare che a volte sembriamo divisi tra l’impulso a ignorare le nostre sensazioni - diventando indifferenti e anestetizzati all’ambiente circostante - e il sentimento opposto che ci fa soffrire e riconoscere che il nostro carattere è legato intimamente al luogo in cui viviamo abitualmente. Un posto ameno e seducente, una bella architettura residenziale, una strada pulita, un parco pubblico non dico che sono garanti di felicità ma hanno, certamente, la capacità di migliorare lo stato d’animo delle persone che li abitano.

Capita, poi, di ritrovarci in un delizioso e antico paesino arroccato sulla collina che guarda verso il mare. Apriamo la finestra della casetta costruita in pietra dove ci siamo momentaneamente rifugiati, e veniamo assorbiti dal magnifico panorama che ci si presenta davanti: la bella vigna giù nella vallata, la distesa di ulivi secolari, qua e là alberi di querce e di lecci e di fichi, le rovine di un vecchio castello in lontananza, casupole di contadini a punteggiare il territorio circostante, il mare all’orizzonte…e il tutto sotto un cielo azzurro, limpido e profumato. Respiriamo a pieni polmoni quell’aria salubre e ci sentiamo felici. Nessun rumore di macchine, nessuno che farnetica ad alta voce con un cellulare, assenza di graffiti sui muri: solo silenzio, pace, tranquillità, armonia naturale. Insomma, un piccolo angolo di mondo che non conosce la bruttezza metropolitana e le miserie umane. Solo quando ci troviamo di fronte alla bellezza della natura ci rendiamo conto di quanta bruttezza ci sia nella nostra vita. Ci riempiamo gli occhi e il cuore con quel panorama non violentato dall’intervento scriteriato dell’uomo, mentre il pensiero va al nostro appartamento in città, con vista non sulla Fontana di Trevi o su Piazza di Spagna ma sulla facciata scrostata di un palazzo simile al nostro, e su quella sterminata distesa di lamiere, il nostro doloroso paesaggio quotidiano.

Ma perché ci siamo allontanati così tanto da certi fondamentali valori dell’esistenza? Perché scegliamo di vivere in agglomerati urbani superaffollati e sempre più invivibili? Come abbiamo potuto rinunciare a ciò che più conta nella vita, in primis, a quel rapporto virtuoso e salutare con la natura? Se esiste davvero la bellezza da ammirare e da godere tutti i giorni, allora la si deve cercare non in un museo o in un’antica cattedrale, ma proprio in uno dei tanti borghi del nostro Paese dove il paesaggio naturale - cancellato dentro di noi dalla modernità e fuori di noi dal cemento – si estende sereno dinanzi a noi; dove la lentezza è ancora un valore; dove un muretto a secco diventa la nostra cattedrale; dove ci si può ripulire la mente e l’anima dalle brutture quotidiane e abbandonarsi anche all’assenza di un pensiero; dove finalmente ci si può svestire delle nostre discutibili ed omologate impalcature metropolitane.