lunedì 22 luglio 2019

Mai più senza maestri


Nell’ immaginario collettivo il “maestro” è quella figura romantica legata agli anni della nostra scuola elementare, una figura da sempre confinata in una condizione socio-economica subalterna, palesemente discordante con la dignità di una professione che dovrebbe rivestire il grado più alto della scala sociale. E parlando di maestri vissuti in altre epoche, non possiamo non ricordare i maestri d’ascia, i maestri orafi, i maestri di bottega, senza dimenticare che chiamiamo maestro, ancora oggi, l’artista cui sono riconosciuti meriti particolari nel campo musicale, cinematografico, letterario ecc. La letteratura, poi, è ricca di ritratti di precettori ed istitutori, spesso persone pedanti e vanitose, cui le famiglie aristocratiche affidavano l’educazione dei propri rampolli. Ma nella società del nostro tempo, sempre più omologata verso il basso, esistono ancora i maestri, quali autorità morali e culturali che tendono verso l’alto? Si può ancora chiamare qualcuno “maestro” senza incorrere in una facile ironia se non addirittura nello scherno? Se lo chiede il prof. Gustavo Zagrebelsky, grande giurista, già Presidente della Corte Costituzionale, con il suo libro molto interessante che si intitola “Mai più senza maestri” (Ediz. il Mulino).


Secondo Zagrebelsky il maestro è innanzitutto “chi non s’accontenta”, ma è anche chi si sente un “irregolare, fuori delle regole”; il maestro, inoltre, è un critico che non inculca certezze e non indottrina i suoi allievi (come certi tipi di “maestri” indispensabili ai regimi totalitari), ma è colui che semina dubbi, “crea asperità”, produce divisioni e rotture, “uno che mette a nudo, un provocatore”, il quale conosce a fondo la materia del suo insegnamento e la sa comunicare senza censure e con la chiarezza necessaria. Per legittimarsi, il maestro non ha bisogno dell’istituzione. Anzi - dice Zagrebelsky - a volte può percepirla come una sorta di camicia di forza fatta di programmi e di asfissianti procedure burocratiche che sono di impaccio alla sua autorità. Mentre l’unica, autentica autorità del maestro, si legge nel libro, deriva dagli allievi. “Sono loro che gliela conferiscono. Non è l’istituzione. Quanti insegnanti incontriamo nelle scuole privi di autorità e, viceversa, quanti maestri che esercitano il loro magistero senza bisogno di parlare da cattedre autorizzate. Non esistono maestri senza allievi. Sarebbe una contraddizione in termini. Se non c’è maestro senza allievi, vale anche il contrario: non ci sono allievi senza maestri”.

Oggi, “sotto la dittatura del presente” – scrive Zagrebelsky – il maestro appare come una figura anacronistica. E’ visto dal potere dominante, qualunque esso sia, quasi come un intralcio alla crescita economica del paese, viene ignorato e reso innocuo L’attuale società richiede competenze tecniche più che umanistiche, “esperti” più che maestri, quindi economisti, politologi, giuristi, che vengono valorizzati e protetti dal sistema. Al posto dei maestri ci sono, poi, gli influencer, che sono quelle figure che impongono e assecondano le tendenze di massa e le mode attraverso strumenti di persuasione, in primis la comunicazione commerciale. “Il più bravo – scrive Zagrebelsky – è quello che più si immedesima nella tendenza del momento, non quello che più se ne distingue. Il successo consiste nell’eccellere in idiozie. La riflessione, che è l’ingrediente di ogni magistero, è erosa da uno stile di vita in cui il silenzio, propedeutico a ogni atteggiamento riflessivo, è proscritto. La costruzione di rapporti profondi e duraturi sembra sempre più difficile. Per i più, i maestri sono sostituiti dagli idoli e questi idoli devono essere banali…I maestri di cui il nostro tempo sembra avere bisogno sono quelli che rassicurano e consolano, non quelli che risvegliano le coscienze”. E quest’ultimi si trovano nel web dove c’è di tutto, e tutto può essere affidabile o meno, a seconda delle proprie convenienze e dei propri convincimenti. Si trovano nella televisione, nella pubblicità, nella moda, nei social e si chiamano demagoghi, comunicatori, propagandisti. Tutti usano il nostro stesso linguaggio, li comprendiamo senza sforzi e sono adatti alla società dello spettacolo e dei grandi numeri perché sopprimono la curiosità, esaltano il pensiero unico e organizzano esistenze omologate. Noi siamo il riflesso di ciò che ci sta intorno: il guasto che sta fuori di noi è anche dentro di noi. I maestri, quelli veri, quelli che risvegliano le coscienze, si propongono a noi quando incominciamo a porci domande e interrogativi inevasi, a cui non sappiamo dare una risposta. Allora possono rivelarsi. Ma quando nessuno ne sente il bisogno, quelli che si propongono come tali sembrano malinconiche comparse che si espongono alla denigrazione. Nonostante tutto, io credo che in questa nostra società iperconnessa i maestri che tendono verso l’alto sono ancora presenti tra di noi. E noi ne abbiamo estremamente bisogno. Uno ci ha da poco lasciati: si chiamava Andrea Camilleri.



lunedì 15 luglio 2019

Roma: tra rifiuti e sfilate balneari

dal web


Il decoro urbano di Roma – lo sappiamo bene – è assai compromesso. E’ un problema, questo, che si trascina ormai da decenni, tanto da sembrare irrisolvibile. I marciapiedi (in centro come in periferia) sono regolarmente un tappeto di cartacce e cicche di sigarette, ovunque ti giri vedi cumuli di spazzatura, cassonetti sempre strapieni e debordanti di immondizia, scritte e graffiti su qualsiasi superficie, anche sui monumenti, manifesti pubblicitari che invadono ogni spazio disponibile, un’edilizia abitativa (in periferia) che intristisce, macchine e poi macchine dappertutto. E come se tutto ciò non bastasse a turbare e a deturpare il paesaggio urbano, con l’arrivo dell’estate noi cittadini, non soddisfatti di sporcare la città in cui viviamo (prendiamoci ogni tanto questa responsabilità, anziché incolpare sempre la Raggi), la trasformiamo in una località di mare (nonostante il mare sia distante una trentina di chilometri), grazie al nostro look balneare. Infatti, chi in questi giorni passeggia per Roma (ma credo sia un andazzo che ha preso piede in tutte le città), può assistere ad una incessante passerella “moda mare”: pantaloncini a mezza gamba, di tutte le fogge, con mocassini e calzini corti, sandali francescani abbinati con calze lunghe, e poi bermuda, canottiere multicolori, infradito, zoccoli. Mancano solo le sdraio e gli ombrelloni. Un vestiario decisamente inappropriato, in alcuni casi ridicolo e osceno, non giustificato neanche dal gran caldo di questi giorni. Gli indossatori non sono quelle statuarie figure che vediamo in televisione nelle sfilate di moda, ma signori attempati che esibiscono allegramente e senza alcun pudore corpi su cui la natura, prima ancora che gli anni, hanno lasciato segni disastrosi. Oltre ad essere esteticamente brutti a vedersi, questi “modelli” sono l’espressione di una moda sciatta, di una condotta poco rispettosa del decoro di un luogo, dove il brutto prevale - non dico sul bello - ma sulla decenza. Ora tralasciamo i ragazzi che – grazie alla loro freschezza giovanile – se la possono pure permettere questa mise balneare. Ma gli altri, quelli che non hanno né il fisico né l’età adatti allo spogliarello, più che svestirsi dei propri abiti e, soprattutto, della propria dignità, dovrebbero coprirsi il più possibile. Nascondere anziché svelare le proprie brutture. Mostrare in maniera disinvolta pance prominenti, gambette rinsecchite o cosce da elefante, gambe storte con vene varicose, pelurie pettorali ed ascellari sudate è quanto di più indecente e deplorevole si possa vedere per le strade, nei negozi mentre fai la spesa, nei locali e sui mezzi pubblici. Sono scene sgradevoli alla vista che non si addicono al buon senso, prima ancora che al ritegno ed alla rispettabilità di una persona.

Lo stile balneare, anche per chi non ha il fisico di un adone, è ammesso in casa propria (dove nessuno ti vede) e viene ben tollerato nelle località marine e sulle spiagge (si va lì per prendere il sole e fare il bagno), ma non può essere accettato in altri contesti sociali. Ora io non voglio fare la morale a nessuno, ma sinceramente quando vedo in giro certi “tipi da spiaggia” che si atteggiano pure a bronzi di Riace, si acuisce in me quel senso di malessere, già provocato dal degrado urbano, dalla spazzatura, dal traffico e dai comportamenti volgari. Ho letto da qualche parte che in alcuni Stati dell’America è vietato andare in giro in maniera discinta e chi non rispetta tali norme rischia multe salate. Il decoro di una città – diciamocelo - si misura anche dall’abbigliamento dei suoi abitanti, che va di pari passo con la pulizia delle strade, il senso civico e l’educazione. Insomma esiste un’etica anche nel modo come ci si veste.

Chissà cosa avrebbe scritto, oggi, Ennio Flaiano di questa moda balneare che ha preso piede nelle nostre città. Lo scrittore abruzzese, passeggiando negli anni ‘60 per una via Veneto che non gli sembrava una strada ma una spiaggia, ebbe a scrivere: “Il nostro destino è sul mare. Siamo tanto affezionati a questa idea, che abbiamo dovuto tradurla nell’unico modo accettabile alla nostra pigrizia, trasformando le strade in località balneari, elaborando uno stile balneare per le abitazioni, per l’abbigliamento, per le automobili e infine per i cittadini, che sembrano – e intimamente sono – soltanto bagnanti. Anche le conversazioni sono balneari, prive cioè di ogni riferimento alla realtà, barocche e scherzose. Manca che ci si spruzzi o che si giochi col pallone”.

sabato 6 luglio 2019

Viaggio tra le abbazie alla ricerca dell'Europa

Abbazia benedettina di Praglia


“Da dove se non dall’Appennino, mondo duro abituato da millenni a risorgere dopo ogni terremoto – scrive Paolo Rumiz, nel suo bellissimo libro intitolato “Il filo infinito”poteva essere venuta, millecinquecento anni fa, quella formidabile spinta alla ricostruzione dell’Europa?...” E da quali uomini poteva arrivare quella spinta alla formazione di un continente se non dai monaci benedettini che abitavano in quei luoghi e che  ben conoscevano? Furono proprio loro, i seguaci di Benedetto da Norcia - fondatore dell’ordine monastico e santo protettore dell’Europa - a salvare un intero territorio dopo la caduta dell’impero romano, con un lavoro incessante per rinvigorire i terreni, per organizzare i sistemi di irrigazione, per diffondere la vite e l’ulivo, per curare la pastorizia e le foreste. E lo fecero – scrive Rumiz nel suo libro - quando gli invasori erano gli Unni, i Vandali, i Visigoti, i Longobardi e non già dei migranti diseredati, inermi e impauriti, come quelli che sbarcano oggi sulle nostre coste. Quei monaci benedettini, affidandosi alla sola forza della fede e all’efficacia di una formula, ora et labora, riuscirono a cristianizzarli con il loro esempio, seppero rilanciare la civiltà in un mondo sconvolto dalle violenze, dalle immigrazioni di massa e dal degrado urbano, ricostruendo un territorio devastato che non aveva ancora confini nazionali ed innalzando un reticolo di formidabili bastioni di resistenza: le abbazie.

Paolo Rumiz – giornalista e grande viaggiatore - quei “giganti in tonaca nera”, forti dei loro antichi valori quali l’accoglienza, l’ascolto, la preghiera, il lavoro dei campi, il rispetto della natura, li ha cercati attraverso un lungo peregrinare tra i monasteri di tutta Europa, dall’Atlantico al Danubio. “Da nomade impenitente, da uomo di frontiera orgogliosamente senza radici”, lui si lascia affascinare, in questo viaggio, dal “luogo chiuso” che è il monastero, allontanandosi dal frastuono di un mondo globalizzato e di plastica, frenetico e mercificato e iperconnesso, stracolmo di cose inutili che accentuano il nostro vuoto esistenziale e il nostro smarrimento. Un mondo di una povertà spirituale allarmante. Il suo è stato un viaggio alla riscoperta di quelle radici cristiane e di quei valori fondanti del monachesimo benedettino e dell’Europa, che sembrano definitivamente spariti dalla società moderna, dove la cultura è in caduta libera, dove l’economia mette al suo centro solo il profitto e non la felicità dell’uomo, dove gli strumenti tecnologici ti fanno sentire più solo e più povero e dove la politica non sa dare speranza e risposte ai bisogni della gente.

La sua avventura inizia dal monastero di Praglia, nel Veneto, “ancorato come un bastimento all’ultimo dei Colli Euganei”. Scrive Rumiz; “…è facile svegliarsi prima dell’alba in un posto così. Chi non è abituato al silenzio si scopre insonne, in preda a vortici di pensieri, sospeso nel tempo e nello spazio. Mi è già capitato in un faro, in un’isola deserta del Mediterraneo. Un mese di solitudine e inaudite navigazioni nei labirinti dell’anima”. E’ la volta, poi, dell’abbazia di Sankt Ottilien, in Germania, dove “se qualcuno è in cerca di Dio, è più facile che lo trovi qui, tra mucche e galline, che nelle timorate parrocchie”. La sacra peregrinazione lo porta, quindi, all’abbazia femminile di Viboldone, situata in mezzo a un prato che una volta era campagna e oggi è periferia di Milano. “Pare che tutto il peggio della modernità si coalizzi contro quest’isola di pace, per estirparne il silenzio.” Così scrive l’autore. E poi quando tutto sembra annichilito dalla modernità, ecco che il sacro “ti fulmina appena entri nella navata medievale coperta di affreschi di epoca giottesca”. Il viaggio è denso di sorprese e se l’abbazia di Viboldone è povera ed essenziale, quella di Muri Gries a Bolzano “è ricca e trionfante con la sua struttura massiccia, i possedimenti agricoli, le seicentomila bottiglie di vino d’annata”. Ogni monastero esprime e potenzia l’anima del luogo in cui sorge. Questo straordinario viaggio di Rumiz continua da Marienberg nel Tirolo, a 1335 metri, il monastero benedettino più alto d’Europa, a San Gallo, in Svizzera; da Citeaux dove nacque nel 1098 l’ordine dei cistercensi a Saint Wandrille in Francia, dall’abbazia di Orval in Belgio dove “ronza come un alveare, la vita operosa dei trappisti, noti come cistercensi di stretta osservanza” a quella di Altotting in Germania e Pannonhalma in Ungheria, per ritornare là da dove era partito, nel Veneto, nel monastero benedettino veneziano dell’isola di San Giorgio, per ritrovare un ultimo ancoraggio, mentre “dal canale della Giudecca sbuca un transatlantico illuminato da cinquemila passeggeri. Immenso, più alto della chiesa della Salute, sullo sfondo di un cielo rosso fuoco. Non gli importa di vedere, gli basta essere visto. La città artificiale passa, indifferente, sul cadavere di quella vera” .

Ma se per secoli il cristianesimo ha mostrato questa straordinaria capacità di rinnovarsi ed estendersi attraverso le migliaia di abbazie sorte in tutta Europa, nel tempo di internet – si chiede Rumiz – le stesse abbazie sono ancora in grado di rinsavire una società globalizzata che esclude i deboli, predica uno sviluppo illimitato e distrugge l’ambiente? “Di certo – scrive Rumiz - a chi è assordato dal frastuono e dal superfluo, quel modello offre almeno una zattera di frugalità e silenzio, che di questi tempi è già un dono inestimabile”. E se ognuno di noi, mi permetto di aggiungere, potesse fare una simile esperienza di vita, avesse la forza di abitare – per un breve periodo di tempo - il silenzio, la pace e il raccoglimento di un luogo suggestivo come il monastero, alternando momenti di preghiera, di studio e di lavoro a momenti di introspezione interiore e meditazione, lontano dal chiasso della modernità, io credo che ne uscirebbe cambiato. E in meglio.