lunedì 17 ottobre 2016

Monotonia e felicità



Mi piace girovagare per le stradine dei piccoli paesi del Cilento. Sia in macchina che a piedi. Lo faccio soprattutto durante l’estate e comunque ogni qualvolta mi capita di ritornare là dove vivono le mie origini meridionali, impaziente come sono di immergermi in una realtà ancora a misura d’uomo. La cosa che sempre mi incuriosisce, passando per quei borghi avvolti nel silenzio, è osservare come alcune persone - perlopiù anziani contadini – trascorrano quasi tutta la giornata seduti davanti alla porta di casa, in piacevole solitudine. Quando ne incontro qualcuno, lo osservo e mi accorgo, dalla sua faccia incredibilmente serena, che per “vivere” non ha bisogno – come noi moderni cittadini - di leggere libri, o di viaggiare o di conoscere gente o di cazzeggiare con un telefonino o di vestire alla moda o di avere mille impegni. Niente di tutto questo. Lui se ne sta seduto in compagnia di se stesso, senza annoiarsi, senza stress e senza affanni, mentre il tempo scorre uniforme sulla sua esistenza, seguendo le stesse abitudini tutti i giorni, ignaro di un mondo diverso che sta altrove ed a cui non appartiene. E ogni piccolo imprevisto, ogni minima distrazione, come un passante che si avventura dalle sue parti e gli rivolge la parola, possiede ai suoi occhi la straordinaria capacità di destarlo da quella stagnante monotonia che lo avvolge e di cui non sembra esserne consapevole. Lo saluto, scambio qualche parola augurandogli lunga vita e mi risponde con il suo volto sorridente ed ironico: “qua non succede mai niente”. Eppure, quel “niente” che gli offre il paese in cui vive, naturale bagaglio della sua condizione umana ed esistenziale, lo rende ugualmente felice. E appare molto più felice di me che invece vivo attorniato dal “troppo”. Me lo rivela quel suo sguardo incredibilmente sereno e soddisfatto, abituato al lento e monotono scorrere delle stagioni. Mi viene da pensare che il “niente” o il “vuoto” che tanto terrore genera in chi è abituato al “pieno” (di telefonate…di oggetti…di immagini…di informazioni…di tecnologie) sia una condizione che non crea alcuna angoscia alle anime semplici.
Fernando Pessoa, nella sua celebre opera letteraria “Il libro dell’inquietudine” scriveva: “Il saggio è colui che riesce a rendere monotona l’esistenza, poiché allora ogni piccolo incidente possiede il privilegio di stupirlo”.

Per chiarire questo suo pensiero fondato sulla monotonia delle “vite comuni”, il grande scrittore portoghese prendeva ad esempio due figure: il cuoco e il cameriere in servizio presso un dozzinale ristorante dove lui pranzava tutti i giorni. E osservandoli, si chiedeva smarrito: “che vita è la vita di questi uomini?” . Notava che il primo, trascorreva quasi tutta la sua giornata in una cucina, gli erano consentite solo brevi pause, non andava mai al teatro e da quarant’anni non si era mai allontanato da Lisbona; il secondo, tutte le mattine alla stessa ora, gli posava davanti quello che poteva essere “il milionesimo caffè” servito alla clientela. E nel provare “spavento e pena e sdegno” per quelle persone che conducevano la stessa vita apparentemente piatta e incolore, ripetendo sempre gli stessi gesti con esasperante monotonia, Pessoa si accorgeva che non provavano “spavento né pena né sdegno proprio coloro che ne avrebbero tutto il diritto”. Le loro facce, anzi, esprimevano tutte le mattine una soddisfatta felicità. Per sospendere quella ripetitività, quel tran tran quotidiano, a quel cuoco bastava un piccolo incidente stradale, una rissa nella strada, insomma una qualsivoglia distrazione, anche la più irrilevante, per procurargli l’illusione di essere catapultato in una situazione magica ed interessante. Episodi, questi, che lo richiamavano con curiosità sulla porta del suo ristorante e lo intrattenevano più di quanto la contemplazione di un’opera d’arte o la lettura di un bellissimo libro potessero intrattenere lo scrittore portoghese. Insomma, cambiando il contesto, è ciò che accade al contadino cilentano seduto dinanzi alla sua porta di casa. Ma se la vita è fatta di monotonia, ovunque si manifesti – in un ristorante di Lisbona o in un paesino del Cilento - quel cuoco “continua a sfuggire alla monotonia più facilmente di me – diceva Pessoa. E secondo me anche quel contadino. E poi aggiungeva “La verità non è sua e non è mia perché la verità non è di nessuno; ma la felicità è sicuramente sua (…) Un uomo se possiede la vera sapienza, può godere l’intero spettacolo del mondo seduto su una sedia, senza saper leggere, senza parlare con nessuno, soltanto con l’uso dei sensi e il fatto che l’anima non sappia essere triste”. Tre secoli prima lo stesso concetto fu espresso da Pascal, quando scrisse che “tutta l’infelicità degli uomini proviene da una sola cosa, non sapersene stare in pace in una stanza” .

lunedì 3 ottobre 2016

"I vecchi e i giovani" di Pirandello: la secolare resistenza al cambiamento



“...Nessuno aveva fiducia nelle Istituzioni, né mai l’aveva avuta. La corruzione era sopportata come un male cronico, irrimediabile; e considerato ingenuo o matto, impostore o ambizioso chiunque si levasse a gridarle contro ”. Sembra essere l’estrema e lucida analisi delle vicende politiche dei nostri tempi; invece è ciò che si legge nel bel romanzo di Luigi Pirandello I vecchi e i giovani” (Newton Compton Editore), scritto all’inizio del secolo scorso. Nulla dunque sembra cambiato, o meglio, tutto cambia affinché nulla si modifichi, secondo il famoso detto gattopardesco.

Il romanzo, ambientato nella Sicilia post-unitaria del 1890, racconta le vicende di una ricca e nobile famiglia agrigentina composta da tre fratelli, da anni in rotta tra di loro, il cui capostipite - il sessantacinquenne principe Don Ippolito Laurentano - viveva come un esiliato - fin dal 1860 - nel suo feudo, protetto da una guardia di venticinque uomini con la divisa borbonica, proprio per attestare la sua fiera fedeltà al passato governo del Regno delle Due Sicilie. Il fratello Don Cosmo, poco più giovane di Don Ippolito, era invece un uomo votato agli studi di filosofia e, almeno apparentemente, non si era mai schierato né con i Borbone né con il nuovo Governo. Poco interessato agli affari ed ai commerci del suo feudo, può essere visto come l’alter ego dello scrittore. Costui viveva lontano dagli affanni e dalle miserie dell’esistenza umana perché avvertiva  “la vanità di tutto e il tedio angoscioso della vita”,  trascorreva le sue giornate solitarie con distacco e disincanto, perché “la vita comune non riusciva a penetrargli nella coscienza con tutti quegli infingimenti e quelle arti e quelle persuasioni che spontaneamente la trasfigurano agli altri”. A chiudere il quadro familiare era la sorella Donna Caterina, vedova di un eroe garibaldino morto nella battaglia di Milazzo, la quale, rifiutando sdegnosamente gli aiuti economici del fratelli, trascorreva la sua modesta vita con la figlia (anch’essa vedova) in una vecchia e triste casa a Girgenti.

Le vicende si sviluppano intorno a due importanti avvenimenti che caratterizzarono la vita politica e sociale di quegli anni, ossia – da una parte - lo scandalo politico-finanziario della Banca Romana (uno dei sei istituti che all’epoca erano abilitati ad emettere moneta in Italia), in cui furono coinvolti anche alcuni membri del Governo, colpevoli di aver abusato del loro ruolo istituzionale per affari illeciti, e – dall’altra - la crisi che investì le miniere di zolfo in Sicilia, che portò a scontri durissimi tra i lavoratori riuniti in Fasci e le forze dell’ordine. Intorno alla famiglia Laurentano ruotano una moltitudine di altri interessanti personaggi, rappresentativi della variegata e complessa società della Sicilia post unitaria: c’è il facoltoso e scaltro uomo d’affari; c’è il proprietario di terre e di miniere di zolfo; c’è il principe che si serve del suo amico deputato per poter sbrigare meglio i suoi affari e arricchirsi a scapito dei  più deboli; c’è l’esponente della borghesia capitalista; c’è l’operaio sfruttato…

Il libro - che va inquadrato nel filone dei grandi romanzi storici del Risorgimento italiano, come “I Vicerè” di Federico de Roberto, “l’Alfiere” di Carlo Alianello e “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa – può essere letto come un documento, se non proprio di accusa, comunque di critica al Risorgimento italiano, i cui protagonisti (i vecchi) non avevano saputo portare avanti quegli ideali di progresso e di unità per i quali avevano combattuto, sopraffatti dagli scandali finanziari e dagli interessi privati. D'altra parte non avevano saputo fare di meglio i loro figli (i giovani), anch’essi contagiati dal malaffare e dalla disonestà a scapito delle classi più povere e dei lavoratori delle miniere, i quali, seppure riuniti in “Fasci” per rivendicare i loro diritti, finirono per essere annientati e ridotti alla miseria. Insomma, un confronto/scontro tra due generazioni. Mentre la Sicilia tutta veniva sconfitta e calpestata dagli eventi e dal nuovo Governo, quella terra che “sola, senza patti, con impeto generoso s’era data all’Italia e in premio non aveva avuto altro che la miseria e l’abbandono”.