Ritorno ogni estate nel mio
paese d’origine, nel Cilento. E’ l’abituale “viaggio non viaggio” che faccio
tutti gli anni verso il luogo dove sono nato e dove ho vissuto fino a 19/20 anni.
Un tragitto, questo, di poche centinaia di chilometri: inizia da Roma – dove
vivo abitualmente da circa 40 anni – e termina in questo piccolo borgo di poche
anime aggrappato ad una collina che guarda verso il mare. E’ il mio luogo
dell’infanzia e della memoria. Il mio luogo dell’anima che conserva, come un salvadanaio,
sentimenti e ricordi; un posto dove esistono ancora valori come la lentezza e
il silenzio, cioè quei modi diversi di guardare la realtà che non appartengono
ad una grande città come Roma. Questo rimpatrio genera in me sentimenti
contrastanti: a volte mi sento come un emigrante che torna nel paese nativo per
cercare l’antica identità; a volte mi vedo straniero nel paese in cui sono nato,
perché non trovo più quei riferimenti che avevo lasciato; a volte avverto un
senso di profondo spaesamento di fronte ai tanti cambiamenti che sono avvenuti
negli anni; a volte mi sembra di non essermi mai allontanato da quelle antiche
case in pietra, da quelle viuzze assolate, perché si può restare in un posto
anche vivendo altrove. Quel luogo è come una parte del mio corpo che mi
appartiene ed a cui io appartengo. E’ una sorta di protesi e racchiude un pezzo
significativo della mia esistenza.
Scrive l’antropologo Vito Teti
in un suo bellissimo libro che si intitola “Il senso dei luoghi” con
sottotitolo “Memoria e storia dei paesi abbandonati” (Donzelli editore – pagg.
593): “…Ognuno di noi ha un luogo dove,
ora con amore ora con disagio, ora con piacere ora con dolore, si sente a casa,
o in quella che è stata la casa, un luogo, dove anche se se n’è allontanato, si
sente a suo agio, sente il proprio corpo in maniera diversa. E’ una soglia e un
confine, una siepe e un carcere. E’ tante cose ma soltanto a partire da quel
luogo, da quella casa, da quelle sabbie, da quella strada, da quella ferrovia,
da quel fiume, misuri il senso della tua lontananza, dei tuoi spostamenti,
ripercorri la tua nostalgia e riacciuffi la tua memoria, o scarichi il tuo
desiderio di oblio”. Ecco, io da quella stradina che si incunea tra le case
di Melito, frazione di Prignano (questo il nome del paese), dove giocavo serenamente da ragazzo con
i miei amici, da quella antica casa costruita in pietra ai primi del Novecento
dove sono nato, da quella piccola chiesa dedicata a Santa Caterina che mi ha
visto partecipare a lontane funzioni religiose, da quella Torre medioevale che
tanto mi affascinava da bambino ispirandomi storie fantastiche, insomma da quel paesino circondato da querce
e ulivi, riacciuffo la mia memoria. Quella memoria che mi fa ritrovare l'
infanzia spensierata fatta di giochi “poveri” finiti ormai nel dimenticatoio, che
mi riporta agli anni adolescenziali, così diversi da quelli vissuti dai ragazzi
dei nostri tempi.
Per fortuna Melito non è a rischio abbandono – come spesso accade in alcune zone del sud - tuttavia al
suo interno esistono alcune case in rovina, disabitate (accanto a quelle abilmente ristrutturate nel rispetto del territorio), dal momento che gli antichi
abitanti sono morti da tempo e gli eredi non hanno nessun interesse a ristrutturarle.
Vengono spesso messe in vendita tramite agenzie, ma restano quasi sempre
invendute e lentamente diventano dei corpi morti, pericolanti, estranei, che
generano inquietudine e tristezza. Mi soffermo spesso ad osservare queste casette
costruite con la pietra locale che ormai presentano il tetto sfondato e gli
infissi cadenti: un tempo custodivano storie ed affetti, gioie e dolori e ogni
volta il mio pensiero va a quelle persone conosciute, che un tempo le abitavano
e che appartengono alla mia fanciullezza. Ai miei ricordi giovanili. Quelle
case abbandonate, nonostante tutto, conservano una loro dignità e bellezza,
continuano a parlare a chi le osserva attraverso le storie racchiuse tra quelle
mura, più di quanto possa raccontare una recente e anonima costruzione, in qualsiasi luogo essa si trovi;
quelle rovine ai miei occhi esercitano una sorta di attrattiva perturbante. Lo
ammetto: mi assale un senso di nostalgia per quel tempo perduto. E questo
sentimento diventa ancora più doloroso e straziante quando vedo proprio quella
casetta in rovina che - per un breve periodo - fu abitata (in affitto) dai miei
genitori. Sia ben chiaro: non è nostalgia del passato inteso come paradiso perduto (la vita, allora, era difficile). Ma è - come scrive sempre Vito Teti nel suo libro che mi ha
tenuto compagnia durante le passate vacanze estive e che mi ha ispirato
questa mia riflessione - "la nostalgia di quanti pensano che il tempo
presente non debba smarrire la memoria del passato e che anche le macerie del
passato servono per ricostruire …”. Perché la memoria definisce la nostra
identità e senza la memoria del passato non possiamo costruire il futuro.
Quando nel
paese muore una persona anziana, si sente spesso dire: “un’altra casa si è
chiusa”. Per dire che con la scomparsa di quella persona, finisce una storia,
si estingue una famiglia conosciuta e apprezzata nel paese, si chiude
definitivamente un’epoca. Ma il paese dei padri continua a vivere con i figli
che sono rimasti o che ritornano – come il sottoscritto – nella casa avita; e
continua a vivere anche con i nuovi abitanti che vengono spesso da lontano, i
quali, pur non avendo alcun legame con il territorio, cercano faticosamente di integrarsi
e fare paese. Come per dire che un vecchio paese muore un po’ alla volta mentre,
con difficoltà, ne sorge uno nuovo.