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lunedì 21 settembre 2020

Da scrittori di un solo libro, a Ken Follett

 


Ci sono alcuni scrittori che hanno dedicato l’intera esistenza a scrivere un solo romanzo, ed è bastato per conquistare l’immortalità. Penso a Boris Pasternak con “Il Dottor Zivago”, a David Salinger con “Il giovane Holden”, a Margaret Mitchell con “Via col vento” , a Marcel Proust con la sua opera sterminata “Alla ricerca del tempo perduto”. E ci sono altri scrittori, invece, che sfornano addirittura un libro all’anno, come se fossero bruscolini, per favorire l’ingordigia insensata di un mercato diventato, paradossalmente, tanto più ricco di libri quanto più povero di lettori.  E non sono affatto libri di poche pagine, ma tomi grossi quanto un vocabolario. Mi riferisco - in particolare - a Ken Follett, il noto scrittore britannico che va tanto di moda (ma se la letteratura segue la moda, ha già fallito), i cui adoratori (credo siano parecchi milioni nel mondo) rendono ogni suo romanzo un bestseller a livello internazionale. Premetto che non l’ho mai letto: i thriller di spionaggio camuffati da romanzi storici non mi entusiasmano; e poi – lasciatemelo dire – ho una certa idiosincrasia verso i libri del momento, i cosiddetti “casi letterari”. Preferisco quei libri “brutti”, dimenticati, invecchiati, che nessuno legge e nessuno promuove, i cui autori sono morti da tempo. Tuttavia,  non mi permetto di giudicare né la finezza della sua prosa che appassiona un pubblico così vasto ed eterogeneo, né di mettere in discussione le riconosciute capacità affabulatorie di uno scrittore come Follett, vera star del firmamento letterario dei nostri tempi. Di lui, Umberto Eco ebbe a dire: “mette in scena improbabili e inverosimili avventure, prendendo per i fondelli il pubblico. Le sue sono sciatterie nanesche”.

Credo che non sia facile scrivere un libro di successo e ancor di più scriverne uno all’anno, quasi a scadenze fisse: mi ricordano quei “cinepanettoni” realizzati sotto le feste natalizie. I lettori di Follett aspettano sempre con trepidazione e piacere la sua ultima fatica. E lui non li delude mai. Salinger impiegò dieci anni per scrivere “Il giovane Holden” e altrettanti ne impiegò l’autrice di “Via col vento”. A Robert Musil non bastò l’intera sua esistenza per portare a termine il suo capolavoro “L’uomo senza qualità”, tant’è che fu pubblicato incompiuto. Forse erano altri tempi. Quando questi autori scrivevano non pensavano ai diritti d’autore e non avevano dietro nessun editore che facesse pressione. Chi bazzica un po’ tra i libri sa certamente che il mondo editoriale e della scrittura è influenzato non tanto da logiche culturali e letterarie quanto di mercato. Certi scrittori, che a volte vengono esaltati dalla stampa e legittimati dai lettori, spesso non fanno che assecondare i gusti di una società omologata, realizzando molto spesso prodotti di indubbia qualità letteraria in linea con le mode del momento. Follett è un uomo ricchissimo: viaggia molto per promuovere i suoi libri, tiene conferenze in ogni parte del mondo, dice la sua su ogni avvenimento importante, viene ricevuto da ministri e autorità pubbliche, è ricercatissimo per una intervista. Ma dove trova il tempo per scrivere anche un libro di ottocento pagine, quasi ogni anno? Musil li chiamava “scrittori all’ingrosso”. “Lo scrittore all’ingrosso – scriveva Musil  ne L’uomo senza qualità – è il successore del principe dello spirito e corrisponde nel mondo spirituale alla sostituzione avvenuta nel mondo politico dei principi con i ricchi”.

Amo girovagare tra i banchetti dei mercatini dei libri usati. In quei posti ho trovato, e continuo a trovare, dei libri molto belli che non vengono più pubblicati dai gruppi editoriali, troppo impegnati a rincorrere  i “capolavori” dei volti noti della televisione e dello spettacolo: insomma gli scrittori alla moda, quelli che contano e vendono. Devo dire inoltre che, ovunque io vada, mi capita sempre di imbattermi in lunghe pile di romanzi di Ken Follett, le cui sagome massicce – con quelle copertine che si somigliano tutte – saltano subito agli occhi. Libri praticamente nuovi, come se nessuno li avesse mai sfogliati, al costo di 1/2 euro. Davvero non capisco come possa accadere che tali volumi, celebrati come bestseller, diventino poi miseramente prodotti usa e getta. Se io compro in libreria un libro che mi piace, spendendo qualcosa come 25 euro, recensito dalla critica e presentato come evento culturale dell’anno, non posso liberarmene (e mi sorge il dubbio che non sia stato neanche letto), portandolo al mercatino dell’usato, ma lo conservo gelosamente sui ripiani della mia libreria. Mistero! Eppure, non mi è mai capitato di vedere i volumi usati de  “la Recherche”  di Proust in fila a pochi euro, tant’è che l’intera opera l’ho comprata nuova in libreria. Vuoi vedere che quel “mattone” di Proust si preferisce conservarlo comunque, anche se la sua lettura risulta alquanto complessa, mentre invece quel “mattone” di Follett si abbandona dove capita, come un qualsiasi giornale già letto o come un qualsiasi libro di Bruno Vespa, perché la sua forza letteraria è solo passeggera e mediatica? Ai posteri l’ardua sentenza!


martedì 15 settembre 2020

D'Annunzio, il piacere, la bellezza, la divina Roma

 


Mi piace ritornare sui vecchi libri la cui lettura risale ad un lontano o recente passato. Mi piace ritrovare certi personaggi letterari (come quei vecchi amici che non vediamo da tempo), già incontrati una prima volta tra le pagine un po’ ingiallite di un romanzo,  che in qualche maniera avevano nutrito la mia immaginazione e la mia curiosità. Diceva il poeta russo Iosif Brodskij che tra uno scrittore e un lettore spesso si stabilisce una conversazione del tutto privata, un rapporto diretto senza intermediari, che poi diventa “un atto di reciproca misantropia”. E forse c’è qualcosa di più bello che stare in compagnia pur rimanendo in piacevole solitudine? E’ pur vero, però, che certi personaggi della letteratura, se avessimo la possibilità di incontrarli davvero nel mondo reale, non sempre potremmo accettarli come amici; perciò li osserviamo tra le righe con distacco e disincanto, ci piacciono, a volte ne siamo attratti perché non urtano mai la nostra suscettibilità, come invece potrebbe accadere se ci trovassimo a discutere con un qualsiasi nostro conoscente in carne ed ossa.

Andrea Sperelli, il protagonista de “Il piacere” di Gabriele D’Annunzio è uno di questi: personaggio emblematico della narrativa dannunziana, credo che nessuno meglio di lui incarni “l’alter ego” del grande scrittore. Stare in sua compagnia è come stare in compagnia del Vate. Un giovane aristocratico d’intelletto dai gusti raffinati, che predilige gli studi e ama circondarsi di cose eleganti e pregiate, un uomo educato al culto della bellezza, intorno alla quale gravitano tutte le sue passioni; ma è anche un uomo prigioniero di mille contraddizioni, vanitoso e viziato, ipocrita e amorale, che “dell’inganno e della menzogna si era fatto nella vita un abito” e che “nel grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e rare sommerge miseramente” intende “fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte”.

Gli anni romani di D’annunzio riaffiorano in questo suo primo romanzo, edito nel 1889. “Roma era il suo grande amore: non la Roma dei Cesari ma la Roma dei Papi; non la Roma degli Archi, delle Terme, dei Fori, ma la Roma delle Ville, delle Fontane, delle Chiese. Egli avrebbe dato tutto il Colosseo per la Villa Medici, il Campo Vaccino per la Piazza di Spagna, l’Arco di Tito per la Fontanella delle Tartarughe. La magnificenza principesca dei Colonna, dei Doria, dei Barberini l’attraeva assai più della ruinata grandiosità imperiale. E il suo gran sogno era di possedere un palazzo incoronato da Michelangelo e istoriato dai Caracci, come quello Farnese; una galleria piena di Raffaelli, di Tiziani, di Domenichini, come quella Borghese…”.

La “Divina Roma” – come viene da lui definita - è forse la vera protagonista del romanzo, sempre al centro della narrazione, con i suoi monumenti, i suoi palazzi, le sue piazze, le sue atmosfere. Per il protagonista ogni occasione è buona per ammirarla e descriverla e “saziarsi dello spettacolo”. L’altro giorno (apro una parentesi) mi è capitato di attraversare Piazza del Quirinale, mentre i soliti turisti (ancora pochi, a causa del covid) erano intenti in maniera quasi compulsiva a fotografarla e a filmarla impugnando l’immancabile smartphone: lo facevano senza guardare con attenzione, senza soffermarsi sui particolari, come una cosa dovuta. Mi sono ricordato, allora, (e rientro nel libro), delle raffinate e solenni parole con cui il protagonista del romanzo celebra quella piazza, quasi un atto d’amore verso la città eterna, direi un invito ad osservare con occhi estasiati la bellezza da cui siamo circondati. E ho pensato che se qualche volta provassimo a descrivere ciò che guardiamo, a scrivere su un foglietto le sensazioni che suscitano in noi certi luoghi, anziché fare migliaia di inutili fotografie da inviare ai social, forse saremmo migliori, acquisteremmo una diversa sensibilità, un differente approccio emozionale al bello.

Agli occhi di Andrea Sperelli – e mi piace qui riportare tutta la descrizione - “la piazza del Quirinale appariva tutta candida, ampliata dal candore, solitaria, raggiante come un’acropoli olimpica su l’Urbe silenziosa. Gli edifizii, intorno, grandeggiavano nel cielo aperto; l’alta porta papale del Bernini, nel palazzo del Re, sormontata dalla loggia, illudeva la vista distaccandosi dalle mura, avanzandosi, isolandosi nella sua magnificenza difforme, dando immagine d’un mausoleo scolpito in una pietra siderea; i ricchi architravi del Fuga, nel palazzo della Consulta, sporgevano di su gli stipiti e di su le colonne transfigurati dalle strane adulazioni della neve. Divini, a mezzo dell’egual campo bianco, i colossi parevano sovrastare a tutte le cose. Le attitudini dei Dioscuri e dei cavalli s’allargavano nella luce; le groppe ampie brillavano come ornate di gualdrappe gemmanti, brillavano gli omeri e l’un braccio levato di ciascun semidio. E sopra, tra i cavalli, slanciavasi l’obelisco e, sotto, aprivasi la tazza della fontana; e lo zampillo e l’aguglia salivano alla luna come uno stelo di diamante e uno stelo di granito. Una solennità augusta scendeva dal monumento. Roma, d’innanzi, si profondava in un silenzio quasi di morte, immobile, vacua, simile a una città addormentata da un potere fatale. Tutte le case, le chiese, le torri, tutte le selve confuse e miste dell’architettura pagana e cristiana biancheggiavano come una sola unica selva informe, tra i colli del Gianicolo e il Monte Mario perduti in un vapore argentino, lontanissimi, d’una immaterialità inesprimibile, simile forse ad orizzonti d’un paesaggio selenico, che suscitavano nello spirito la visione d’un qualche astro semispento abitato dai Mani. La cupola di San Pietro, luminosa d’un singolare azzurro metallico nell’azzurro dell’aria, giganteggiava prossima alla vista così che quasi pareva tangibile. E i due giovini Eroi cignigeni, bellissimi in quell’immenso candore come in un’apoteosi della loro origine, parevano gli immortali Genii di Roma vigilanti sul sonno della città sacra”

Andrea Sperelli, il protagonista de “Il piacere”, alla fine dovrà fare i conti con le proprie sconfitte sentimentali, il suo edonismo vissuto in forme estreme, il vuoto di valori e il disfacimento di una società che – già ai suoi tempi - al valore della bellezza aveva cominciato a sostituire quello del profitto. Insieme a questo giovane eroe decadente - così simile al Dorian Gray di Oscar Wilde o al barone Des Esseintes di Huysmans, che interpretano la vocazione più raffinata della cultura europea -  osserviamo il declino di un mondo e la morte di un ideale di bellezza di cui il ceto aristocratico doveva essere il principale custode.


martedì 8 settembre 2020

La società signorile di massa

 

Fino a qualche anno fa possedere un cellulare, guidare un suv, avere una laurea, potersi permettere una vacanza in una località esclusiva, significava essenzialmente appartenere ad una classe sociale elevata, un’élite. Erano condizioni, queste, che marcavano la propria diversità, direi quasi la propria superiorità nella scala sociale. Oggi, invece, uno smartphone ce l’hanno praticamente tutti (noi italiani siamo primi in Europa e terzi nel mondo); in giro si vedono solo suv, le altre macchine (molto più belle, secondo me) sembrano sparite dalla circolazione; una laurea ce l’hanno ormai cani e porci; le Seicelles o le Canarie sono diventate mete per chiunque. Insomma, quei requisiti che un tempo costituivano veri e propri status simbol, appannaggio dei “signori”, nella società globalizzata dei nostri tempi sono diventati usi e costumi standardizzati e di massa. Per distinguersi dalla massa ed avere un nuovo riconoscimento sociale, si è costretti a cercare nuove nicchie di vita e di comportamenti in cui potersi realizzare e sentirsi diversi. E allora, se la società di massa diventa paradossalmente signorile potendo accedere a quei consumi opulenti prima negati, cosa fa oggi chi vuole distinguersi da tale massa consumistica?

“Come farà l’1% della popolazione – si domanda il sociologo Luca Ricolfi nel suo interessante saggio intitolato “La società signorile di massa”  - a marcare la differenza col restante 99%? Qui la distinzione tende a farsi strada lungo due vie: l’astensione dal consumo (una sorta di “frugalità ostentatoria”), e i consumi etici, come gli acquisti “equi e solidali” e l’impegno pubblico, possibilmente visibile e proclamato, quando non in favore di telecamera. Volendo tentare un quadro approssimativo e per forza semplicistico, i veri signori, oggi, a differenza della massa dei nuovi signori, comprano pochi abiti e pochi oggetti; mai gioielli né argenteria; spogliano le loro case di quadri, tappeti e ninnoli vari; mangiano poco, ma bene; fanno (o meglio, fanno fare) marmellate con la frutta dei loro orti; invitano gli amici a casa e non al ristorante; leggono libri, preferibilmente di carta; si abbonano a giornali online, preferibilmente stranieri; non guardano programmi televisivi, ma le serie su Netflix; e per le vacanze non scelgono località di grido iperaffollate, ma preferiscono ritirarsi nelle loro avite proprietà di campagna, con piscina e servitù, defilati, riparati all’ombra di un bosco; o si rintanano sullo yacth di amici, girovagando anonimi per i mari, possibilmente senza mai scendere nei porti. Insomma, nell’epoca della condivisione e ostentazione, meglio evitare le folle e i “consumi cospicui”; nell’epoca dell’abbondanza, ricchezza e opulenza di massa, meglio abbandonare l’accumulo di beni materiali e uno stile di vita vistoso. La società signorile non di massa non può che affermare valori in controtendenza, per sottrazione, apparentemente dimessi e sotto tono: il silenzio, la campagna, il vuoto, la frugalità, l’artigianalità, l’essenzialità spoglia. Una “semplicità di vita” che assomiglia solo da lontano a un anticonsumismo, o a una decrescita felice, o a un pauperismo francescano: è una semplicità volontaria molto identitaria ed esclusiva, che si fonda su raffinatezza e cultura, e affonda le sue radici nelle origini familiari e in un’istruzione privilegiata. E’ il lusso di una vita nascosta anziché esibita, in un tempo in cui tutti invece si mostrano ed esibiscono…”

Ci si domanda come può una società essere “signorile”, ma nello stesso tempo di “massa”. E Ricolfi – che ha coniato tale definizione – ci spiega che così come nelle società signorili del passato esisteva un privilegiato gruppo sociale (costituito dai nobili, dal clero e dai guerrieri) che consumava senza lavorare e produrre, nell’attuale società - che è entrata in un regime di stagnazione o di decrescita - i giovani cittadini che non lavorano hanno superato quelli che lavorano; e pur non lavorando possono accedere a tutti i consumi opulenti (il cellulare, la macchina, i viaggi di piacere, il cinema…) grazie alle rendite e ai risparmi accumulati dalla generazione precedente. In altre parole, per “società signorile di massa” si intende una società apparentemente ricca in cui l’economia non cresce più e la maggioranza che non lavora e che accede al surplus è legata quasi sempre a quella che lavora attraverso le relazioni familiari di coniuge, figlio e genitore. Ma cosa accade quando il “giovin signore” dei nostri tempi mette al mondo un figlio? Con tutte le difficoltà esistenti, non potrà essere generoso nei suoi confronti, come i suoi genitori sono stati con lui. Insomma, se le prospettive di lavoro e di vita per i nostri figli sono quel che sono, quelle per i nostri nipoti sono a dir poco preoccupanti.



giovedì 3 settembre 2020

I vecchi dei paesi sono belli

 


Amo Franco Arminio: la sua poesia semplice e diretta, ma nello stesso tempo raffinata; le sue appassionate riflessioni sulla natura, sui sentimenti, sulla vita e sulla morte; la sua struggente attenzione ai paesi, “creature in bilico”, come si definisce lui stesso; la sua filosofia di vita, il suo modo di essere controcorrente e “rivoluzionario”, perché oggi “essere rivoluzionari significa togliere più che aggiungere, rallentare più che accelerare, significa dare valore al silenzio, alla luce, alla fragilità alla dolcezza”.

Franco Arminio – ha scritto Roberto Saviano – è uno dei poeti più importanti di questo paese. Egli ti stimola a leggere poesie ad alta voce e afferma che “il centro del mondo” non è molto lontano da te, “è nelle vie secondarie” e ti aspetta “dove non ti aspetti niente”. Franco Arminio ti invita a guardare le cose che ti circondano con dolcezza e con clemenza, a “chinarti su un mendicante”, a lottare “fino a rimanere senza fiato”, a non avere paura di “scendere verso il fondo a rischio di annegare”; ti invita a prestare attenzione “ a chi cade, al sole che nasce e che muore, ai ragazzi che crescono, attenzione anche a un semplice lampione, a un muro scrostato”.

Bisogna ripartire dai paesi, “riabitare i paesi”, come dice Franco Arminio. E per riabitare i paesi non servono soldi, perché quelli a volte li rendono più brutti, ma “servono piccoli miracoli, miracoli talmente piccoli che li possono fare uomini qualunque, quelli che vediamo in piazza, quelli a cui non chiediamo niente, quelli che ci sembrano perduti…per riabitare i paesi bisogna credere ai ragazzi che sono rimasti e a quelli che potrebbero tornare”. E poi bisogna credere  e avere fiducia nei suoi vecchi, perché

“I vecchi dei paesi

sono belli,

parlano una lingua che distende,

hanno un senso di innocenza,

e quando si lamentano

sembra che più nulla ormai li offenda.

Quando voglio stare bene al mondo

io so dove andare:

devo andare in un paese a parlare

con i vecchi”