Veder cadere le foglie mi lacera dentro
soprattutto le foglie dei viali
soprattutto se sono ippocastani
soprattutto se passano dei bimbi
soprattutto se il cielo è sereno
soprattutto se ho avuto, quel giorno, una buona notizia
soprattutto se il cuore, quel giorno, non mi fa male
soprattutto se credo, quel giorno, che quella che amo mi ami
soprattutto se quel giorno mi sento d'accordo con gli uomini e con me stesso
veder cadere le foglie mi lacera dentro
soprattutto le foglie dei viali dei viali d'ippocastani.
(Nazim Hikmet)
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sabato 30 novembre 2013
RECENSIONE: "Le stelle fredde" di Guido Piovene (1907-1974)
Si
presta a diverse chiavi di lettura questo singolare romanzo di Guido Piovene,
vincitore del Premio Strega 1970. Intanto è un libro di difficile
catalogazione: una via di mezzo tra il giallo
metafisico (che pur avendo certe caratteristiche iniziali del giallo
tradizionale, se ne allontana velocemente per assumere connotazioni astratte)
ed il racconto dell’assurdo, che trova riscontro soprattutto nelle opere di
Kafka e di Camus (di quest’ultimo mi viene in mente “Lo straniero”).
L’assurdità, però, non risiede tanto nella prosa, che è lineare e scorrevole
(alcune descrizioni di ambienti sono veramente apprezzabili), quanto negli
avvenimenti suggestivi ed irreali che si succedono nella narrazione.
Il
protagonista del romanzo è un impiegato di una compagnia di aviolinee che si
occupa di pubblicità; egli non crede più nell’uomo, quell’uomo che nel passato
era stato il padrone del mondo e che adesso è “falso e abietto....che non domina, non trasforma, non esprime più
nulla”. Per lui gli alberi sono migliori, più umani, come quel vecchio
ciliegio davanti casa che aveva messo radici in un vecchio muro di cinta, che
gli parlava e da cui “gli piaceva essere
ricevuto dopo una lunga assenza”.
Con
questi sentimenti, un bel giorno, senza un apparente motivo, lascia il lavoro e
si ritira in campagna, in una casa ereditata dal nonno, nonostante non ami la
vita agreste. Qui si verificano dei fatti molto strani perché il nostro
personaggio – che anzitempo aveva lasciato anche la moglie – riceve minacce di
morte da un abitante del posto che, a sua volte viene misteriosamente ucciso.
Ma la cosa che più lo sconcerta - e ci sconcerta - è l’incontro con
Dostoevskij, lo scrittore russo che aveva di più amato in vita sua, ritornato
in vita dal mondo dei morti. “Avevo
deliberato che niente di quanto accadeva dovesse interessarmi o sembrarmi
strano. Dicevo che, se mai, ero io il vero morto; dunque, niente di strano che
ne avessi incontrato un altro probabilmente meno morto di me”.
Inizialmente,
si ha l’impressione che il protagonista sia incapace di rapportarsi con i suoi
simili, di vivere e di agire nella realtà circostante, di partecipare agli
affetti e agli avvenimenti che lo riguardano e cerchi, invece, di trovare la
sua dimensione umana e materiale in un altro mondo: il mondo dei morti,
l’aldilà. Poi scopriamo che l’aldilà è la sua vita di prima, da cui egli stesso
proviene e che il mondo (il passato e il presente) non è altro che un immenso
archivio, in cui sono conservate, come tante fotografie, tutte le cose che
accadono. Un mondo che esiste solo per essere catalogato. “Anche gli odi, le lagrime, le vite inutili e le morti fallite hanno
soltanto questo scopo, in cui non falliscono mai; gli assassinii, i massacri,
l’idiozia, la bassezza, le sofferenze degli amori traditi, accadono per essere
fotografati”.
La lettura di questo libro mi ha lasciato un po’ stordito. Se l’intento di Piovene era quello di disorientare il lettore, di proiettarlo in una dimensione sovrumana, ebbene, devo dire che ci è riuscito pienamente.
mercoledì 27 novembre 2013
RECENSIONE: "La lucina" di Antonio Moresco
La
trama è alquanto scarna: il protagonista, che è anche la voce narrante del
racconto, un bel giorno decide di lasciare il mondo in cui vive e ritirarsi in
una casupola in mezzo al bosco, nei pressi di un borgo abbandonato. Non ci è
dato conoscere il perché di questa estrema decisione. “Sono venuto qui per sparire” questo l’incipit del libro “in questo borgo abbandonato e deserto di
cui sono l’unico abitante”.
Da
queste prime battute, sono andato con il pensiero indirettamente a David
Thoreau, lo scrittore americano dell’800, noto per il suo libro autobiografico “Walden, ovvero la vita nel bosco”, in
cui raccontò la sua esperienza di vita alternativa in una casetta di legna nel
bosco, lontano dalla civiltà e dal consorzio umano, nel completo abbraccio con
la natura, in felice e solitaria contemplazione.
Devo
dire, però, che ho dovuto subito abbandonare questo confronto, perché l’autore
del romanzo, già dalle prime pagine, mi fa capire che il suo intento non è
quello di proporre un modello alternativo di vita, di aprire una finestra
spalancata su un altro modo di vivere e di sentire l’esistenza. No. Egli si
incammina, invece, verso un tortuoso percorso di ricerca interiore e ci conduce
in un mondo in cui la natura – metafora della vita - sembra una sorta di selva
oscura in cui gli alberi e tutte le altre forme vegetali sono in lotta tra di
loro per occupare un proprio spazio vitale. In altre parole, la natura
selvaggia in cui lui si è rifugiato per trovare quella pace e quella serenità
interiore, anziché accoglierlo benevolmente, pare vogliano respingerlo
inesorabilmente verso l’abisso. Ma ecco che nel suo vivere quotidiano appare
qualcosa di inaspettato; di notte, quando il buio si fa più fitto, il
protagonista vede accendersi, dall’altra parte del bosco, sempre alla stessa
ora, una strana ed insolita lucina. Incuriosito, dopo qualche giorno, decide di
raggiungere il luogo e con sua grande sorpresa appare di fronte a lui un
bambino, che vive da solo in mezzo al bosco, nelle sue stesse condizioni, in
una piccola casa di pietra.
Chi
sarà quel bambino che si materializza attraverso una luce di notte? E’ forse il
protagonista stesso che diventa bambino o, piuttosto, è quel “bambino” che
alberga nell’animo dell’autore/protagonista e quindi in ognuno di noi?
La
cosa che più mi ha colpito di questo romanzo - al di là della trama che
sconfina nel surreale - è certamente la scrittura: essenziale, asciutta, quasi
elementare in alcune circostanze, soprattutto quando lo scrittore si dilunga in
talune descrizioni che riguardano il vivere quotidiano del suo personaggio.
In
una nota introduttiva al libro, Antonio Moresco scriveva che questo racconto,
proprio per la sua particolare natura intima e segreta, sarebbe stato una sorta
di testamento spirituale, qualora fosse “crepato” il giorno dopo averlo
scritto. L’essenza di tale affermazione io l’ho trovata proprio nell’ultima
pagina.
martedì 26 novembre 2013
Il telefonino
Non
possiedo un telefonino e non sopporto quello degli altri, quando gli altri
mi costringono ad ascoltare le loro telefonate. Non capisco perché se uno
deve fare una telefonata la debba fare per strada e non a casa. Non capisco
perché se uno deve dire qualcosa a qualcuno, lo possa dire solo se è circondato
da altre persone. Non capisco perché tutto sia diventato urgente. Hanno fatto
una legge sulla privacy in un momento storico in cui la privacy non la vuole
nessuno.
Siamo
al primo posto nel mondo per il consumo di questo oggetto. Ce l’hanno tutti,
cani e porci, lo usano anche coloro che non sanno né parlare né stare zitti. Lo
tengono sempre in mano, bene in vista,
sia gli uomini che le donne. Alcuni luoghi, ormai, sono diventati impraticabili,
come i treni, gli autobus, tutti i locali pubblici. Squillano dappertutto:
nelle chiese, negli obitori, negli ospedali, nei cinema, nei cessi. E’ un
continuo mostrare a chi ce l’ha più bello, più alla moda, più grande. Una vera
pornografia telefonica.
Nel
libro di Philiph Roth “Il fantasma esce di scena” c’è una pagina memorabile che
dipinge molto bene l’isteria collettiva per il telefonino.
“…Ovunque andassi, qualcuno mi veniva incontro parlando al telefono e qualcuno mi seguiva parlando al telefono. Quando presi un taxi, l’autista era al telefono. Per uno che spesso passava molti giorni di seguito senza parlare con qualcuno, fui costretto a domandarmi cos’era crollato nella gente, di ciò che prima la teneva insieme, per rendere l’incessante chiacchiericcio telefonico preferibile a una passeggiata sotto la sorveglianza di nessuno, a un momento di solitudine che permetteva di assimilare le strade attraverso i propri sensi corporei e di pensare la miriade di pensieri che ispirano le attività di una città. Per me, faceva sembrare comiche le strade e ridicole le persone. Eppure sembrava anche un’autentica tragedia. Sradicare l’esperienza della separazione doveva avere inevitabilmente un effetto drammatico. Quali saranno le conseguenze? Tu sai che puoi raggiungere l’altra persona in ogni momento, e se non puoi diventi impaziente, impaziente e irritato come un piccolo, stupido dio. Sapevo bene che il silenzio di fondo era stato abolito da un pezzo nei ristoranti, negli ascensori e nei campi da baseball, ma che l’immensa solitudine degli esseri umani dovesse produrre questo sconfinato desiderio di essere ascoltati, unito al disinteresse per chi ascolta le tue conversazioni…be’, essendo io vissuto largamente nell’era delle cabine telefoniche, le cui solide porte a fisarmonica potevano essere ermeticamente chiuse, rimasi colpito dalla cospicuità di tutto questo e mi sorpresi a nutrire l’idea per un racconto in cui Manhattan diventava una sinistra collettività dove tutti spiano tutti gli altri, tutti sono controllati dalla persona all’altro capo della linea, anche se, nel telefonarsi senza posa da ogni parte,all’aria aperta, chi telefona crede di godere della massima libertà…”.
“…Ovunque andassi, qualcuno mi veniva incontro parlando al telefono e qualcuno mi seguiva parlando al telefono. Quando presi un taxi, l’autista era al telefono. Per uno che spesso passava molti giorni di seguito senza parlare con qualcuno, fui costretto a domandarmi cos’era crollato nella gente, di ciò che prima la teneva insieme, per rendere l’incessante chiacchiericcio telefonico preferibile a una passeggiata sotto la sorveglianza di nessuno, a un momento di solitudine che permetteva di assimilare le strade attraverso i propri sensi corporei e di pensare la miriade di pensieri che ispirano le attività di una città. Per me, faceva sembrare comiche le strade e ridicole le persone. Eppure sembrava anche un’autentica tragedia. Sradicare l’esperienza della separazione doveva avere inevitabilmente un effetto drammatico. Quali saranno le conseguenze? Tu sai che puoi raggiungere l’altra persona in ogni momento, e se non puoi diventi impaziente, impaziente e irritato come un piccolo, stupido dio. Sapevo bene che il silenzio di fondo era stato abolito da un pezzo nei ristoranti, negli ascensori e nei campi da baseball, ma che l’immensa solitudine degli esseri umani dovesse produrre questo sconfinato desiderio di essere ascoltati, unito al disinteresse per chi ascolta le tue conversazioni…be’, essendo io vissuto largamente nell’era delle cabine telefoniche, le cui solide porte a fisarmonica potevano essere ermeticamente chiuse, rimasi colpito dalla cospicuità di tutto questo e mi sorpresi a nutrire l’idea per un racconto in cui Manhattan diventava una sinistra collettività dove tutti spiano tutti gli altri, tutti sono controllati dalla persona all’altro capo della linea, anche se, nel telefonarsi senza posa da ogni parte,all’aria aperta, chi telefona crede di godere della massima libertà…”.
sabato 23 novembre 2013
RECENSIONE: "Noi credevamo" di Anna Banti
Anna Banti, pseudonimo di Lucia Lopresti, è una scrittrice
toscana, di origine calabrese. Con questo bel libro “Noi credevamo”, poco
conosciuto al grande pubblico dei lettori - da cui peraltro il regista Mario Martone ha
tratto un suo film, che ha il merito di aver rilanciato anche la lettura del
romanzo – rivive le aspirazioni ed i ricordi del nonno (Don Domenico Lopresti)
un fervente repubblicano mazziniano, il quale si era illuso che l’unificazione
d’Italia avesse finalmente cambiato in meglio anche le sorti della sua
Calabria, nonché le condizioni di vita di tutto il Meridione.
Ora, alla soglia dei suoi settant’anni - a poco più di
vent’anni dall’Unità d’Italia (siamo nel 1883) - questo ormai decaduto nobiluomo
calabrese, che in gioventù aveva patito 12 anni di dura detenzione nelle
carceri borboniche di Procida, Montefusco e Montesarchio, per essere stato un
fomentatore di disordini sociali, ormai solo, malato e amareggiato, si ritrova
a scrivere le sue memorie attraverso i ricordi di una vita, e lo fa quasi di
nascosto dalla moglie e dai suoi due figli, nella sua casa di Torino, dove si
era trasferito da due anni, per la gioia della moglie piemontese Annetta.
Non ama nulla di Torino: né il suo ordine, né la sua mediocre
civiltà piena di sussiego, né il razzismo strisciante dei suoi abitanti nei
confronti dei meridionali, che sono tutti “napoletani,
soggetti da guardarsene, da sorvegliare, qualcosa di mezzo fra il brigante e
l’imbroglione”. Questi dissapori, questi contrasti nei confronti di Torino
e dei Piemontesi hanno il merito, però, di sortire “il piacere amaro e inebriante della nostalgia” della sua terra
lontana che, seppure da giovane gli facesse paura, nell’arida vecchiaia
rappresentava senz’altro una meritata conquista.
Il libro è pervaso da un velo di rassegnata delusione, che
appare chiara quando, attraverso la scrittura, Don Domenico rivive i momenti più
significativi del suo passato e si sofferma, con il pensiero, sugli ideali risorgimentali
traditi e calpestati dagli eventi, ripensando a tutti gli anni durante i quali
aveva lavorato e cospirato per il riscatto dei poveri della sua terra, nei cui
confronti aveva riposto fiducia e comprensione per convincersi, alla fine, che
si era ingannato, perché “i pregiudizi
dell’ignoranza secolare erano il vero nemico da vincere e che le nostre povere
armi di settari fanatici li lasciavano freddi e indifferenti”.
Nato nel fondo di una terra arretrata, com’era la Calabria
dell’800, il giovane Domenico Lopresti, nel guardarsi intorno non vedeva altro
che grandi miserie e sporchi privilegi e, immaginando un futuro migliore,
com’era giusto che fosse a quell’età, le sue legittime aspirazioni si
scontravano inesorabilmente con l’esempio di uomini oziosi e prepotenti e con la
necessità di dover servire “un governo
torpido e crudele”, rappresentato dalla dinastia borbonica; scegliere,
quindi, di mutare il corso delle cose attraverso l’attività politica voleva
dire abbracciare una setta segreta, così come facevano certi uomini, i più
coraggiosi, quelli a cui il giovane avrebbe voluto somigliare, che venivano
designati come giacobini e carbonari.
Ma cambiare quella realtà significava anche dover fronteggiare
un mondo ostile rappresentato da una società contadina fondata su arcaiche
credenze, che guardava con pregiudizio e sospetto chi rappresentava loro la
possibilità di poter costruire una società migliore, libera dai lacci e dalle
angherie di una monarchia straniera. E bisognava tener conto anche dei
“traditori”, che per lo più erano uomini poverissimi e ignoranti i quali,
sebbene avessero creduto inizialmente nella rivoluzione, fidando nel riscatto
sociale, spinti dalla fame e dalla miseria finivano per riabbracciare l’antica
reputazione per i Borboni, quali protettori dei poveri e nemici dei feudatari
prepotenti.
Ha quasi l’impressione, il nostro personaggio, di aver
vissuto e sofferto invano per la realizzazione di quella sua idea repubblicana
di Risorgimento, contrapposta all’idea monarchica; non saprà mai se agendo
diversamente, con più accortezza e minore orgoglio, avrebbe meglio giovato alla
causa di quelle idee che ancora crede giuste: e questo dubbio rappresenta l’unica
salvezza che gli è rimasta.
Nel suo monologo interiore, portato avanti attraverso la
scrittura, Don Domenico Lopresti percepisce per la prima volta di sopravvivere,
anzi di non essere mai stato così vivo come nel momento stesso in cui racconta
la propria esistenza. Egli, che mal sopportava gli uomini di penna, avverte
finalmente questo piacere e comprende di essere cambiato perché riconosce la
propria memoria quale unica speranza di sopravvivenza: “in vecchiaia ho scoperto che scrivere aiuta a pensare, finché scrivo
penso, non ci rinuncerò...”
Quella memoria che - mentre se ne sta a letto nella sua casa
torinese, dove gli ha dato appuntamento la morte – lo esorta a rintracciare,
tra i suoi ricordi legati alle sue responsabilità e a quelle degli altri “l’errore in cui siamo caduti, l’inganno che
abbiamo tessuto senza volerlo...eravamo in tanti...noi credevamo”.
venerdì 22 novembre 2013
RECENSIONE: "ELOGIO DELL'EGOISMO" di ARMANDO TORNO
Dopo le “Virtù dell’ozio”, scritto nel 2001, il cui titolo
già sintetizzava una filosofia di vita, Armando Torno appare nelle librerie con
questo suo ultimo libro “Elogio dell’egoismo” con cui sembra voler riflettere
ancora una volta su alcune tematiche a lui molto care: il tempo vissuto
freneticamente, l’amor proprio, i falsi valori che spadroneggiano in questa
nostra società.
Attraverso una scrittura pacata e piacevole, ci invita a
vincere l’ansia e gli affanni che ci assillano quotidianamente, a coltivare con
più attenzione il nostro amor proprio, insomma a pensare di più a noi stessi,
ad essere un po’ egoisti e a non lasciarci schiacciare da quelle false sirene
che in ogni momento della giornata sembrano volerci catturare.
Ci ricorda che su questa terra abbiamo a disposizione una
sola esistenza e, pertanto non ci conviene buttarla via. Viviamo in un tempo in
cui siamo portati a fare troppe cose insieme. Da qui nasce l’ansia. E allora
limitiamoci alle azioni essenziali, impariamo a guardare le cose con il giusto
distacco.
Attraverso le sue pagine, lo scrittore ci invita a diffidare
da coloro che appaiono sempre impegnati e che non riposano mai; si scaglia con
ironia contro la consolidata abitudine delle “riunioni” sui posti di lavoro “chissà
perché la nostra epoca ne ha un bisogno forsennato, continuo,
irrefrenabile...ci si riunisce a volte senza una precisa ragione, senza nemmeno
accorgersi che si sarebbero potute evitare ottenendo risultati migliori”. Ci
mette in guardia dal dio denaro, che sembra essere diventato il valore
assoluto, una vera schiavitù, con cui misurare
ogni azione, ogni comportamento umano; ci consiglia di adoperare con
parsimonia il telefonino, perché se da un lato ci consente di comunicare
velocemente con tutti, dall’altro “ci assilla e mette a dura prova il nostro
sistema nervoso”.
Il libro è costellato di citazioni, di consigli, di
osservazioni essenziali sulla natura umana, tratte dalle opere dei grandi della
letteratura e della filosofia. Si affida, a conforto delle sue riflessioni, alle
parole di Seneca e di Marco Aurelio, di
Montaigne e di Oscar Wilde, di Epicuro e di Orazio e di tanti altri pensatori
della nostra antica e recente storia.
Un libro da gustare, oserei dire da tenere sul comodino, con
cui riflettere per combattere gli egoismi del mondo contemporaneo e conoscere
un po’ la natura umana.
martedì 12 novembre 2013
LA LIBRERIA
Per me la libreria - la mia libreria - è fatta di desideri:
di leggere ...(libri che sono in attesa di essere letti); di rileggere ...(libri
che vorrei tanto riprendere in mano); di possedere ... (ah! questo libro mi
piacerebbe averlo).
È fatta di sbagli : libri di cui se ne poteva fare a meno, ma l'ho capito tardi,
ed ora mi dispiace rivenderli, darli via.
E’ fatta di forzature: quel libro l’ho preso perché non
potevo uscire dalla libreria senza niente.
E’ fatta di prestiti: libri mai restituiti (ebbene sì, un
paio.... dimenticanze).
È fatta di assenze: tutti quelli che stanno ancora altrove e che per ora qui non trovano posto; tutti quelli che avrei voluto comprare ma per i quali sto esercitando la virtù della moderazione; tutti quelli che spero arriveranno.
È fatta di gran confusione: libri alti e bassi, grandi e piccoli, bianchi e gialli, rossi e blu, neri e verdi, belli e brutti, tascabili e rilegati, sporchi di muffa e ancora profumati di carta nuova, comprati nuovi di zecca o trovati nei mercatini, parcheggiati in doppia fila, accucciati di piatto davanti agli altri, accatastati sopra gli altri.
È fatta di assenze: tutti quelli che stanno ancora altrove e che per ora qui non trovano posto; tutti quelli che avrei voluto comprare ma per i quali sto esercitando la virtù della moderazione; tutti quelli che spero arriveranno.
È fatta di gran confusione: libri alti e bassi, grandi e piccoli, bianchi e gialli, rossi e blu, neri e verdi, belli e brutti, tascabili e rilegati, sporchi di muffa e ancora profumati di carta nuova, comprati nuovi di zecca o trovati nei mercatini, parcheggiati in doppia fila, accucciati di piatto davanti agli altri, accatastati sopra gli altri.
E’ fatta di difficoltà: libri che ho cominciato a leggere,
ma che non riesco a portare a termine.
E’ fatta di ricordi: libri ricevuti in regalo, tra le
cui righe posso scorgere o ritrovare la persona che me li ha regalati; libri
che mi riportano alla mia giovinezza ed alle mie prime letture; libri che non
si dimenticano mai, come il primo amore.
E’ fatta di rimpianti: nel guardare tutti quei libri che
stanno davanti a me, non posso non pensare che a volte la vita si prende gioco di
loro e si vendica, maltrattando l’intelligenza.
domenica 10 novembre 2013
RECENSIONE: "LE AVVENTURE DI PINOCCHIO" di CARLO COLLODI
Non amo le favole. Forse perché, quand’ero piccolo, nessuno
me le ha mai raccontate; le favole vanno lette ai bambini, affinché da grandi
possano rimanere vive nella memoria. Ma Pinocchio, o meglio “Le avventure di
Pinocchio”, è un libro talmente speciale che
è conosciuto praticamente da tutti, anche da chi non l’ha mai letto e,
comunque, lo si può leggere in qualsiasi stagione della nostra vita. Perché è
un libro universale, per grandi e per piccoli; perché commuove e appassiona, fa
ridere e fa piangere, diverte e istruisce. E’ un libro che racconta la vita,
nelle sue innumerevoli vicissitudini, che racconta le passioni e le cattiverie
dell’uomo, ma che si sofferma anche sugli slanci di altruismo e di solidarietà
che attraversano l’animo umano.
Pinocchio, questo simpatico e bellissimo burattino di legno,
rappresenta nella sua reale semplicità un autentico capolavoro di ebanisteria –
oserei dire - degna creazione di quel grande “maestro d’ascia” della
letteratura che si è rivelato Collodi, pseudonimo di Carlo Lorenzini, lo
scrittore fiorentino che pubblicò il libro nel 1883. Per me il burattino
Pinocchio va tutelato come patrimonio dell’umanità, come il David di
Michelangelo, perché incarna l’espressione fiabesca del genio italico nel
mondo, considerato che il libro è stato praticamente tradotto in quasi tutte le
lingue, ed è conosciuto nel mondo quanto il Colosseo o la Basilica di S.
Pietro.
Negli anni della fanciullezza avevo letto pagine sparse del
libro, senza avere la capacità di fare una riflessione più profonda sul
significato del testo; ora, rileggendolo, il mio pensiero è andato
immediatamente al libro della Genesi, dove si legge che il Signore Dio creò
l’uomo dal fango della terra, gli soffiò sul volto lo spirito della vita e
quella creatura divenne un essere vivente. Il creatore, quindi, visto come una
sorte di artigiano – non vorrei essere blasfemo – che modella l’argilla a sua
immagine e somiglianza e ne ottiene il primo uomo.
Mi piace immaginare un Collodi, che accingendosi a scrivere
il suo libro, abbia pensato - almeno per un momento - al sacro libro della
Genesi e si sia ispirato alla più grande e sublime delle creazioni divine
(effettuata da Nostro Signore il 6° giorno) per portare a termine la sua fatica
e quindi la sua personale “creazione”: quel burattino chiamato Pinocchio,
costruito da un pezzo di legno dall’artigiano Geppetto. Certo, un accostamento
alquanto azzardato, ma per me resta sicuramente affascinante. Sia l’uomo
apparso per la prima volta sulla terra creato da Dio, che il bambino/burattino,
nato dalla straordinaria fantasia di Collodi, sono stati modellati con un
materiale molto comune presente in natura: nel primo caso, il fango; nel
secondo un pezzo di legno, che non era “un legno di lusso, ma un semplice pezzo
di catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per
accendere il fuoco e per riscaldare le stanze”, così si legge nel libro.
E’ veramente incredibile come queste due meravigliose
“creature”, ossia l’uomo, signore indiscusso dell’universo e Pinocchio,
l’immaginario collettivo della fiaba universale che incarna il bambino
indisponente e bugiardo che è in noi, siano nati non già da un materiale ricco
e pregiato, come potrebbe essere l’oro o qualsiasi altra sostanza preziosa, ma
dalla terra e dal legno. Quasi a voler significare che la bellezza si genera
dalla semplicità piuttosto che dalla ricchezza. Esiste forse in natura un
qualcosa di più bello della “persona umana”, intesa come la massima espressione
dell’intelligenza e della perfezione? E forse esiste nel mondo delle favole un
personaggio che sia più amato del burattino Pinocchio, che diventa bambino e
quindi uomo nel momento stesso in cui sa prendersi le sue responsabilità?
Pinocchio ci rappresenta e ci somiglia, con i suoi vizi e le
sue virtù, con i suoi momenti di tristezza e con i suoi slanci di gioia e di
affetto, con la sua furbizia, ma anche con la sua ingenuità. C’è forse qualcuno
che non abbia mai disubbidito ai suoi genitori, o che non abbia mai pensato di
marinare la scuola, almeno una volta nella sua vita? O che non si sia fatto
imbrogliare da qualcuno più sveglio, pagandone le conseguenze?
Personaggi come Geppetto, il Gatto e la Volpe, Mangiafoco,
il Grillo parlante, la Fatina e tante
altre mirabili invenzioni restano indelebili nella memoria collettiva, miti
intramontabili della nostra fanciullezza, a cui ricorriamo ogni qualvolta
abbiamo desiderio di ritornare bambini e credere nelle favole.
E poi come dimenticare quel finale, un po’ a sorpresa, che
in qualche maniera ci sconcerta, in cui il burattino di legno diventa un
ragazzo in carne e ossa. Una trasformazione che vuole rappresentare,
metaforicamente, il passaggio dalla fanciullezza alla maturità, dalla
spensieratezza e dalle imprudenze tipiche dei bambini alla consapevolezza ed
alla responsabilità degli adulti. E quell’immagine del burattino inerme
“appoggiato a una seggiola, col capo girato su una parte, con le braccia
ciondoloni e con le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo” non può che
metterci un po’ di tristezza, perché perdiamo un amico a cui ci eravamo
affezionati e in cui ci eravamo immedesimati allorquando, con le sue ribellioni
e le sue disubbidienze, combatteva la sua personale battaglia contro il mondo
degli adulti.
PRESENTAZIONE DEL BLOG
Se mi chiedessero qual è il tuo rammarico più grande, non
avrei dubbi nel rispondere che è quello di non aver dedicato un po’ di tempo
della mia vita alla scrittura.
“Nulla dies sine linea” diceva lo scrittore romano Plinio il
Vecchio: non lasciar passare neanche un giorno senza scrivere una riga.
Fermare i propri pensieri su un foglio, trascrivere tutte quelle riflessioni, quelle considerazioni che attraversano la nostra mente in un determinato momento, significa essenzialmente fermare il tempo e non disperdere ciò che ci appartiene.
Sono stato da sempre un discreto lettore, per mia grande fortuna. Ma non ho mai scritto un libro, per la grande fortuna degli altri. Ho grande rispetto per i libri e, pertanto, non avrei mai la spudoratezza di scriverne uno. Basta entrare in una grande libreria, per capire che il mondo non ha bisogno di un libro in più.
E allora, abbandonata l’idea del libro, perché non scrivere una recensione di ogni libro letto? Perché non tracciare un percorso formativo fatto di letture? Da qui nasce questa idea – iniziata nel 2009 - che io trovo estremamente interessante perché mi dà la possibilità di esercitare quella che io ritengo una delle attività più nobili che l’uomo abbia inventato: la scrittura.
Ora, attraverso questo blog, ho deciso di divulgare queste mie, seppure modeste recensioni, congiuntamente ad altre riflessioni che mi passano per la testa, per soddisfare, forse, quell’intimo desiderio insito in ogni uomo che scrive di essere letto e – chissà – per invogliare qualcuno che dovesse passare da queste parti a leggere qualche libro.
Fermare i propri pensieri su un foglio, trascrivere tutte quelle riflessioni, quelle considerazioni che attraversano la nostra mente in un determinato momento, significa essenzialmente fermare il tempo e non disperdere ciò che ci appartiene.
Sono stato da sempre un discreto lettore, per mia grande fortuna. Ma non ho mai scritto un libro, per la grande fortuna degli altri. Ho grande rispetto per i libri e, pertanto, non avrei mai la spudoratezza di scriverne uno. Basta entrare in una grande libreria, per capire che il mondo non ha bisogno di un libro in più.
E allora, abbandonata l’idea del libro, perché non scrivere una recensione di ogni libro letto? Perché non tracciare un percorso formativo fatto di letture? Da qui nasce questa idea – iniziata nel 2009 - che io trovo estremamente interessante perché mi dà la possibilità di esercitare quella che io ritengo una delle attività più nobili che l’uomo abbia inventato: la scrittura.
Ora, attraverso questo blog, ho deciso di divulgare queste mie, seppure modeste recensioni, congiuntamente ad altre riflessioni che mi passano per la testa, per soddisfare, forse, quell’intimo desiderio insito in ogni uomo che scrive di essere letto e – chissà – per invogliare qualcuno che dovesse passare da queste parti a leggere qualche libro.
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