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lunedì 28 marzo 2022

L'uso del tempo

 


Dalla prima lettera di Seneca a Lucilio:

Fa così, caro Lucilio: renditi veramente padrone di te e custodisci con ogni cura quel tempo che finora ti era portato via, o ti sfuggiva. Persuaditi che le cose stanno come io ti scrivo: alcune ore ci vengono sottratte da vane occupazioni, altre ci scappano quasi di mano; ma la perdita per noi più vergognosa è quella che avviene per nostra negligenza. Se badi bene, una gran parte della vita ci sfugge nel fare il male, la maggior parte nel non fare nulla, tutta quanta nel fare altro da quello che dovremmo. Puoi indicarmi qualcuno che dia un giusto valore al suo tempo e alla sua giornata, e che si renda conto com’egli muoia giorno per giorno? In questo c’inganniamo, nel vedere la morte avanti a noi, come un avvenimento futuro, mentre gran parte di essa è già alle nostre spalle. Ogni ora del nostro passato appartiene al dominio della morte. Dunque, caro Lucilio, fa ciò che mi scrivi; fa tesoro di tutto il tempo che hai. Sarai meno schiavo del domani, se ti sarai reso padrone dell’oggi. Mentre rinviamo i nostri impegni, la vita passa. Tutto, o Lucilio, dipende dagli altri; solo il tempo è nostro. Abbiamo avuto dalla natura il possesso di questo solo bene sommamente fuggevole, ma ce lo lasciamo togliere dal primo venuto. E l’uomo è tanto stolto che, quando acquista beni di nessun valore, e in ogni caso compensabili, accetta che gli vengano messi in conto; ma nessuno, che abbia cagionato perdita di tempo agli altri, pensa di essere debitore di qualcosa, mentre è questo l’unico bene che l’uomo non può restituire, neppure con tutta la sua buona volontà.

Mi domanderai forse come mi comporti io che ti do questi consigli. Te lo dirò francamente: il mio caso è quello di un uomo che spende con liberalità, ma tiene in ordine la sua amministrazione; anch’io tengo i conti esatti della spesa. Non posso dire che nulla vada perduto, ma sono in grado di dire quanto tempo perdo, perché e come lo perdo; posso cioè spiegare i motivi della mia povertà. Capita anche a me, come alla maggior parte della gente caduta in miseria senza sua colpa: tutti sono disposti a scusare, ma nessuno viene in aiuto. E che dunque? Per me non è povero del tutto colui che, per quanto poco gli resti, se lo fa bastare. Ma tu, fin d’ora, serba gelosamente tutto quello che possiedi; e avrai cominciato a buon punto, poiché – ci ammoniscono i nostri vecchi – “è troppo tardi per risparmiare il vino, quando si è giunti alla feccia”. Nel fondo del vaso resta non solo la parte più scarsa, ma anche la peggiore.  Addio.


martedì 22 marzo 2022

Il tempo e la felicità

 


La cosa che più amavo di Luciano De Crescenzo – l’ingegnere-filosofo di Napoli (morto nel 2019) che ha saputo raccontare la filosofia come nessun altro – era quel suo modo disincantato, ironico e beffardo di rapportarsi alle cose della vita. E poi quella sua irresistibile simpatia, quel suo modo arguto di parlare, quel suo umorismo così trascinante, in puro stile napoletano, che ne facevano un personaggio straordinario. Ho letto nel passato molti dei suoi libri, a cominciare da “Così parlò Bellavista”, il suo esordio letterario. Ma io qui vorrei ricordare un altro libro dal titolo evocativo: “Il tempo e la felicità”. Chi mastica un po' di filosofia sa che Lucio Anneo Seneca – filosofo dell’antica Roma - inviò al suo amico di Pompei – Lucilio - ben 124 lettere raccolte nella sua opera più famosa, “Lettere a Lucilio”.



Un libro che io tengo sempre a portata di mano, sul comodino, in cui cerco di trovare conforto quando l’insensatezza dei tempi che viviamo diventa insopportabile. Queste lettere, tutte piene di preziosi consigli su come raggiungere la felicità, o meglio una vita più serena, affrontano i grandi temi dell’esistenza: dall’amore alla morte, dall’amicizia alla vecchiaia, dalla povertà alla ricchezza, dal tempo alla solitudine… e via discorrendo. De Crescenzo, ne "Il tempo e la felicità", libro che si fa leggere con autentico piacere, riporta alcune epistole di Seneca – liberamente interpretate come solo lui sapeva fare – arricchite con i suoi gustosi commenti; e giacché si trova, svela anche le risposte di Lucilio a Seneca, che a noi non sono mai pervenute. Lui, però, dice di averle ritrovate scavando nella cantina di casa sua a Roma, in Via dei Fori Imperiali. Dobbiamo credergli? Uhm! Lasciamo perdere! Intanto mi piace riportarne, di seguito, un assaggio proprio “sulla lettura e sulla sua importanza”:

Caro Lucilio,

ho ricevuto il libro che mi avevi promesso e te ne sono grato. All’inizio, a essere sincero, non avevo molta intenzione di leggerlo. L’ho messo da parte, per poi leggerlo con comodo in un secondo momento. Sennonché mi è capitato di leggerne le prime pagine, e a quel punto non sono più riuscito a staccarmene. Pur essendo un testo voluminoso mi è sembrato breve e conciso, tanto era scorrevole il suo stile. Avrebbe potuto essere un’opera di Tito Livio o di Epicuro. L’ho letto tutto di un fiato, da cima a fondo, e alla fine ho esclamato: “che autore, che ingegno, che spirito, che slancio!” Certo che anche il soggetto ha contribuito a rendere più interessante la lettura. Per il momento, però, non ho intenzione di dirti altro: aspetta che lo rilegga una seconda volta e poi tre ne darò un ponderato giudizio. Addio

tuo Lucio Anneo

(Sen-46)

Caro Lucio Anneo,

la tua ultima lettera mi ha reso davvero felice. Mi hai scritto che ti è molto piaciuto il libro che ti ho inviato, e la notizia mi ha riempito di gioia. Apparentemente la lettura è un’attività solitaria, da svolgere nel chiuso di una stanza, e invece, non appena un libro passa da una mano all’altra, diventa immediatamente un mezzo di comunicazione che ci fa sapere se apparteniamo o meno alla stessa categoria umana. Poter parlare di un libro che è piaciuto a entrambi è come andare insieme a fare un viaggio: ognuno gode della meraviglia dell’altro. Se poi l’altro è anche un amico, la gioia aumenta in proporzione. Su questo aspetto della lettura, infatti, non sono assolutamente d’accordo con Socrate. Ora, non so se ti ricordi, ma nel Fedro il nostro filosofo se la prende con il Dio Theuth, inventore dei numeri, dei dadi e della scrittura, e lo accusa di aver inventato un sistema abominevole che condurrà l’uomo in un baratro d’ignoranza. Fidandosi del fatto che tutto quello che c’è da sapere si trova nei libri, l’uomo non eserciterà più la memoria e finirà col perdere l’uso del cervello. Meglio parlare con un essere umano, sostiene Socrate, che leggere un libro, giacché a un libro non puoi fare delle obiezioni, mentre a un essere umano sì: il libro risponderà sempre nello stesso modo, quello nel quale ha risposto la prima volta che lo hai letto. Si comporterà in pratica come una statua di marmo alla quale è inutile fare domande. Evidentemente, però, Socrate sottovalutava il libro come collegamento tra due persone che si stimano. Nel nostro caso, ad esempio, è servito a evidenziare le nostre affinità. Se è piaciuto a te, e se è piaciuto a me, vuol dire che almeno in questo ci rassomigliamo, e la cosa non può che farci piacere. Addio

tuo Lucilio

Purtroppo, non sono nelle condizioni di poter prestare questo libro a chicchessia. Se c’è qualcuno interessato alla sua lettura, non deve fare altro che cercarlo in qualche libreria o sui banchetti dell’usato. A me è piaciuto: e se dovesse piacere anche a te – caro lettore - “vuol dire che almeno in questo ci rassomigliamo, e la cosa non può che farci piacere”. Parola di "Lucilio".




martedì 15 marzo 2022

I balconi del millenovecento

 


Non potrei vivere in una casa senza un balcone. Le sole finestre che danno verso l’esterno non mi bastano. In una città come Roma il balcone diventa un vero punto di forza, un ambiente domestico in più per vivere all’aperto. Certo, il mio balcone di Roma non si affaccia sui Fori o su Piazza Navona, né mi offre quel gradevole panorama di cui posso godere standomene seduto sul balconcino al mio paese. Questo è un balcone cittadino, incastonato in un palazzo di periferia accerchiato da altri palazzi, in un contesto abitativo (seppure decoroso e civile) progettato da urbanisti crudeli, dove la bellezza – purtroppo - non trova dimora. Tuttavia questo balcone costituisce, per me, un prezioso rifugio esterno, malgrado non offra un panorama all’altezza. E’ parte del mio vivere quotidiano, riflette il mio amore per le piante e i fiori che lo adornano e che io curo con tanta passione. Luogo di congiunzione tra l’interno della casa e l’esterno, vi trascorro molte ore durante le belle giornate estive, a leggere o a fantasticare altre vedute. Uno spazio dell’anima riparato da una tenda, per pensare e rilassarmi nelle ore di dolce malinconia. “…A noialtri napoletani – dice Eduardo in quel famoso monologo del caffè nella commedia “Questi fantasmi” - toglieteci questo poco di sfogo fuori al balcone…Io, per esempio a tutto rinunzierei tranne a questa tazzina di caffè, presa tranquillamente qua, fuori al balcone, dopo quell’oretta di sonno che uno si è fatta dopo mangiato”.

Il balcone è sempre stato uno spazio magico che ha ispirato gli artisti di ogni epoca, dai pittori ai poeti ai cantanti. Ci sono alcuni dipinti che sono ormai impressi nell’immaginario collettivo. Mi viene da pensare a quel famoso quadro di Manet che si chiama semplicemente “Il balcone”, e poi la “Donna al balcone” di Zandomeneghi o le “Majas al balcone” di Goya. “Dal balcone – canta Franco Battiato - ammiravo il vuoto, che ogni tanto un passante riempiva…”. E il poeta americano Raymond Carver in una sua famosa poesia declama questi versi:

siamo
usciti sul balcone che dominava
il fiume e la città vecchia.
E siamo rimasti lì senza parlare.
Nudi. A osservare il cielo schiarirsi.
Così felici ed emozionati.

L’altro ieri, approfittando della giornata quasi primaverile, ho trascorso un po' di tempo sul mio balcone cittadino, in compagnia delle poesie di Erri De Luca. Dalla sua raccolta “L’ospite incallito” non potevo che sceglierne una:

I balconi del millenovecento

Prima dei telefoni i balconi,
si usciva fuori e si mandava a dire.
Erano lo sfogo della casa,
le ragazze non uscivano a spasso
tranne per la funzione, la domenica.
Però stavano in vista sul balcone,
passava il giovanotto, un fiore conficcato nell'occhiello,
una sbirciata a scippo, l'intesa fulminata,
telegramma spedito con le ciglia.
Al balcone tra i vasi la ragazza dipanava un gomitolo,
ricamava a telaio, fingeva di pungersi con l'ago
per liberare gli occhi messi in giù.
Mia nonna si fidanzò al balcone.
E mia madre, d'estate, dopoguerra,
con altri amici esce sul balcone per il fresco
e un uomo, ventottanni, sedutosi vicino le chiede
di sposare.
Provengo dall'incontro di loro due là fuori, a Mergellina,
col cielo giocoliere del tramonto.
Ma da un altro balcone s'era affacciato pure l'impettito
a dichiarare guerra, sporgendosi rapace e pappagallo
sulla folla ubriaca di se stessa.
Era meglio se usciva alla finestra
e meglio ancora se teneva chiuso, così non si guastava
la storia dei balconi e dell'Italia del millenovecento.

Erri De Luca

giovedì 10 marzo 2022

Le parole

 


“non amavo altro che le parole: avrei innalzato cattedrali di parole sotto l’occhio azzurro della parola cielo”

 


Ancora una rilettura: “Le parole” di Jean Paul Sartre, pubblicato nel 1964, l’anno in cui lo scrittore francese rifiutò il Premio Nobel, per difendere la sua libertà di pensiero.  Non me lo ricordavo così piacevole! Probabilmente la prima volta che lo lessi – credo negli anni ‘80 – non avevo ancora maturato le necessarie attitudini per apprezzare la bellezza di certi libri autobiografici. A conferma del fatto che a volte il gradimento o meno di un libro dipende anche dal periodo in cui lo si legge.

 

Con questa opera Sartre ripercorre la sua dorata infanzia trascorsa in una famiglia borghese che vantava, tra i suoi membri, illustri intellettuali e pastori luterani. Intriso di autoironia, “Le parole” è diviso in due parti: “leggere” e “scrivere”. E mette al centro della narrazione quel bambino che fu Sartre, il quale aveva un solo difetto: era troppo avanti rispetto alla sua età. Orfano del padre morto prematuramente, fu il nonno a incarnare la figura paterna, un autoritario e intransigente professore di tedesco che stravedeva per il nipote. Lo considerava la sua “meraviglia”, e la sua sola presenza lo appagava totalmente e lo rendeva felice. E lui, il piccolo Jean Paul, si divertiva a recitare la parte del bravo bambino: non piangeva mai, non faceva rumore, appariva serioso, rideva poco e gli “piaceva piacere”. In famiglia lo adoravano e lo viziavano e lo coccolavano: gli dicevano che era intelligente, che era bello, lo ritraevano in mille pose ritoccando anche le foto con matite colorate. La madre, che non aveva conosciuto molto suo marito “né prima né dopo il matrimonio” e che preferiva il dovere al piacere, metteva nella vita di quel bambino “tutto quello che mancava alla sua”. E poi tutti lo controllavano e si preoccupavano della sua salute delicata, “non lo trovi un po' palliduccio ?…Sono sicuro che è dimagrito!”, e gli sentivano il polso gli misuravano la febbre lo costringevano a far vedere la lingua… E lui, sotto questi sguardi inquisitori si sentiva un oggetto, “un fiore nel vaso”.

 

E poi c’erano i libri nella grande biblioteca del nonno, la sua prima grande scoperta, con i quali voleva fare quotidianamente “un bagno di cultura”. Non sapeva ancora leggere, però era affascinato da quei volumi stretti sui ripiani come mattoni. Li osservava, li toccava, li sfogliava di nascosto per “onorare” le sue mani con la loro polvere, e assisteva ogni giorno a un cerimoniale di cui gli sfuggiva il significato: il nonno maneggiava quegli oggetti culturali “con una destrezza da officiante”. Talvolta si avvicinava per osservare da vicino quelle “scatole che si aprivano come ostriche” e scopriva che al suo interno con c’era niente, solo dei “fogli pallidi e muffiti, leggermente gonfi, coperti di venuzze nere, che assorbivano l’inchiostro e mandavano un sentore di fungo”. Giorno dopo giorno, però, le parole che scopriva in quei libri e quelle che andava scrivendo nei suoi quaderni divennero “la quintessenza delle cose”. Aveva trovato la sua religione, la libreria era il suo tempio, e nulla gli pareva più importante di un libro. Scrivendo esisteva e si sottraeva alle persone grandi. “Questo bambino sarà uno scrittore” - dicevano in famiglia - e il nonno, che si estasiava sulle sue virtù, posando la mano sul suo cranio, amava ripetere: “ha il bernoccolo della letteratura”. Lo “lasciarono vagabondare fra i libri” e fra i suoi quaderni che riempiva di parole, e lui diede “l’assalto all’umano sapere”.


giovedì 3 marzo 2022

Pagine ingiallite

 



Il nome che diamo a un blog non nasce mai per caso: cerchiamo sempre di sceglierne uno che, in qualche maniera, dica qualcosa di noi in anteprima. Magari un nome capace di stimolare anche l’immaginazione, con il suo carico di contenuti simbolici, e far nascere in chi vi si accosta per la prima volta, curiosità e interesse. E’ una sorta di biglietto da visita. Il nostro marchio on line.

“Pagine ingiallite”, il nome del mio blog, racconta tante cose di me, prima ancora di leggere un qualsiasi post. Se questo spazio in rete lo avessi chiamato “il blog di Pino”, non avrebbe sortito lo stesso effetto evocativo: sarebbe stato come “il blog di tizio” o il “blog di caio”... Nomi, quest’ultimi, che non dicono nulla dell’autore che vi sta dietro. E nulla suggeriscono circa i temi trattati. Naturalmente il discorso cambia se l’autore del blog è un personaggio famoso: in quel caso basta nome e cognome, non occorre altro. Beppe Grillo - per esempio – non avrebbe aggiunto nulla al suo blog se lo avesse chiamato - non so - “il grillo parlante”. Il nome di un blog sconosciuto è, a prima vista, come il titolo di un libro che cattura la nostra attenzione e, pur non conoscendo l’autore, ci spinge a sfogliarlo e a leggere qualche pagina; è come una curiosa e bella copertina che invoglia ad andare oltre per scoprire ciò che contiene.

“Pagine ingiallite” – il mio blog - rimanda ad un mondo antico, con i segni che il tempo lascia sui luoghi, sulle cose e sulle persone quale traccia del suo passaggio; racchiude un mondo poco avvezzo agli eccessi della modernità e della tecnologia che oggi hanno il predominio e tiranneggiano la nostra esistenza. Allude – il nome del mio blog - a un sentimento nostalgico che si appropria di ombre e silenzi, e rifugge le luci troppo accese e violente dell’oggi; racconta della vita ritessuta secondo comportamenti non omologati; offre una diversa riflessione basata sul filo della memoria e della malinconia dove aspetti positivi del passato, sopravvissuti allo scorrere del tempo, diventano ammaestramenti di vita per il presente.  Un titolo come “Pagine ingiallite” parla di solitudine, di cose usate, di serate accanto al focolare, di vecchi muri imbruniti dal tempo, del silenzioso camminare per un viottolo di paese. E parla naturalmente di libri. Ma non di quelli con la copertina patinata, i più venduti e più letti della settimana, ma di vecchi libri dimenticati, ingialliti e consumati dall’uso. Un po' di tempo fa, un amico blogger che scrive su “Ore a rovescio” (bel nome per un blog, carico di significati…) ha scritto - commentando un mio post - che io sono una sorta di “archeologo del novecento letterario” che porta alla luce vecchi reperti cartacei, magari scovati sui banchetti di qualche mercatino dell’usato, e poi li offre ai lettori con parole accattivanti, dopo averli ripuliti. E’ una definizione che mi piace assai! Ed è proprio così, perché la maggior parte dei libri che leggo e di cui scrivo sono in linea con il nome del blog: libri con le pagine ingiallite, libri di autori morti e dimenticati, libri abbandonati dagli editori ai quali cerco di dare una seconda vita, come si fa con il restauro di un mobile antico e pregiato. Affascinato dalla patina del tempo che avvolge quelle opere e dalla qualità letteraria che ne determina il valore.