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martedì 15 ottobre 2019

Il blog: il mio retrobottega



In una delle pagine più belle dei “Saggi”, il filosofo francese Michel de Montaigne (1533 – 1592) scriveva: “Bisogna avere moglie, figli, sostanze e soprattutto la salute, se si può; ma non attaccarvisi in maniera che ne dipenda la nostra felicità. Bisogna riservarsi un retrobottega tutto nostro, del tutto indipendente, nel quale stabilire la nostra vera libertà, il nostro principale ritiro e la nostra solitudine. Là noi dobbiamo trattenerci abitualmente con noi stessi, e tanto privatamente che nessuna conversazione o comunicazione con altri vi trovi luogo; ivi discorrere e ridere come se fossimo senza moglie, senza figli e senza sostanze, senza seguito e senza servitori, affinché, quando verrà il momento di perderli, non ci riesca nuovo il farne a meno”.
Devo dire che quel “retrobottega” di Montaigne - nonostante il termine, nella sua accezione più autentica, non sottintenda nulla di spirituale ma faccia riferimento, invece, ad un luogo del tutto mercantile e materiale - ha sempre esercitato su di me un fascino particolare. Esiste, forse, altra immagine metaforica che possa meglio esprimere quello spazio di interiorità che costituisce “il nostro principale ritiro”, in cui ritroviamo indipendenza di pensiero?
Io credo che anche un blog possa essere accomunato a quel “retrobottega” immaginato da Montaigne, quale spazio dell’anima in cui raccogliere e conservare pensieri, parole e idee da spalmare, poi, verso l’esterno e quindi verso chi lo legge. E da ritiro segreto ed intimo, riconducibile ad un momento di solitaria personale riflessione, possa diventare spazio pubblico dove l’intrattenimento con se stessi diventi anche conversazione con gli altri.

venerdì 4 ottobre 2019

Fuga dalla città



“Un romanzo sul profondo disagio del nostro tempo”, così recita la quarta di copertina de  “Il silenzio delle pietre”, uno degli ultimi libri pubblicati da Vittorino Andreoli, capace di incunearsi nei più oscuri labirinti dell’animo umano. Ci troviamo nel 2028, un futuro che somiglia molto al nostro presente dove le città, che intossicano sempre di più, continuano a crescere a dismisura “come se si stesse accumulando della spazzatura in maniera incontrollata” e, nonostante il benessere raggiunto da una società sempre più tecnologizzata, la vita sociale e familiare appare sull’orlo di un precipizio. Il protagonista che esce dalla penna di Andreoli – in cui potrebbe rispecchiarsi chiunque oggi sia stanco della follia che regna sovrana nelle grandi città – decide di andarsene lontano da tutti e da un mondo civilizzato che “stava scivolando verso la sua fine, verso la barbarie” e dove era diventato quasi difficile e faticoso vivere. Un mondo dove non esisteva più il rispetto dell’altro e dove la sopraffazione e la trasgressione si erano affermate come le uniche modalità per emergere. Il personaggio del romanzo si spinge, per questa sua temporanea ma estrema decisione, in una baia isolata nel Sutherland della Scozia, affacciata sull’Oceano Atlantico, un luogo straordinario per la sua bellezza quasi primordiale, abitato solo da pecore, anatre e uccelli marini quali gabbiani, aironi, cormorani…, dove esiste la più bassa concentrazione umana di tutto il pianeta. “Li non correva il pericolo di incontrare uomini e donne – recita la voce narrante del libro - ma se avesse sentito la mancanza, gli sarebbe bastato percorrere cinque-sei chilometri e sarebbe arrivato al villaggio, che contava cinquecentosessanta abitanti”. Il nostro eroe non ne poteva più del caos delle metropoli “capolavori della follia umana”, non sopportava più l’idea di essere schiavo dei soldi, delle macchine, delle cose inutili e della libertà di possedere ciò che non serviva a vivere. Voleva liberarsi – anche se momentaneamente - dal contatto con l’uomo, “che è uno degli animali più impossibili e orrendi tra le creature del cielo e della terra”, per poter pensare e interrogarsi sulle sorti del mondo, ricominciando così a vivere. Cercava quel contatto perduto con la natura e con se stesso, inseguiva la bellezza del silenzio che permette di sentire un mondo diverso oltre che il piacere delle piccole cose, desiderava ascoltare i suoni della natura, come il canto degli uccelli, il mormorio del vento, il sussurrare della pioggia, soffocati tutti dal frastuono delle città. E la solitudine gli sembrava la condizione ideale.

Il libro mi rimanda inevitabilmente a “Walden o vita nei boschi” , da sempre considerato libro-culto da intere generazioni, in cui si rispecchiano i fautori dell’ecologia, i pacifisti di ogni paese ed i sostenitori di un modello di sviluppo e di vita alternativi a quello vigente. Il suo autore, Henry David Thoreau - figlio ribelle ed anticonformista dell’America dei primi anni dell’Ottocento - voleva dimostrare che l’uomo, rifuggendo la civiltà industriale e consumistica, con poche e semplici cose poteva condurre un’esistenza in armonia con se stesso e con il mondo circostante. E pertanto abbandonò il consorzio civile e si rifugiò in una casupola in mezzo al bosco sulla sponda di un piccolo lago, dove visse per oltre due anni, zappando la terra e coltivando fagioli, pescando nel lago, leggendo, ricevendo ospiti nella sua capanna, dedicandosi alla meditazione ed alla contemplazione della natura. E interrogandosi sulle ragioni più profonde dell’esistenza.

“Ma l’uomo – scrive Andreoli – ha bisogno dell’uomo e allora occorre che rimanga e non fugga lontano…il problema non è quello di scappare dal mondo per andare in un altro che non ti appartiene, ma di fare in modo che la città mantenga una dimensione possibile e non sia più il luogo della follia”.