“…la parola può, sì,
celebrare la bellezza, ma non è capace di esprimerla”
Il conflitto tra l’arte e la vita, che a volte può
generare una presunta “diversità” dell’artista rispetto alla “normalità” dei
comuni mortali, è un tema molto suggestivo che da sempre affascina gli
scrittori. Questo aspetto affiora prepotente nell’opera di Thomas Mann, in
particolare in un suo libro molto famoso “La
morte a Venezia”, che rappresenta – secondo me - una delle più alte espressioni
artistiche della letteratura di tutti i tempi. E’ un’opera d’arte, alla stregua
di un dipinto di Leonardo o di una scultura di Michelangelo. Quando mi trovo a
dover parlare di un libro così importante – l’ho riletto in questi giorni – mi
trovo in difficoltà, mi sento inadeguato, e mi chiedo cosa potrei mai scrivere che
non sia già stato scritto da persone molto più autorevoli e competenti di me.
Con questo breve romanzo (meno di cento pagine, scritto
nel 1912), lo scrittore tedesco eleva la condizione spirituale di uno dei suoi
personaggi più controversi - Gustav Aschenbach - ad un tale livello di
esaltazione estetica, da creare un distacco incolmabile tra la sua esistenza di
artista e amante del bello e la realtà circostante. Aschenbach è un noto e
celebrato scrittore sui cinquant’anni, che riesce a conquistare con le sue
opere letterarie sia l’apprezzamento del largo pubblico che la stima severa dei
raffinati. Ha scelto Monaco di Baviera come residenza stabile, dopo la morte
della moglie, ma trascorre tutte le estati, in solitudine, nella sua casa
rustica in montagna. Conduce un’esistenza borghese, metodica, quasi monacale, senza
trasgressioni. Ma un bel giorno decide di fare un viaggio, viene preso da un
desiderio smanioso di liberazione e di fuga dal quotidiano, sente la necessità “di un periodo di vita nomade”. Dopo
qualche breve riflessione sul dove andare, sceglie Venezia. E in questa città “che affascina irresistibilmente le persone
colte”, si imbatte in un bellissimo adolescente, che alloggia con la sua
famiglia nel suo stesso albergo. Di fronte a questa visione i suoi sentimenti
ed i suoi istinti vengono improvvisamente sconvolti; egli sente crollare la
propria identità e non riesce più a trovare un giusto equilibrio tra ragione e
passione, tra corpo e anima. Il ragazzo “era
di una bellezza perfetta – racconta la voce narrante del libro - Il suo viso, pallido e graziosamente
chiuso, attorniato da ricci color del miele, col naso diritto, la bocca
amabile, un’espressione di gentile e divina serietà, ricordava le sculture
greche dei tempi più nobili, e accanto alla purissima perfezione della forma
recava un fascino così unico e personale, che parve al riguardante di non aver
mai veduto né in arte né in natura nulla di così felicemente riuscito…” .
Aschenbach, in un primo momento, si rifiuta di riconoscere la sua
omosessualità, l’attrazione erotica che prova nei confronti di quel ragazzo,
non vuole ammettere a se stesso il fuoco interiore che lo divora; attribuisce a
quel suo sentimento un puro richiamo estetico e contemplativo, persuadendosi che la sensazione di benessere che prova
osservando quella “visione divina” è
simile al piacere che si verifica quando si crea un’opera d’arte o quando ci si
trova dinanzi ad un capolavoro architettonico. Insomma il bellissimo Tadzio è
un’opera d’arte vivente, una scultura che cammina e come tale lui l’ammira. Ma queste
deboli scuse a difesa della sua stima personale e professionale, della sua
intransigenza morale, in breve tempo crollano: l’anziano letterato, innamorato
follemente dell’efebico ragazzo, finisce per favorire i suoi istinti deliranti,
la sua ebbrezza sensuale e - pur di carpire un suo sguardo fugace – si trucca e
si tinge i capelli per sembrare più giovane ai suoi occhi, lo pedina
furtivamente, lo spia, lo insegue, si apposta per vederlo passare, lo cerca accaldato
ed esausto per i vicoli di una Venezia oppressa dal caldo e dal contagio della
peste che incombe….insomma, si copre di ridicolo, pur di attirare la sua
attenzione, in un esasperato crescendo di cupa e autodistruttiva attrazione
morbosa…”poiché la passione soffoca il
discernimento e s’abbandona in buona fede a piaceri che la sana ragione
giudicherebbe ridicoli o rifiuterebbe con fastidio”.
“La morte a Venezia” è un’opera letteraria di rara bellezza: elegante,
delicata e malinconica si presta a innumerevoli chiavi di lettura. In essa
troviamo le più straordinarie riflessioni sull’arte e sull’idea della bellezza;
vi troviamo la passione che tutto travolge e il tempo che passa lasciando i
suoi segni; vi troviamo la malattia e la morte, che si fondono in un connubio
fatale con la bellezza. Il tutto amalgamato in una Venezia distante e decadente,
con le sue calli anguste e la sua laguna torbida, popolata da figure di
contorno inquietanti, alle prese con un’epidemia che miete vittime e che le
autorità cercano di nascondere per non diffondere allarmismi. Thomas Mann ci spinge -
con la sua prosa colta e raffinata - a tollerare un uomo che oggi verrebbe
classificato come pedofilo, ci fa schierare a favore di un personaggio come Aschenbach nonostante i suoi immorali e indegni propositi. Solo la grande letteratura riesce a fare questi miracoli.