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sabato 23 luglio 2022

Connessione assente

 


Internet è la negazione assoluta del silenzio. Da quando esiste, tutti parlano; tutti scrivono; tutti gridano, esibendo sé stessi e cercando posto nel mondo con le parole. E lo scrivente, naturalmente, non è da meno. Diciamolo: un vero eccesso comunicativo. E’ arrivato il momento, almeno per me, di una moratoria, di una pausa. Io credo che uno stacco da internet – ogni tanto - e dai suoi micidiali derivati, i social, ci faccia tornare umani.

Mi ritiro nel mio “eremo” dove non c’è connessione. Ci leggeremo – forse - dopo l’estate.


venerdì 15 luglio 2022

Proust: ancora tu!

 


E’ difficile pensare che un libro, sterminato e complesso come la Recherche di Proust, si possa leggere due volte; sempreché ci si riesca la prima volta, naturalmente. Eppure, il grande scrittore russo Nabokov sosteneva che non si può leggere un grande libro: lo si può soltanto rileggere. Solo rileggendolo più volte ci si può avvicinare alla sua vera essenza e possederla. “Alla ricerca del tempo perduto” è una delle opere più grandi che siano mai state scritte. E’ un libro che ti annienta, ti sovrasta, ti fa sentire piccolo piccolo; ti fa capire che oggi, nell’attuale panorama letterario, non esistono scrittori capaci di eguagliare lo stile di Proust. La sua scrittura. Quello che più mi affascina di Proust è la sua immensa abilità tecnica, la sua mostruosa bravura di spezzettare un’idea, un concetto in mille rivoli e di creare effetti speciali con le sue figure retoriche, i suoi paradossi, le sue metafore, le sue dettagliate descrizioni anche di particolari apparentemente insignificanti; e poi quella sua impareggiabile attitudine nel tratteggiare i caratteri psicologici dei vari personaggi. Esiste uno strumento artistico, che è la scrittura, e Proust la usa ad un livello altissimo e coltissimo – irraggiungibile - che mi lascia esterrefatto.

Sto rileggendo “Dalla parte di Swann, il primo dei sette volumi de la Recherche. Lo sto sorseggiando con estrema lentezza. Leggere Proust non è come leggere uno scrittore qualsiasi, fosse anche il più bravo. Richiede un impegno diverso; un tempo diverso; una diversa disposizione d’animo. Mi viene quasi da pensare che occorre “ruminare” quel che si legge, sostare il più a lungo possibile sulle parole per avere il tempo di gustarne il sapore, la bellezza. E tornare indietro, quando serve. Vi puoi trovare, nell’opera di Proust, pagine lunghissime che ti annoiano e altrettante che ti esaltano. E sono proprio quest’ultime che ti invogliano e ti stimolano a rileggerle più volte, fino a farle tue. Perché il modo migliore, per avere coscienza di ciò che senti, è quello di affidarti ad un maestro, ricreando in te le sue stesse sensazioni. Proust è un autore che va centellinato a piccole dosi, altrimenti ne esci spossato: non è pensabile che possa essere letto “tutto d’un fiato”, e forse per questo non si finisce mai di leggerlo. Lui ha rappresentato e analizzato tutti i grandi temi dell’esistenza, ha indugiato sui sentimenti e sulle passioni degli uomini e ci ha lasciato pagine memorabili. Mi piace riportare di seguito – come faccio quasi sempre quando parlo di libri - un passo tratto da “Dalla parte di Swann”. Se dovessi dare un titolo a questa straordinaria pagina di letteratura – Proust mi perdonerà – direi: “odori e sapori di provincia”. Il “Narratore” è appena arrivato con il treno a Combray, nella casa della zia Léonie, dove la sua famiglia trascorre le vacanze. Descrive ciò che vede e ciò che sente. E’ una pagina, questa, che io leggo e rileggo senza mai riuscire a saziarmene.  

“Erano di quelle stanze di provincia che – così come in certi paesi intere porzioni dell’aria o del mare sono illuminate o profumate da miriadi di protozoi che non possiamo vedere – ci affascinano con i mille odori in esse depositati dalle virtù, dalla saggezza, dalle abitudini, da tutta una vita segreta, invisibile, sovrabbondante e morale tenuta in sospensione dall’atmosfera; odori ancora naturali, certo, e color del tempo come quelli della vicina campagna, ma già casalinghi, umani e claustrali, gelatina squisita, industriosa e limpida di tutta la frutta dell’anno che ha lasciato l’orto per la dispensa; stagionali, ma mobili e domestici, capaci di correggere il piccante della brina con la dolcezza del pane caldo, pigri e puntuali come un orologio di villaggio, bighelloni e costumati, incuranti e previdenti, lingeristi, mattinieri, devoti, felici d’una pace dalla quale non può provenire che un po' più di ansia e d’una prosaicità che funge da inesauribile serbatoio di poesia per chi li attraversa senza aver vissuto con loro. L’aria, lì, era satura della quintessenza di un silenzio così’ sostanzioso, così succulento, che non m’addentravo in esso senza una sorta di golosità, soprattutto in quei primi mattini ancora freddi della settimana di Pasqua in cui lo gustavo di più perché ero appena arrivato a Combray: prima di lasciarmi entrare ad augurare il buongiorno alla zia, mi facevano attendere un istante nella prima stanza dove il sole, ancora invernale, era venuto a scaldarsi davanti al fuoco che, già acceso tra i due mattoni, avvolgeva tutta la camera in un odore di fuliggine, facendone qualcosa come uno di quei grandi “antiforni” di campagna o una di quelle cappe di camino dei castelli sotto i quali ci si augura che fuori rompano gli indugi la pioggia, la neve, magari qualche catastrofe diluviesca per aggiungere al confort del riparo la poesia della reclusione invernale; muovevo qualche passo dall’inginocchiatoio alle poltrone di velluto arabescato, sempre ricoperte con un poggiatesta all’uncinetto; e il fuoco, che cuoceva come una pasta gli odori appetitosi di cui l’aria della camera era tutta grumosa e già “lavorati” e fatti lievitare dalla freschezza umida e soleggiata del mattino, li tirava a sfoglia, li dorava, li gonfiava, li faceva bombare, trasformandoli in un’invisibile e palpabile leccornia provinciale, un immenso “calzone” nel quale, assaggiati appena gli aromi più stuzzicanti, più fini, più pregiati, ma anche più secchi, dell’armadio a muro, del cassettone, della tappezzeria a ramages, tornavo sempre con inconfessata ingordigia a invischiarmi nell’odore medio, appiccicoso, scipito, indigesto e fruttato del copriletto a fiori…”.


martedì 12 luglio 2022

Il fantasma della democrazia

 


Sarebbe veramente una bella cosa se i cittadini, in democrazia, vedessero riconosciuti i propri diritti e potessero definire il proprio destino. Purtroppo questi obiettivi non vengono mai realizzati sebbene la parola che li celebra – la democrazia, appunto - venga perennemente evocata dai politici nei comizi elettorali e nei discorsi parlamentari, nelle chiacchiere televisive e negli articoli dei giornali. Lo sostiene il prof. Piergiorgio Odifreddi nel suo libro “La democrazia non esiste” con sottotitolo “critica matematica della ragione politica” (Rizzoli editore). Un libro molto interessante, scritto in maniera chiara e incisiva per stimolare l’attenzione del lettore e dell’elettore.

Democrazia significa letteralmente “governo del popolo”, ma quando il popolo da soggetto che dovrebbe governare diventa l’oggetto da governare e da gabellare, allora non c’è più democrazia. Non c’è democrazia quando gli elettori non possono più scegliere i propri candidati, imposti invece dai segretari di partito. Non c’è democrazia quando governa una maggioranza espressione di una minoranza di votanti. Non c’è democrazia quando vengono elette persone incompetenti e disoneste. Non c’è democrazia nei cambi di casacca dei voltagabbana, che costituiscono la vera maggioranza del parlamento. Non c’è democrazia quando è il Governo a legiferare e il Parlamento a eseguire sotto il ricatto del voto di fiducia. Non c’è democrazia quando il potere legislativo e il potere esecutivo sono influenzati dal potere della finanza. Non c’è democrazia quando il politico cattivo scaccia quello buono. Non c’è democrazia nella degenerazione del linguaggio usato dai politici. E allora uno si chiede: ma ha un senso andare ancora a votare?


lunedì 4 luglio 2022

L'incipit di un libro

 


L’incipit di un libro è costruito per catturare e sedurre il lettore. E’ una parte molto importante, a volte fondamentale, di un romanzo; rappresenta una sorta di calamita, una porta d’ingresso che invoglia il lettore a comprare proprio quel libro. Infatti, la prima cosa che leggiamo di un libro di cui non sappiamo nulla - quando ci troviamo in una libreria - oltre alla cosiddetta quarta di copertina, è proprio il suo inizio. E la letteratura è costellata di incipit belli e curiosi, interessanti e illuminanti. Forse il più famoso è quello che introduce il primo canto dell’Inferno nella Divina Commedia di Dante: “Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita”. Lo conosceva anche mio nonno, contadino analfabeta.

E’ pur vero, però, che ci sono libri molto belli che hanno avuto successo e fama nonostante  un incipit brutto, anonimo e scialbo, che non dice assolutamente niente: l’elenco sarebbe davvero lunghissimo e meriterebbe un post a parte. Ma per il momento occupiamoci degli incipit belli, almeno quelli che più hanno colpito la mia immaginazione, che più mi hanno incantato. Certo, la mia è una scelta personale, pertanto mi piacerebbe che qualcuno aggiungesse a questo mio elenco, senz’altro incompleto, un suo incipit preferito.

Proust – Alla ricerca del tempo perduto – “Per molto tempo sono andato a letto presto la sera. Qualche volta, appena spenta la candela, gli occhi mi si chiudevano così in fretta che non avevo il tempo di dire a me stesso: mi addormento. E mezz’ora più tardi, il pensiero che era tempo di cercar sonno mi ridestava”

Salvatore Satta – Il giorno del giudizio - “Don Sebastiano Sanna Carboni, alle nove in punto, come tutte le sere, spinse indietro la poltrona, piegò accuratamente il giornale che aveva letto fino all’ultima riga, riassettò le piccole cose sulla scrivania, e si apprestò a scendere al piano terreno, nella modesta stanza che era da pranzo, di soggiorno, di studio per la nidiata dei figli, ed era l’unica viva nella grande casa, anche perché l’unica riscaldata da un vecchio caminetto”.

Gabriele D’Annunzio - Il piacere - “L’anno moriva, assai dolcemente. Il sole di San Silvestro spandeva non so che tepor velato, mollissimo, aureo, quasi primaverile, nel ciel di Roma”.

Vincenzo Cardarelli  - Villa Tarantola – “Fin da ragazzo ho amato le distanze e la solitudine. Uscire dalle porte del mio paese e guardarlo dal di fuori, come qualche cosa di perduto, era uno dei miei più abituali diletti”.

Italo Calvino – Se una notte d’inverno un viaggiatore – “Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto. La porta è meglio chiuderla; di là c’è sempre la televisione accesa. Dillo subito, agli altri: No, non voglio vedere la televisione! Alza la voce, se no non ti sentono: Sto leggendo! Non voglio essere disturbato! Forse non ti hanno sentito, con tutto quel chiasso; dillo più forte, grida: Sto cominciando a leggere il nuovo romanzo di Italo Calvino! O se non vuoi non dirlo; speriamo che ti lascino in pace”

Carlo Levi – Cristo si è fermato a Eboli – “Sono passati molti anni, pieni di guerra, e di quello che si usa chiamare la Storia”

Gesualdo Bufalino – Argo il cieco – “Fui giovane e felice un’estate, nel cinquantuno. Né prima né dopo: quell’estate. E forse fu grazia del luogo dove abitavo, un paese in figura di melagrana spaccata”

Albert Camus – Lo straniero – “Oggi la mamma è morta: O forse ieri, non so. Ho ricevuto un telegramma dall’ospizio: madre deceduta. Funerali domani. Distinti saluti”

Jean d’Ormesson – A Dio piacendo – “Sono nato in un mondo che guardava indietro. Dove cioè il passato contava più del futuro”

Vladimir Nabokov – Lolita – “Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Lo-li-ta: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti. Lo. Li. Ta”

Francoise Sagan – Bonjour tristesse – “Esito ad apporre il nome, il bel nome grave di tristezza, sul sentimento così completo, così egoista che io quasi me ne vergogno mentre la tristezza mi è sempre parsa onorevole. Non conoscevo lei, ma la noia, il rimpianto, e più raramente i rimorsi”

Antonio Tabucchi – Requiem – “Pensai: quel tizio non arriva più. E poi pensai: mica posso chiamarlo “tizio”, è un grande poeta, forse il più grande poeta del ventesimo secolo, è morto ormai da tanti anni, devo trattarlo con rispetto, meglio, con tutto il rispetto”

Mario Tobino – Tre amici – “Non ci dicemmo mai che eravamo amici”

Tomasi di Lampedusa – Il Gattopardo – “Nunc et in hora mortis nostrae. Amen” La recita quotidiana del Rosario era finita. Durante mezz’ora la voce pacata del Principe aveva ricordato i Misteri Dolorosi; durante mezz’ora altre voci, frammiste avevano tessuto un brusio ondeggiante sul quale si erano distaccati i fiori d’oro di parole inconsuete: amore, verginità, morte; e mentre durava quel brusio il salone rococò sembrava aver mutato aspetto; financo i pappagalli che spiegavano le ali iridate sulla seta del parato erano apparsi intimiditi; perfino la Maddalena, fra le due finestre, era sembrata una penitente anziché una bella biondona, svagata in chissà quali sogni, come la si vedeva sempre”.