lunedì 2 dicembre 2024

Il tempo delle cose è finito

 


Siamo quotidianamente investiti da una massa di informazioni che ha preso il posto delle cose, destabilizzando la nostra esistenza. Le informazioni hanno una validità molto limitata: si fondano sulla sorpresa. Siamo diventati consumatori insaziabili di informazioni, che rappresentano la realtà e riducono i contatti fisici. Ma sono le cose concrete i punti fermi che influenzano le nostre vite. Tuttavia, il mondo si fa sempre più inafferrabile – scrive lo scrittore e filosofo coreano Byung-Chul Han nel suo saggio “Le non cose” con sottotitolo “come abbiamo smesso di vivere il reale” – siamo passati dall’era delle cose all’era delle non-cose. Non abitiamo più la terrà e il cielo, ma Google, e all’ordine terreno è subentrato l’ordine digitale.

La realtà ci appare sempre più scivolosa e ingarbugliata, piena di stimoli che non vanno oltre la superficie. Comunichiamo incessantemente, raccogliamo dati e amici e follower senza mai incontrare l’Altro, che scompare in forma di voce e di sguardo. “Il mondo odierno è molto povero di sguardo e di voce”. Non vogliamo più legarci alle cose che un tempo ci erano care, ma evitiamo anche di legarci alle persone, cercando ossessivamente di conoscerne altre in maniera virtuale. “Ci sentiamo liberi – scrive il filosofo coreano – eppure siamo sfruttati, sorvegliati e influenzati”.

Ci stiamo dirigendo, sostiene ancora l’autore di questo libro, verso un’epoca post-umana, “in cui la vita altro non è che mero scambio di informazioni…La digitalizzazione è un passaggio coerente verso l’abolizione dell’humanum”.

E’ finito il tempo delle cose che stanno a cuore. E il tempo del cuore appartiene ormai al passato. Le cose nascono già morte. “Non vengono usate, bensì consumate. Solo un lungo utilizzo dà loro un’anima. Solo le cose del cuore sono animate. Flaubert voleva essere sepolto insieme al suo calamaio”.

Probabilmente l’uomo contemporaneo vorrà essere sepolto insieme al suo smartphone.


lunedì 18 novembre 2024

Io sono nessuno

 


Io sono Nessuno! Tu chi sei?
Sei Nessuno anche tu?
Allora siamo in due!
Non dirlo! Potrebbero spargere la voce!

Che grande peso essere Qualcuno!
Così volgare, come una rana
che gracida il tuo nome, per tutto giugno,
ad una palude ammirata!

Emily Dickinson 

 


sabato 9 novembre 2024

Il mio amico Stoner

 




Ci sono alcuni personaggi letterari che godono della mia simpatia e meritano tutto il mio affetto: sono i “perdenti”, quelli che in letteratura  vengono chiamati inetti, e che hanno difficoltà a vivere una vita cosiddetta “normale”. Devo ammettere, pertanto, che non mi piacciono molto le persone vincenti, i primi della classe, gli ambiziosi ad ogni costo, coloro che hanno successo e potere e fama e soldi e conducono una vita brillante. Quelli, insomma, che attraverso il loro esempio vogliono insegnarti a vivere. Non ci posso fare nulla: costoro mi annoiano terribilmente. Proprio non li sopporto. Preferisco le storie degli incerti, dei dubbiosi, di coloro che hanno sbagliato strada o che sono sempre alla ricerca di qualcosa ma non sanno mai quale. Forse cercano proprio sé stessi e questo loro faticoso cammino esistenziale me li rende simpatici. Mi appassionano molto di più le vicende di uno sconfitto dalla vita come Alfonso Nitti, descritto da Italo Svevo in “Una vita” o le disavventure di JaKob von Gunten dell’omonimo romanzo di Robert Walser (che voleva essere uno zero assoluto), piuttosto che le peripezie di certi arrampicatori sociali come Duroy - il “Bel-Ami” di Maupassant -  o come Mastro Don Gesualdo di Verga. E ora, tra i miei favoriti, è arrivato anche Stoner, dell’omonimo romanzo di John Williams.

William Stoner è un uomo che conduce una vita ordinaria, senza infamia e senza lode, si direbbe. “Era arrivato a un’età in cui, con intensità crescente, gli si presentava sempre la stessa domanda, di una semplicità così disarmante che non aveva gli strumenti per affrontarla. Si ritrovava a chiedersi se la sua vita fosse degna di essere vissuta. Se mai lo fosse. Sospettava che alla stessa domanda, prima o poi, dovessero rispondere tutti gli uomini”. E già un uomo che si pone questa domanda, merita la mia attenzione. Figlio di contadini, la vita privata di Stoner appare alquanto disastrosa: è quasi estraneo ai suoi genitori che sono rimasti da soli a lavorare la terra in una piccola fattoria vicino a Booneville, anche se questa perdita accresce l’amore che nutre per loro; è miseramente sposato con una donna che non lo ama ed ha una figlia con cui non riesce ad instaurare un rapporto sereno. Non ha grandi ambizioni, non ha veri amici, frequenta poche persone, non si aspetta nulla dalla vita, se non di svolgere il suo lavoro di professore universitario con entusiasmo e con un forte senso di responsabilità. Essenzialmente è un uomo paziente, di grande umanità, buono e remissivo che subisce gli eventi della vita e della storia senza reagire e non riesce a stabilire un rapporto appagante con nessuno. Ha una breve e intensa storia passionale con una sua studentessa, che non riuscirà a cambiare in meglio il suo tran-tran quotidiano. Coltiva, però, la sua grande passione della vita: “l’amore per la letteratura, per il linguaggio, per il mistero della mente e del cuore che si rivelano in quella minuta, strana e imprevedibile combinazione di lettere e parole, di neri e gelidi caratteri stampati sulla carta, l’amore che aveva sempre nascosto come se fosse illecito e pericoloso…”.. Questa, in estrema sintesi, la trama del libro che stroncherebbe le velleità letterarie a chiunque decidesse di scrivere un romanzo su un uomo, tutto sommato comune e banale, come Stoner. Ma non a John Williams - scrittore statunitense morto una trentina di anni fa – che ne fa un capolavoro della letteratura. Un libro cult. Ha scritto Niccolò Ammaniti che John Williams è uno di quegli scrittori che non puoi fare a meno di consigliare, perché hai la certezza che farai felice il tuo prossimo. Io devo ringraziare Sari: ne ha parlato nel suo blog Voce di vento  e me l’ha consigliato. E' come se mi avesse presentato un suo caro amico che, immediatamente, è diventato anche il mio. "Stoner" è un libro di una bellezza struggente e disarmante, con un finale molto commovente. Io credo che nessuno, meglio di John Williams, abbia saputo descrivere - con parole di rara delicatezza - l’attesa della morte e l’addio alla vita di questo eroe della normalità. Mi viene da pensare, dopo averlo letto, che se ha avuto così tanto successo tra i lettori è perché un po’ di Stoner sta in ognuno di noi.


giovedì 10 ottobre 2024

Quell'antico frantoio

 


Diceva Schopenhauer che noi crediamo, talvolta, di avere nostalgia di un luogo lontano, mentre a rigore abbiamo soltanto nostalgia del tempo vissuto in quel luogo, quando eravamo più giovani. Così il tempo ci inganna sotto la maschera dello spazio. E se andiamo in quel luogo, ci accorgiamo dell’inganno.

Quando io ritorno nel mio paese nativo, nel Cilento – da cui sono andato via quando avevo poco più di vent’anni – cerco, ma non trovo, il luogo della mia infanzia e della mia spensieratezza. Resta solo la “nostalgia del tempo vissuto in quel luogo”, e ogni volta sono insidiato da una lieve malinconia dovuta al “tacito infinito andar del tempo” (parole di Leopardi) che rimanda al declino delle cose e mi fa pensare che tutto è destinato a finire.

Come quell’antico frantoio – ù trappìto, per noi del paese - che non esiste più, dove le olive venivano frante da due enormi ruote di granito (dette molazze), azionate da un motore elettrico all’interno di una grande vasca di acciaio. Luogo di lavoro, di sacrifici, di memorie, ma anche ritrovo per noi ragazzi di paese - nei lunghi e piovosi pomeriggi invernali, quando i compiti scolastici potevano anche aspettare - quel frantoio si carica di valori inestimabili, legati alla terra, alla produzione dell’olio d’oliva, alle tradizioni contadine e al senso quasi religioso del lavoro.

Lo sento ancora nelle narici quel flusso di aria calda e quell’odore forte e pungente di olio che mi investivano appena entravo nel frantoio. In un angolo c’era una grande stufa di ghisa sempre accesa, alimentata con la sansa, si chiama così il residuo secco della spremitura delle olive. Mi piaceva stare seduto lì, su una panca in un cantuccio, ad osservare il via vai dei clienti e dei curiosi che entravano, anche solo per stare un pò al caldo o per fare due chiacchiere, gustando una bruschetta con l’olio nuovo. Mi lasciavano tranquillamente scorrazzare e curiosare attraverso i locali adibiti alla lavorazione (oggi sarebbe una cosa impensabile), e ricordo che non mi stancavo mai di osservare quelle due gigantesche macine che giravano e giravano, schiacciando le olive. Fino ad ottenere una morbida pasta che poi veniva spalmata su dei dischi di corda (i fiscoli), impilati uno sull’altro su una pressa idraulica. Da quella pressatura usciva, poi, un liquido scuro che veniva convogliato in una vasca e ulteriormente lavorato da una centrifuga (il separatore) con la funzione, appunto, di separare l’olio dall’acqua. Rimanevo affascinato da quella ritualità artigianale, da quel movimento operoso di macchine e di uomini, dalla gestualità degli operai e dal linguaggio che gli stessi usavano. Ricordo ancora l’anziano signore addetto al separatore, lo chiamavano Don Antonio: era il padrone del frantoio, un uomo alto e asciutto, con i capelli bianchissimi che incuteva timore. Era il primo ad assaggiare l’olio nuovo con un dito, e poi ci chiamava a raccolta, sorridendo, per farlo assaporare anche a noi su una fetta di pane. Eravamo felici di partecipare a quel rito. Di stare lì, in quel luogo, che assicurava una sorta di familiare protezione E ancora più felice appariva lui, il capo del frantoio: Don Antonio, che dirigeva questa sua creatura a gesti, senza parlare, come un maestro d’orchestra. Quel colore verde intenso dell’olio appena spremuto, quel profumo inebriante, quel sapore asprigno, tutte quelle sensazioni mi sono rimaste impresse nella mente. E mi sento un privilegiato per aver  vissuto certe esperienze formative, precluse ai ragazzi di oggi che abitano in città.



Come ogni anno, di questi tempi, ritorno al paese per la raccolta delle olive. La mia grande passione. Ho ereditato da mio padre un piccolo terreno agricolo situato in collina, con diversi ulivi secolari ed altri più giovani piantati dal sottoscritto, oltre trent’anni fa. Il raccolto lo trasporto - ogni due/tre giorni - nel piccolo frantoio non lontano dalla mia campagna. E’ un impianto moderno che usa macchine molto sofisticate con frangitori a dischi rotanti, a controllo elettronico: niente a che vedere con le macine in pietra…i fiscoli…la pressa idraulica. Anche il frantoio ha subito, in questi ultimi anni, un processo di trasformazione non dissimile da tutti gli altri contesti produttivi. Nuove macchine che consentono la lavorazione di una maggiore quantità di olive, limitando l’esposizione delle stesse agli agenti atmosferici e preservandone le proprietà organolettiche, per una migliore qualità dell’olio prodotto. Nel frantoio non ci sono più ragazzini spensierati che girano tra i locali, manca la stufa accesa con la sansa, non ci sono i “perdigiorno” per fare quattro chiacchiere e assaggiare l’olio nuovo sulla bruschetta. Tutto funziona alla perfezione, i locali sono quasi asettici, rispetto a quelli di antica memoria, le lavorazioni sono tutte meccanizzate. Al posto del vecchio frantoiano alla Don Antonio, c’è un giovane imprenditore che ha studiato scienze agrarie ed alimentari e manovra le sue macchine con un computer. Il suo compito è quello di ottenere il migliore olio possibile, nel rispetto del territorio e delle tradizioni: e devo dire che ci riesce molto bene. L’evoluzione della tecnologia ha portato migliori condizioni di lavoro anche in questo settore, ed una qualità superiore del prodotto finale, questo nessuno lo mette in dubbio. Ma resta intatto il fascino per quei vecchi frantoi di una volta, custodi e  testimoni di antichi saperi che ci permettono, ancora oggi, di rivivere le tradizioni rurali dei nostri antenati.


venerdì 27 settembre 2024

In tutto c'è stata bellezza

 


Arrivo quasi sempre in largo anticipo alla Stazione Termini di Roma, quando devo prendere il treno. Ne approfitto, allora, per entrare da Borri, una tra le più grandi librerie della Capitale, situata al centro dell’atrio della stazione. Un rito irrinunciabile. Devo dire che ne esco sempre con un nuovo libro, anche se la mia intenzione – ogni volta - è solo quella di curiosare. Ma non si può entrare in acqua senza bagnarsi. E così l’altro giorno, mentre gironzolavo tra gli scaffali in attesa della partenza del mio treno, mi sono imbattuto in una copertina giallo-arancione, con un titolo poetico e seducente: “In tutto c’è stata bellezza”, di un autore a me sconosciuto: Manuel Vilas. Sulla copertina, le parole di un altro scrittore, Javier Cercas, recitavano: “un libro magnifico, coraggioso e struggente”. L’ho subito sfogliato, e ho letto questo straordinario incipit che ha fatto volare la mia immaginazione: “Magari si potesse misurare il dolore umano con numeri chiari e non con parole incerte. Magari ci fosse un modo di sapere quanto abbiamo sofferto, e il dolore fosse materiale e misurabile. Un giorno o l’altro ogni uomo finisce per affrontare l’inconsistenza del suo passaggio nel mondo. Ci sono esseri umani che riescono a sopportarlo, io non lo sopporterò mai”. Sono bastate queste parole per capire che avrei continuato la lettura sul treno.

A volte un libro non sai come classificarlo: romanzo o saggio, diario o autobiografia. Poi, man mano che scorri le pagine, ti accorgi che il suo fascino risiede proprio in questa molteplicità di forme letterarie, in questa sua complessità narrativa. “Ci farebbe bene scrivere delle nostre famiglie – scrive Manuel Vilas – senza nessuna finzione, senza romanzare. Solo raccontando ciò che è successo, o ciò che crediamo sia successo”.  E lo scrittore spagnolo lo fa in maniera intima, poetica, struggente, cruda, raccontando la sua vita e il suo straripante amore per i genitori: Bach, suo padre e Wagner, sua madre. Si, perché lui battezza i personaggi che incontriamo nel libro (in primis i suoi genitori) con i nomi dei grandi musicisti. “Quattrocento pagine di affondo in mezzo secolo di vita personale, di corpo a corpo con i fantasmi dei genitori”, così scrive Paolo di Paolo sulla prima pagina del libro.

“Non so se i miei due figli mi ameranno quanto io ho amato i miei genitori”, dice l’autore. E quando parla dei suoi genitori che non ci sono più, quel padre e quella madre sembrano tornare alla vita. Vilas esplora le sue debolezze, i suoi rimpianti, i ricordi di una vita e li offre al lettore affinché possa fare altrettanto con le proprie vicende familiari. “In tutto c’è stata bellezza” è il romanzo di una storia personale che diventa universale, perchè tratta temi universali, come l’amore, la morte, il trascorrere del tempo, la famiglia, la fragilità umana, le sconfitte della vita, la gioia e il dolore e la solitudine. Il racconto rincorre i capricci della memoria e procede a frammenti; è una narrazione sincera, malinconica, dolce e amara nello stesso tempo. L’autore si sofferma sui legami affettivi, che lo sostengono anche quando sembrano apparentemente affievoliti, e ritrova quelle tracce di vita vissuta che i morti lasciano inevitabilmente ai vivi. “Quando tu riesci a comprendere il tuo passato – sostiene Vilas – quando tu riesci a comprenderne l’umanità, allora nasce la Bellezza, una bellezza morale e spirituale”. Questa sembra essere la chiave di lettura del romanzo: il passato in cui sei vissuto, che ti ha modellato e ti ha reso quello che sei risorge quando lo menzioni. Non va via, ritorna con i ricordi di chi non c’è più, restituisce quella bellezza quasi impercettibile di “quando la vita andava più lentamente e potevi vederla. Le estati erano eterne, i pomeriggi erano infiniti, e i fiumi non erano inquinati…Era il paradiso. E’ stato il mio paradiso. Sono stati loro il mio paradiso, mio padre e mia madre, quanto li ho amati, come siamo stati felici e come siamo crollati. Com’è stata bella la nostra vita insieme, e ora tutto si è perduto. E sembra impossibile”. E questa storia inizia da un paese della Spagna, Barbastro, dove l’autore del libro è nato e cresciuto e dove matura questo rapporto di amore nei confronti dei genitori, un rapporto rivisto al presente. Un padre che parlava poco, “un artista del silenzio” che “non m’insegnò a volergli bene…e non mi ha mai detto che mi voleva bene”, un padre con cui non si era mai abbracciato perché “non avevamo creato quella tradizione. Non avevamo forgiato quel rituale”. E poi, la madre, “una donna-dramma” che morì mentre dormiva, da cui aveva ereditato “il caos narrativo”. Erano diversi dagli altri, i suoi genitori, ma è proprio in quella diversità che risiede la bellezza. E l’amore. “Ciò che mi univa a mia madre – confessa - era e continua ad essere un mistero che forse riuscirò a decifrare un secondo prima della mia morte”.


domenica 15 settembre 2024

Torniamo a zappare la terra!

 


“Vai a zappare”: lo si diceva, un tempo, a chi non aveva molta voglia di studiare. Un modo di dire, questo, per ribadire che se non sei portato per la “cultura” puoi dedicarti solo alla “coltura” e quindi alla terra. Un’attività quasi da disprezzare, adatta solo  alle persone rozze e dotate di poca intelligenza. Devo dire che io sono di diverso avviso. Ho sempre visto  il zappatore (di leopardiana memoria), come una figura di tutto rispetto; ho sempre considerato nobile il lavoro del contadino che nasce con la comparsa stessa dell’uomo sulla terra. D’altra parte, prima ancora che diventassimo falegnami o muratori, medici o avvocati,  impiegati o manager, siamo stati zappatori della terra da cui ha origine tutto il necessario per la nostra sussistenza. Mi diceva sempre la buon’anima di mio nonno: ricordati che tutto viene dalla terra.

Pare che oggigiorno l’accostamento  “ignorante uguale zappatore” sia stato definitivamente superato tant’è che Carlo Petrini, il fondatore del movimento “Slow Food”, ha detto che “l’era del  “vai a zappare”  per chi non è portato per studiare è finita da un pezzo. Oggi a zappare ci vanno quelli che studiando hanno capito che è a partire dal cibo che si cambia il mondo, e si migliora l’ambiente, la salute, la qualità della vita di tutti”. Fino a qualche anno fa, probabilmente, nessuno si sarebbe mai aspettato una simile rivalutazione di quello che era considerato il lavoro più umile e dequalificante; nessuno avrebbe scommesso sull’agricoltura contadina, protagonista di un processo di ritorno alla terra per migliorare la qualità della vita.

Come sostiene anche il professor Serge Latouche, uno dei principali fautori della “decrescita felice”, bisogna rivedere l’uso del territorio, come bene comune da preservare, elemento centrale di tutta la cultura umana; bisogna togliere la terra all’agricoltura intensiva, alla speculazione fondiaria, all’impatto inquinante dell’asfalto e del cemento per darla all’agricoltura contadina, biologica, rispettosa degli ecosistemi; bisogna rendersi conto che una crescita infinita, su cui si fonda sempre di più la nostra società, è incompatibile con un pianeta finito, fatto di risorse destinate ad esaurirsi con il tempo. Il pianeta che noi abitiamo non ci basta più e per poter continuare a tenere lo stesso tenore di vita, ne occorrerebbero molti di più. Per assicurare il benessere all’insieme dell’umanità, la Banca mondiale ha calcolato che nel 2050, la produzione di ricchezza dovrebbe essere quattro volte superiore a quella attuale. Ma come è possibile pensare che si possa produrre all’infinito?

E’ necessario, allora, che nella nostra società i valori di riferimento ed i comportamenti delle persone vengano rivisti e magari sostituiti con altri più opportuni: quindi basta con la competizione sfrenata,  consumare prodotti locali anziché d’importazione, sostituire la produzione industriale con la biologica. E’ necessaria una vera e propria rivoluzione culturale; è fondamentale abbandonare l’idea secondo cui l’unico scopo della vita è quello di produrre e consumare sempre di più. C’è da dire che già si avvertono dei piccoli segnali che fanno ben sperare; in particolare, si sta diffondendo un modo di coltivare la terra sempre più vicino a quello tradizionale, che veniva adottato dai nostri nonni, che zappavano la terra. Il modello agroindustriale che utilizza dosi massicce di diserbanti è sotto accusa perchè danneggia la qualità e la bontà del cibo che arriva sulle nostre tavole. Oggi, chi ha la possibilità, abbandona la città per vivere in campagna e dedicarsi alla coltivazione del proprio orticello con sistemi naturali. Si sta tornando a quegli antichi metodi di conservazione delle sementi che si tramandavano i nostri nonni, al fine di custodire prodotti e conoscenze altrimenti destinati a scomparire. Sempre più spesso si incontrano, nei mercatini rionali, piccoli imprenditori agricoli che cercano di contrastare la grande distribuzione, con prodotti a km 0. Nelle grandi città sorgono i cosiddetti “orti urbani”: piccoli fazzoletti di terra che vengono affidati ai cittadini, a titolo gratuito, ed utilizzati per la coltivazione ortofrutticola. E’ un'iniziativa efficace per salvaguardare il territorio comunale dal degrado, e consentire ai beneficiari di riscoprire quell’antico e nobile piacere di vedere crescere, e poi gustare, frutta e verdura prodotta con le proprie mani. O meglio con la propria zappa.


giovedì 5 settembre 2024

Il Gattopardo: tra scrittura e immagini


 

Sappiamo tutto del romanzo “Il Gattopardo”, un libro tradotto in tutto il mondo. Conosciamo la storia, i personaggi, le ambientazioni rese celebri dal suo autore, Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Egli prende lo spunto dalle vicende storiche di un suo antenato appartenente alla nobiltà decadente siciliana, dal momento del trapasso del Regno delle due Sicilie all’Unità d’Italia. In realtà, dietro questa storia romanzata si celano le malinconie dello scrittore siciliano, la sua solitudine ed il suo amore per un mondo perduto, quello dell’aristocrazia siciliana di cui faceva parte. E tra le righe, si cela anche la nostalgia della sua infanzia vissuta nel grande palazzo della vecchia Palermo, in via Lampedusa, n. 17, con i suoi tre cortili, le sue quattro terrazze, il suo giardino, le sue scale immense, i suoi anditi, i suoi corridoi, le sue scuderie, i suoi piccoli ammezzati per le persone di servizio e per l'amministrazione, un vero e proprio regno per un ragazzo solo, un regno vuoto o talvolta popolato da figure tutte affettuose”, come ebbe a scrivere nei suoi “Ricordi d’infanzia”.

Ad aumentare la fama di questo libro, come se da solo non bastasse, ci pensò Luchino Visconti, negli anni sessanta, con la sua memorabile trasposizione cinematografica e un cast fantastico di artisti: basti pensare a Burt Lancaster, Alain Delon e Claudia Cardinale, tanto per fare solo tre nomi. Ho rivisto il film mandato in onda recentemente dalla RAI, per ricordare la scomparsa di Alain Delon. Non potevo non rileggere il romanzo – e per la terza volta…e non sarà l’ultima – che io considero tra i più grandi capolavori della nostra letteratura.

Lo confesso: ogni volta – che io veda il film o legga il libro - resto affascinato dal suo decadente protagonista, quel Fabrizio Corbera, Principe di Salina, uscito dalla penna del grande scrittore siciliano, a cui Visconti ha dato il volto di Burt Lancaster  “il più incredibile perfetto vecchio siciliano mai interpretato da un non siciliano”, come ha scritto Enzo Rasi in un suo recente bellissimo postUn personaggio che “stava a contemplare la rovina del proprio ceto e del proprio patrimonio – si legge nel libro - senza avere nessuna attività ed ancora minor voglia di porvi riparo”. Un uomo colto, con una propensione alla scienza e all’astronomia, dal fisico possente e dal temperamento autoritario, particolari, questi, che “nell’habitat molliccio della società palermitana si erano mutati in prepotenza capricciosa, perpetui scrupoli morali e disprezzo per i suoi parenti e amici che gli sembrava andassero alla deriva nel lento fiume pragmatistico siciliano”



Dei suoi sette figli avuti da una donna bigotta e isterica, la principessa Maria Stella – interpretata nel film da una straordinaria Rina Morelli – Don Fabrizio amava in maniera particolare Concetta: “di lei gli piaceva la perpetua sottomissione, la placidità con la quale si piegava ad ogni esosa manifestazione della volontà paterna”. Ma amava ancor di più quel “ragazzaccio” di Tancredi, suo nipote e pupillo, dal temperamento frivolo, che considerava il suo vero figlio primogenito, anche se remava contro la nobiltà dominante: diceva che “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. E, nel film di Visconti, nessun altro attore avrebbe potuto interpretare questo personaggio meglio di Alain Delon. E come si può non apprezzare l’interpretazione di un altro grande attore: Paolo Stoppa, il Don Calogero Sedàra, Sindaco di Donnafugata, uomo ricco e influente, sicuro di essere inviato deputato a Torino in occasione delle elezioni. “Egli procedeva nella foresta della vita con la sicurezza di un elefante che, svellendo alberi e calpestando tane avanza in linea retta non avvertendo neppure i graffi delle spine e i guaiti dei sopraffatti”. E poi c’è lei, sua figlia, la bellissima Angelica che poneva in ombra la grazia contegnosa di Concetta, una sua rivale nel conquistare il bel Tancredi. Mi viene da pensare che dove non arrivano le parole (non è cosa semplice, per nessuno, descrivere la bellezza), subentrano le immagini del film di Visconti che ci permettono di ammirare una splendida Claudia Cardinale nei panni di Angelica. E’ l’esempio in cui le immagini parlano più delle parole; è pur vero, però, che a volte la potenza della scrittura va oltre l’immagine, che da sola non sempre basta a raccontare ciò che viene mostrato. Allora, ecco che interviene lo scrittore per dirci che  “accanto al fabbricato un pozzo profondo, vigilato da quei tali eucaliptus, offriva muto i vari servizi dei quali era capace: sapeva far da piscina, da abbeveratoio, da carcere, da cimitero. Dissetava, propagava il tifo, custodiva cristiani sequestrati, occultava carogne di bestie e di uomini sinché si riducessero a levigati scheletri anonimi”. Se non leggessimo il libro, nel film vedremmo solo un pozzo con dell’acqua. Bisogna leggere prima il libro per guardare meglio il film.

L’armonia della scrittura di Tomasi di Lampedusa, il suo stile ricercato, le magnifiche descrizioni dello stato d’animo dei suoi personaggi nonché dei luoghi in cui gli stessi si muovono, unitamente alle immagini del film di Visconti ed alla straordinaria interpretazione degli attori, generano sensazioni e atmosfere indimenticabili, che mi si affollano ogni volta nella mente. Due capolavori che si completano vicendevolmente in una sintonia perfetta. Sembra quasi che l’autore del libro e il regista del film si siano incontrati, da qualche parte, per creare insieme due capolavori che si fondono in uno solo.


lunedì 19 agosto 2024

La spiaggia

 


“Tutti gli anni sono stupidi. E’ una volta passati che diventano interessanti”

Ritrovarsi a rileggere un vecchio libro con la copertina ingiallita dal tempo, che hai letto la prima volta ai tempi del liceo, è come rivedere un caro compagno di quegli anni scolastici perso di vista ma mai dimenticato. Stenti a riconoscerlo al primo contatto, poi a poco a poco affiorano i ricordi.

Erano questi i pensieri che mi passavano per la mente mentre sfogliavo le pagine del romanzo di Cesare Pavese “La spiaggia”. E dove potevo meglio apprezzare questa rilettura se non in spiaggia sotto l’ombrellone? Mi trovavo a Tropea, al cospetto di un mare cristallino di rara bellezza. Come ogni anno, prima di raggiungere il mare del Cilento – il mio mare - amo trascorrere qualche giorno di vacanza lontano dai miei posti abituali. Ed è una vacanza al mare anche quella vissuta dal protagonista del libro – voce narrante e alter ego dello scrittore piemontese – che racconta, ora in veste di protagonista disincantato e ora di commentatore appassionato, le vicende di un suo amico di vecchia data e della sua giovane moglie rincontrati per caso, che lo invitano a passare le vacanze estive con loro sulla Riviera ligure. Intorno a questo terzetto si muovono altri personaggi che danno corpo alle tematiche esistenziali care a Pavese, mentre la vita della spiaggia scorre lenta e monotona tra chiacchiere leggere e pettegolezzi, tenere brighe sentimentali, cene in trattoria, turbamenti e pensieri bizzarri che solo la spensieratezza della vita di mare favorisce. Per questi personaggi “l’ora più bella era il mezzodì passato o il tramonto, quando il tepore o il colore dell’acqua inducevano i più restii  a bagnarsi o a passeggiare per la spiaggia, e si restava quasi soli….” E nei silenzi che seguivano, racconta la voce narrante,  amavano ascoltare “lo sciaguattare del fiotto tra i sassi”. Per me l’ora più bella è la mattina presto, quando la spiaggia è deserta e non brulica di corpi arrostiti dal sole: a quell’ora la spiaggia offre un’esperienza sensoriale quasi mistica per i suoi profumi intensi, i suoi colori cangianti, la sua aria frizzante, il suo silenzio rotto solo dal rumore rilassante delle onde che si infrangono sulla riva. Sono i momenti più belli, da godere in solitaria contemplazione, prima che la spiaggia si svegli e si animi, e arrivino gli animatori con i loro giochi, con le corse sul bagnasciuga, l’acquagym a ritmo di tormentoni musicali a tutto volume, le partite a bocce a freccette a tennis a scopone…



giovedì 25 luglio 2024

Uomini e cani

 


Sono nel parco vicino casa per la mia passeggiata mattutina. E’ un luogo, questo, frequentato soprattutto da due categorie di persone: quelle di una certa età – come lo scrivente – che si illudono di mantenere in forma un fisico bastonato dagli anni, facendo footing, e quelle che accompagnano il cane ad espletare i propri bisogni fisiologici (ne so qualcosa, perché ogni tanto ritorno a casa con una sorpresa, poco gradita, sotto le scarpe).

All’improvviso il silenzio del parco è rotto da un urlo disperato, poco distante: "Nooooo! Nooooo!" Non sapendo cosa stesse succedendo, mi giro spaventato e vedo un signore, sui cinquant’anni, che corre in preda allo sconforto verso il suo cane che si sta rotolando a pancia in su, beatamente, nella terra sollevando una fitta coltre di polvere. Nooo! - continua a urlare - “fermati!”. Lo raggiunge e comincia a schiaffeggiarlo urlando come un ossesso queste testuali parole: “sei proprio una stronzaaa!” (capisco che è una femmina). La povera bestia stava solo facendo il cane all’insaputa del padrone e, forse, aveva dimenticato che prima di uscire di casa il suo amato padrone le aveva fatto il bagnetto. O forse era fresca di toelettatura al costo di 50 euro a seduta: il mio barbiere se ne prende 16 per shampoo e capelli (povero me, valgo meno di un cane). E ora che faceva quella “stronza”? Si sporcava tutta. Si strofinava nella polvere senza chiedere il permesso al padre-padrone.

In quali mani sono capitati questi poveri animali da compagnia! Devono sopportare tutte le bizze dei loro padroni che li vogliono, a tutti i costi, umanizzare. Li senti chiamare con i nomi propri di persona, e poi “amore”…”bello di mamma”. Li vedi, nei mesi invernali, che se ne vanno in giro al guinzaglio con il cappottino, al mare con gli occhiali da sole e il cappellino, li scorgi mentre fanno capolino dal marsupio come dei lattanti, nel passeggino con l’osso finto, li osservi mentre corrono avanti e indietro, fino allo sfinimento, per raccogliere la pallina e sollazzare il suo padrone. Per fortuna nel mondo animale non esiste ancora l’idea del suicidio…qualcuno potrebbe farla finita.


sabato 20 luglio 2024

Si scrive...e si legge troppo

 


Io credo che ogni libro sia alla ricerca del suo lettore. E si rivolga a lui in quanto latore di bisogni che può soddisfare leggendo proprio quel libro. E’ una sorta di attrazione reciproca. Non esiste un libro buono per tutti i gusti. Certo, ci saranno pure delle eccezioni, come in tutte le cose della vita. Si può anche amare lo stesso libro, ma le emozioni e gli stimoli che se ne ottengono saranno sicuramente diversi a seconda del lettore. Per questo motivo io credo che sia molto difficile regalare o consigliare un libro da leggere se non si conosce molto bene la persona cui è diretto. Diciamocelo: il lettore cerca sempre se stesso tra le pagine di un libro. D’altra parte, costringersi a leggere un best seller (solo perché è il libro più venduto del momento) o un capolavoro della letteratura universale, solo perché ci si vergogna di non averlo ancora letto, è un errore da non commettere. Un’opera letteraria che viene da tutti celebrata e che ti sforzi di leggere senza riuscirci, non può essere domata con la forza della volontà: meglio lasciar perdere. Ognuno cerchi le letture nel campo dove sono attecchiti i semi del proprio sentire e continui con gli autori che gli sono piaciuti. E, partendo da lì, vada pure alla ricerca di emozioni simili, più congeniali al proprio modo di essere e di pensare. E lasci perdere le mode del momento che esistono anche nel mondo della letteratura.

Ciò che conta non è la quantità dei libri letti. Non lasciamoci intimidire da quelli che divorano un libro al giorno. La lettura, quella vera, è fatta di lentezza, di passione, di sostanza, di riflessione. Leggere non è correre incessantemente da un libro all’altro. Ci sono alcuni che in tutta la loro vita hanno letto solo una ventina di libri – e continuano a rileggerli – eppure si considerano lettori soddisfatti perché in quei pochi testi hanno trovato il mondo. A volte mi viene da pensare che il lettore onnivoro, quello che campa perché legge, sia un eterno insoddisfatto: cerca ma non trova. O trova, ma non gli basta. E c’è invece chi ha letto solo la Bibbia o il Corano o Le mille e una notte o i Promessi Sposi o Le avventure di Pinocchio e non ha bisogno di leggere nient’altro perché ha già letto tutto. Ed è un lettore felice.

In un delizioso libriccino che si intitola “Una biblioteca della letteratura universale” Hermann Hesse osa affermare, addirittura, che “si legge troppo, e che questo gran leggere non fa affatto onore, ma torto, alla letteratura”. I libri non esistono per fornire agli uomini un surrogato di vita, ma al contrario “hanno valore soltanto se guidano alla vita, se sanno servirla e giovarle … e nulla è più sbagliato del leggere per distrarsi”.

La vita è breve – dice Hesse – e a nessuno verrà chiesto nell’aldilà quanti libri è riuscito a leggere seriamente e fino in fondo. Perciò meglio non sprecare il proprio tempo in letture inutili. Da ogni lettura bisogna attendersi qualcosa, come da ogni passo della vita. “Leggere spensieratamente e distrattamente – scrive Hermann Hesse - è come andare a spasso in un bel paesaggio con gli occhi bendati. Né dobbiamo leggere  per dimenticare noi stessi e la nostra vita quotidiana, ma al contrario perché ci sia possibile riprendere in mano con maggior consapevolezza, fermezza e maturità la nostra esistenza… non da fuggitivi e disamorati della vita ma da volenterosi che cercano amici capai di aiutarli. Se così fosse e avvenisse, non si leggerebbe molto più della decima parte di quanto oggi vien letto, e tutti saremmo dieci volte più lieti e più ricchi. E se ciò comportasse che i nostri libri non venissero più venduti, e se comportasse altresì che noi autori scrivessimo dieci volte di meno, questo non sarebbe affatto un guaio per il mondo. Poiché, come è evidente, le cose non stanno meglio per quanto concerne lo scrivere che per il leggere”.


giovedì 4 luglio 2024

Ninna nanna della guerra

 


Solo un grande poeta come Trilussa poteva denunciare l’insensatezza e l’ipocrisia e la nefandezza e l’atrocità della guerra - di tutte le guerre - con una ninna nanna dedicata a un bambino. La sua satira dolce amara, in dialetto romanesco, è un atto di accusa, quanto mai attuale, rivolto ai potenti della terra.

Ninna nanna, nanna ninna,
er pupetto vò la zinna:
dormi, dormi, cocco bello,
sennò chiamo Farfarello
Farfarello e Gujermone
che se mette a pecorone,
Gujermone e Ceccopeppe
che se regge co le zeppe,
co le zeppe d’un impero
mezzo giallo e mezzo nero.

Ninna nanna, pija sonno
ché se dormi nun vedrai
tante infamie e tanti guai
che succedeno ner monno
fra le spade e li fucili de li popoli civili...

Ninna nanna, tu nun senti
li sospiri e li lamenti
de la gente che se scanna
per un matto che commanna;
che se scanna e che s’ammazza
a vantaggio de la razza...

O a vantaggio d’una fede
per un Dio che nun se vede,
ma che serve da riparo
ar Sovrano macellaro.

Ché quer covo d’assassini
che c’insanguina la terra
sa benone che la guerra
è un gran giro de quatrini
che prepara le risorse
pe’ li ladri de le Borse.

Fa’ la ninna, cocco bello,
finché dura ’sto macello:
fa’ la ninna, ché domani
rivedremo li sovrani
che se scambieno la stima
boni amichi come prima.

So cuggini e fra parenti
nun se fanno comprimenti:
torneranno più cordiali
li rapporti personali.

E riuniti fra de loro
senza l’ombra d’un rimorso,
ce faranno un ber discorso
su la Pace e sul Lavoro
pe quer popolo cojone
risparmiato dar cannone!


Trilussa


domenica 23 giugno 2024

Tecnica e Umanesimo

 


La mia forma mentis ha una configurazione prevalentemente umanistica, ma per il mondo di oggi è antiquata perché fatica a stare dietro al cambiamento tecnologico globalizzato e prevaricatore. Non riesce ad adeguarsi - la mia mente - alla velocizzazione del tempo con cui il mondo procede in questa sua corsa inarrestabile e folle verso non si sa dove. Lo stesso modello umanistico-esistenziale della società, che ha resistito fino ad oggi a tutti i cambiamenti della storia, sembra sia venuto meno: l’uomo non è più al centro dell’universo, è diventato quasi superfluo, per quanto ciò possa apparire assurdo. Altri soggetti hanno preso, o stanno per prendere il suo posto: i robot, gli algoritmi, i social, la rete, l’intelligenza artificiale. E se questo è il mondo che sta fuori di me e confligge con quello dentro di me, devo dire che - pur appartenendo fisicamente a questo mondo -  ne sono fuori mentalmente. Per formazione culturale, per convinzione, per filosofia di vita.

La tecnica, da utile strumento nelle mani dell’uomo, è diventata un soggetto autonomo che sfugge al suo controllo e lo domina. E rimuovendo quelle dimensioni irrazionali che sono alla base stessa dell’esistenza, quali l’immaginazione, il sogno, la riflessione, i sentimenti, la sacralità delle cose, rende indispensabili solo la velocità, l’efficienza, la produttività. E mira esclusivamente al suo auto potenziamento infinito. Ha preso il sopravvento - la tecnica - su tutte le altre attività nel determinare le aspettative dell’umanità; ha stravolto radicalmente pensieri e abitudini - a livello planetario - come nessuno aveva saputo fare prima attraverso due strumenti straordinari che, gestiti male, possono fare danni gravissimi: i cellulari e la rete. Strumenti che hanno mutato – in tempi brevissimi - tutte le regole della convivenza civile, della moralità, del linguaggio, dei comportamenti, della comunicazione. E noi, da utilizzatori della tecnica quali eravamo fino a poco tempo fa, siamo ora concretamente utilizzati dalla stessa. Ci illudiamo di gestirla ma, in realtà, ne siamo fortemente gestiti e guidati.

Mi sento disarmato, lo confesso, di fronte alla pervasiva sopraffazione del presente e agli imperativi imposti dalla tecnica. A volte mi viene da pensare – come estrema via di salvezza – a un luogo monastico, e invocare un Dio sconosciuto che possa favorire uno sviluppo sostenibile ad una crescita senza fine, il silenzio al rumore assordante delle macchine e delle parole, la lentezza alla velocità, la riflessione al vocalizzo mediatico privo di senso; che possa finalmente far tacere quei persuasori occulti che creano bisogni e vogliono insegnarti a vivere secondo i loro canoni devianti, secondo le loro mode di stagione. A volte sarebbe meglio non vedere, non sentire, non parlare, essere come gli animali che, forse, sono molto più felici di noi perché vedono solo ciò che detta loro l’istinto. Nell’era dei media elettronici e digitali, non esiste più un luogo sulla terra per sottrarsi alla condizione di essere sempre informati. O meglio, disinformati. E inseguiti dalla pubblicità che martella il cervello ovunque ti trovi.

Il progresso non ha migliorato l’uomo nella sua essenza più nobile: il pensiero. Ne ha solo modificato fortemente i comportamenti e il modo di comunicare. E’ triste pensare che io possa desiderare un contatto immediato con uno sconosciuto che sta in un paese dell’Oceania e ignorare, invece, il vicino seduto di fronte a me nello scompartimento di un treno. La tecnica inaridisce l’uomo, lo allontana dalla realtà e dal presente, non gli permette di chiedersi più nulla, modifica il suo modo di pensare (in attesa dell’intelligenza artificiale che penserà per lui), gli porge i suoi strumenti sempre più potenti che in qualche maniera gli facilitano la vita materiale, ma non lo aiutano a trovare il senso vero dell’esistenza. Ebbene, se questo è il migliore dei mondi possibili, bisogna allora chiedersi se non sia arrivato il momento di “coltivare il proprio giardino”, come sostiene quel famoso personaggio di Voltaire, Candido, che dà il titolo al suo omonimo romanzo filosofico.


sabato 8 giugno 2024

La giornata d'uno scrutatore

 


Una giornata da scrutatore, in una sezione elettorale all’interno di un luogo di sventura come il Cottolengo di Torino, può insegnare qualcosa a un cittadino? E quel cittadino può arrivare alla fine della sua giornata, in qualche maniera, diverso da com’era al mattino? Non sto parlando delle elezioni europee che si stanno svolgendo in queste ore nei vari paesi dell'unione (…hanno poco da insegnare), ma di un romanzo di Italo Calvino che si intitola, appunto, “La giornata d’uno scrutatore”. Ebbene, solo un grande scrittore come Calvino poteva porsi simili domande e raccontarle in una storia (in meno di cento pagine) dove, praticamente, non succede quasi nulla. Solo le riflessioni del protagonista - Amerigo Ormea - un intellettuale comunista (alter ego dello scrittore), che si trova a osservare un mondo fatto di ricoverati infelici senza capacità di intendere, di parlare e di muoversi, ai quali viene imposta questa “finzione di libertà”: esercitare il diritto di voto (siamo nel 1953) accompagnati dai loro assistenti, un prete o una monaca.

Il mondo della bellezza, della sicurezza e della normalità sembra svanire all’orizzonte, di fronte a quel mondo di cittadini sfortunati. E’ un’Italia nascosta che non conta niente, quella che sfila davanti agli occhi del protagonista del libro, che viene però sfruttata per un voto. E’ il rovescio di quell’Italia che si mostra al sole, che cammina per le strade e che pretende e che produce e che consuma…è il Piemonte miserabile che sempre stringe dappresso il Piemonte efficiente e severo. Ma “se il solo mondo al mondo fosse il “Cottolengo”, pensava Amerigo, senza un mondo di fuori che, per esercitare la sua carità, lo sovrasta e schiaccia e umilia, forse anche questo mondo potrebbe diventare una società, iniziare una sua storia…e più la possibilità che il “Cottolengo” fosse l’unico mondo possibile lo sommergeva, più Amerigo si dibatteva per non esserne inghiottito”.

Mi è piaciuto molto questo libro: fa molto riflettere, così diverso dalle tematiche avventuroso-fantastiche dei romanzi più noti di Italo Calvino, il quale ebbe a dire che per scrivere un libro così breve come “La giornata d’uno scrutatore” ci mise ben dieci anni, più di quanto avesse impiegato per ogni altro suo lavoro.


lunedì 27 maggio 2024

Ciao mamma...

 


La morte di un genitore è un dolore profondo con cui ognuno di noi, prima o poi, deve fare i conti. Aveva 96 anni, mia madre: una bella età, non c’è che dire! E’ la conferma che la medicina e il progresso, oggi, hanno aumentato l’aspettativa di vita. Anche se, molto spesso, sembra che abbiano solo prolungato le sofferenze: si fa fatica anche a morire. Quando la vita viene aggredita da certe gravi malattie che alterano irreparabilmente tutte le funzioni del cervello, vengono meno non solo le capacità motorie e comportamentali di una persona, ma anche quelle cognitive e affettive: e la vita, allora, diventa una sofferenza senza fine. Nient’altro. Per chi la subisce e per chi tenta, disperatamente, di dare un sollievo umano e spirituale al proprio familiare.

Negli ultimi tempi mi guardava con occhi malinconici e interrogativi – mia madre – come se volesse dirmi qualcosa di importante e definitivo, senza riuscirci. Forse voleva parlarmi proprio della morte che la seguiva. A volte piangeva, esprimendo così la sua intima sofferenza. E mi stringeva forte la mano, tanto da non volerla più lasciare. Le chiedevo dei suoi due figli. La stimolavo a ricordare il mio nome: ma lei scuoteva la testa, come per dirmi che non ricordava più chi fossi. Una tristezza infinita.

Penso alla vecchiaia: io credo che si cominci a viverla dal momento stesso in cui si va in pensione, quando il tempo vissuto è molto più lungo del tempo da vivere e gli acciacchi sembrano togliere ogni illusione alla gioventù che se n’è andata. “Non mi voglio voltare – recitano i versi di una bella e struggente poesia di Kavafis - ch’io non scorga, in un brivido, come s’allunga presto la tenebrosa riga, come crescono presto le mie candele spente”. Oltre ad essere definita da un dato anagrafico, la vecchiaia si manifesta con un graduale e lento decadimento fisico. E’ inutile nasconderlo: la persona che c’era prima non c’è più. E con la vecchiaia si affaccia una imprevedibile disponibilità a esplorare, senza alcuna schermatura, il mistero dell’esistenza quale momento prezioso da proteggere e preservare gelosamente. Ma è anche il momento in cui l’uomo – forse per la prima volta –  pone la morte al centro della sua vita e dei suoi pensieri. Anche se resta ancora un argomento tabù su cui riversa tutta la sua paura. Ma io credo che quando uno sta male e soffre maledettamente il pensiero della morte lo assale e non lo abbandona.

Non voleva invecchiare, mia madre, me lo ripeteva quando la vita ancora le sorrideva. Stranamente aveva più paura della vecchiaia che della morte. Senza conoscere Epicuro, soleva ripetermi: quando ci siamo noi, la morte non c’è e quando c’è lei noi non ci siamo più. Con la vecchiaia, invece, bisogna convivere forzatamente. E non sempre è una buona convivenza. Devo dire che non si sbagliava.

Lo confesso: non è la morte in sé a terrorizzarmi, tantomeno la vecchiaia, ma le modalità con cui la prima, a volte, si nasconde dietro la seconda. E’ quel ritaglio di vita che ti è concesso e ti porti dietro prima della fine: può essere una piuma o una zavorra, un momento di serenità o di afflizione. “Guardo la mia luce che muore” dice un personaggio di Samuel Beckett: forse la risposta più saggia che si può dare, in vecchiaia, a chi azzarda presuntuosi programmi per il futuro. E ancora più presuntuosi e patetici appaiono quei vecchietti che, di fronte ad una telecamera, fingono di sentirsi giovani pur avendo novant’anni.

Ricordatevi di portarmi sempre un fiore, quando verrete a trovarmi al camposanto: erano le parole di mia madre, quando parlava della sua morte. Forse era un modo per esorcizzarla. Una tomba senza fiori – diceva - mi mette tristezza, e sulla mia non devono mai mancare. E così, l’altro giorno, sono andato a farle visita nel piccolo cimitero del paese, dove riposa in pace; sorge su un crinale che da un lato guarda la campagna declinante verso il mare e dall’altro fronteggia la vallata della diga dell’Alento, circondata da una catena di monti a delimitarne l’orizzonte. Un luogo davvero piacevole, da godere, se non fosse un Camposanto.  Il grande pensatore Giovanni Papini diceva che “i teatri di marionette e i camposanti sono gli unici luoghi dove l’uomo possa prendere acuta coscienza di sé. Nei primi vede cos’è prima della morte, nei secondi quel che sarà dopo la vita”.

Le ho portato i fiori, come desiderava. Mi aggiro tra le fila di lapidi prima di raggiungere il luogo dove è sepolta. Quante belle persone ci sono in  un cimitero, ribadiva mia madre ogni qual volta faceva visita ai suoi cari! In vita, le aveva conosciute tutte quelle persone lì sepolte. Ognuna le ricordava qualcosa. Si fermava davanti ad ogni lapide per formulare una preghiera, un pensiero. Un cenno del capo per salutare ora questo ora quello. Ecco che intravedo, da lontano, il suo loculo sovrastante quello di mio padre, che l’ha preceduta di molti anni. Li raggiungo: saluto e accarezzo entrambi con gli occhi. Mando loro un bacio con la mano. Sono stati insieme per oltre mezzo secolo, sempre fedeli “nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia”, come recita quella famosa formula del rito matrimoniale: ora davanti a loro hanno l’eternità. Chiudo gli occhi in una muta preghiera, come in un esame di coscienza, e non riesco a trattenere una lacrima. E su quei due volti che mi guardano sorridenti dalla foto, ripercorro velocissimamente il racconto della loro esistenza. E della mia.


giovedì 9 maggio 2024

La dittatura dello smartphone

 


Viviamo in un mondo fatto di cose da sostituire il più rapidamente possibile. Qualsiasi prodotto deve avere una durata limitata perché bisogna produrre sempre di più e, quindi, consumare velocemente. E chi non si adegua a questo andazzo è guardato con sospetto. Non puoi più affezionarti a una vecchia giacca, a una vecchia macchina (anche se in perfette condizioni), a un vecchio telefono. Devi per forza cambiare, rincorrere le novità, te lo dice in maniera ossessiva la pubblicità. E ogni pubblicità – scrive Gunther Anders nel suo libro “L’uomo è antiquato” – è un appello alla distruzione. Il filosofo tedesco racconta che negli anni Quaranta del secolo scorso venne a conoscenza del caso di una studentessa – normale sotto tutti i punti di vista – la quale fu costretta a subire un trattamento psicoanalitico perché opponeva resistenza alla madre che voleva comprarle vestiti sempre nuovi, alla moda, di cui non aveva alcun bisogno. Fu classificata “disadattata” e considerata come una “malata” da curare, ma anche come una nemica del mondo dominante. Insomma, una sorta di sabotatrice del modello produttivo.

Ora chi mi legge sa che io oppongo resistenza a chi vuole regalarmi, in ogni occasione,  uno smartphone di cui non ho alcun bisogno: mi basta e avanza quel vecchio telefono di casa, che mi permette di fare o ricevere telefonate (poche, in verità), lontano da occhi e orecchie indiscrete. E se devo collegarmi a Internet, ho un vecchio computer che me lo consente. Mi domando: dovrei preoccuparmi, alla luce di quanto sopra? Appartengo alla categoria dei disadattati perché vivo senza cellulare? Sarei un malato da curare, se venissi sottoposto a un trattamento psicoanalitico? Comunque sia, ho scoperto che c’è sempre un modo per escluderti e fartela pagare in qualche maniera.

Mi trovo in uno di quei negozi sempre affollati di gente, all’interno dei quali lavorano dei ragazzi, giovanissimi ed espertissimi di cose digitali, che conducono trattative di “offerte” telefoniche. Sono lì, in attesa, per cercare di sottoscrivere - su consiglio di mio figlio - un contratto di telefonia economicamente più vantaggioso riguardante, però, il mio apparecchio fisso di casa. Si, proprio quell’oggetto obsoleto che sta per sparire e che un tempo faceva bella mostra di sé sul tavolino dell’ingresso. E che oggi usano solo i cavernicoli. Mi guardo intorno: una giungla di messaggi pubblicitari declamano regali e offerte imperdibili. Sembra quasi che tutto ti venga concesso gratuitamente. Arriva il mio turno e, dopo una lunghissima trafila non degna della tecnologia che tutto dovrebbe velocizzare e semplificare, l’impiegato mi chiede il numero di cellulare, a cui deve trasmettere, necessariamente, non so bene quale tipo di messaggio di conferma, dando per scontato che oggi tutti ne posseggano almeno uno. Mi guarda stupefatto e quasi non crede alle proprie orecchie quando apprende l’incredibile notizia: “ma come, lei di questi tempi non ha un cellulare?....(fa bene! mi dice una signora che sta dietro in attesa)… “purtroppo, se non mi dà il numero di un suo cellulare – sentenzia affranto l’uomo delle offerte telefoniche - il sistema non mi permette di continuare”. Cerco di far valere le mie buone ragioni, di far capire l’incongruenza della richiesta ma, ahimè, la logica e il buon senso nulla possono contro l’attuale dittatura della telefonia mobile. Se oggi non hai lo smartphone il “sistema” ti punisce, ti emargina, non ti riconosce, ti fa sentire inadeguato. Non ti consente di accedere a certi servizi, ti impedisce di utilizzare alcune applicazioni. E se non ti adegui, per il “sistema” non esisti. Sono sicuro che fra qualche anno lo smartphone - in attesa che venga impiantato sotto pelle ai nascituri - sarà reso obbligatorio, come la carta d’identità o la patente. E chi andrà in giro senza, verrà arrestato in flagranza di reato.


giovedì 2 maggio 2024

Tramonto

 


“ Dove potrei rifugiarmi – diceva Holderlin per bocca di Iperione – se non avessi i cari giorni della mia giovinezza ?”. E dove potrei ritrovarli quei giorni – mi viene da pensare – se non tra i vicoli, le pietre, i panorami del mio paesello nativo, testimone delle sensazioni di quell’età fortunata? E allora, quando la fatica del vivere in città diventa gravosa, mi rifugio in quel luogo dell’anima, custode dei miei ricordi, per recuperare brandelli di pace e di silenzio. E di bellezza.

E così - l’altra sera - mi trovavo sul terrazzino di casa che guarda verso il mare dove si staglia la sagoma inconfondibile dell’isola di Capri. La magia dell’ora mi aveva abbagliato. Chi volesse riflettere sulla bellezza del creato dovrebbe cominciare dal tramonto. Dalla sua luce incantata che non scende più sulle cose in maniera diretta, ma le accarezza leggermente di lato affinandole con quel colore vicino al rosso, che appare quasi irreale.

Fascino, meraviglia, mistero: sono i sentimenti che provavo osservando il sole che si nascondeva piano piano dietro l’orizzonte del mare, nell’ora più dolce del giorno: il tramonto. Ma che altro è la bellezza se non una visione incantevole che ti può trafiggere l’anima come un dolore?


giovedì 11 aprile 2024

Lettera al Direttore di un giornale

 




Caro Direttore,

un tempo, nemmeno tanto lontano, ero un tuo affezionato lettore e compravo, tutti i giorni, il giornale da te diretto. Un rito irrinunciabile, come quello del caffè mattutino, per cominciare bene la giornata. Aveva poche pagine – quel giornale - perché è meglio tacere quando non c’è niente di nuovo da scrivere; e poche immagini in bianco e nero, immagini essenziali che sapevano davvero raccontare ciò che le parole non dicevano. Allora, i politici parlavano poco e scrivevano ancora di meno perché non esistevano quelle iatture che si chiamano “i social”, e i giornali non correvano il rischio di cadere nell’attuale riprovevole inganno: fare da cassa di risonanza alle loro parole. La pubblicità, poi, era quasi inesistente e appena lo aprivi – quel giornale - ti appariva la famosa “terza pagina”, sinonimo di cultura, di giornalismo di qualità. Sapesse - caro Direttore - quante ne conservavo di quelle pagine! Autentiche perle letterarie da rileggere nei momenti di particolare noia esistenziale. Oggi la “terza pagina”, inventata dai padri nobili del giornalismo, è occupata dalle quotidiane fandonie pronunciate da questo o da quell’altro politico di questo o di quell’altro partito, con tutti i noiosissimi e inconcludenti commenti al riguardo. E la pagina culturale che fine ha fatto? Relegata, quando c’è, in fondo al giornale. Come a voler dire che con la cultura non si mangia, come ebbe a sottolineare tempo fa un ministro, i cui sproloqui oggi trovano rilevanza proprio su quella pagina un tempo appannaggio di ben altri pensieri.

Come le dicevo, caro Direttore, da un po' di anni a questa parte, quel rito che si consumava con piacere tutte le mattine recandomi all’edicola non si ripete più, anche perché è sempre più difficile trovare un’edicola aperta: stanno chiudendo tutte e il giornale non lo compro con l’assiduità di un tempo. Ma non creda, caro Direttore, che io abbia scelto altre testate giornalistiche o che mi avvalga della rete per tenermi informato! Niente di tutto questo! A me piace troppo la carta stampata e non potrei mai leggere un giornale on line stando davanti allo schermo di un computer o - peggio ancora – con gli occhi incollati allo smartphone, che nemmeno possiedo. Semplicemente, non mi ci ritrovo più tra quelle pagine diventate teatrino della politica più greve e del gossip mediatico.

Mi preme sottolineare che ciò che oggi rimprovero ai giornali è di farci prestare attenzione a fatti a volte insignificanti e marginali, a seguire gli insulsi giochetti della politica politicante. E, sinceramente, devo anche dirle che non mi piace affatto questo sottile confine che esprime oggi la stampa, sempre in bilico tra il sensazionalismo e il voyeurismo, un giornalismo, questo, tipico della televisione commerciale, per cui se nel mese di agosto si suda, è immancabile il titolo a tutta pagina: “il paese nella morsa del caldo”; e se piove - come sempre piove in inverno - è la solita “bomba d’acqua” che si abbatte sull’Italia. E che dire della spettacolarizzazione del dolore e delle tragedie umane e familiari? Intere pagine riservate all’ultimo efferato delitto che “ha scosso la coscienza del Paese”, pagine che si ripetono per giorni e giorni in una sorta di raccapricciante telenovela. Capisco che, a volte, certe notizie e certi titoli fanno vendere più copie di giornali, perché sollecitano la morbosità latente della gente, così come le immagini più strazianti trasmesse dai telegiornali fanno più audience. Ma io credo – caro Direttore – che anche l’informazione abbia una sua dignità. Una sua credibilità. Interpretare correttamente gli avvenimenti che accadono, senza declamare alcuni fatti rispetto ad altri e senza costruire ad hoc una notizia per fare presa sul lettore, è compito fondamentale di un sano giornalismo. Altrimenti, perché dovrei comprare tutte le mattine un giornale che adopera certi espedienti solo per vendere qualche copia in più?

Il crollo delle vendite dei quotidiani è sotto gli occhi di tutti, basta entrare in un vagone della metropolitana di Roma nell’ora di punta: non vedi più nessuno che legge un giornale. Ma non è solo colpa di internet se tutti gli occhi sono appiccicati a quella famigerata tavoletta elettronica che si chiama smartphone. Qualche responsabilità ce l’ha anche chi fa giornalismo tradizionale, perchè non ha saputo trovare gli accorgimenti necessari per frenare l’avanzata dei nuovi canali informativi. E nell’era della dittatura digitale, la carta stampata sembra purtroppo un relitto del passato. Una vera disfatta. Stiamo perdendo un pezzo della nostra umanità, della nostra cultura, della nostra maniera di stare al mondo. Eppure, io credo che salvare il giornale cartaceo sia una fondamentale battaglia culturale, una vera e propria missione di civiltà e di libertà. Perciò - caro Direttore - mi affido alla sua lungimiranza, alla sua professionalità, alla sua capacità di mettere in discussione il sistema vigente che, attraverso la Rete, tende all’omologazione universale e  all’assenza di pensiero. Si inventi qualcosa di nuovo! riveda la sua maniera di progettare il giornale! faccia scrivere i suoi articoli alle menti più illuminate di questo Paese! non si arrenda lasciando l’informazione nelle mani dei media digitali. Insomma, caro Direttore, si adoperi nel migliore dei modi affinché quelli che amano il fruscìo della carta stampata possano continuare ancora a comprare un giornale. Per il nostro bene.